L’economia è da sempre il metro di giudizio per eccellenza nelle decisioni politiche e militari egiziane. Come sta reagendo l’economia egiziana alla fase post-Mubarak? Perché proprio in questa delicata fase sembra rinunciare agli aiuti del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale? Quali sono i possibili risvolti nel gioco degli equilibri tra la sponda atlantica e il Medio Oriente e Africa del Nord?

L’Egitto sta attraversando un momento di forte crisi economica: l’inflazione è salita al 12.1 % nel mese di aprile contro gli 11.5 % del mese di marzo, una recessione che era iniziata ben prima della crisi finanziaria mondiale e che è stata certamente il primo fattore a scatenare le note proteste di piazza Tahrir al Cairo: oltre 80 milioni di egiziani infatti vivono al di sotto della soglia di povertà dei 2$ giornalieri stabilita dalla Banca Mondiale. Dagli anni ’70 a oggi gli egiziani hanno visto calare drasticamente il proprio potere d’acquisto e il proprio standard di vita il che, sommato al crescente tasso di disoccupazione giovanile, ha creato una miscela esplosiva che ha costituito terreno fertile anche per il recente cambiamento politico del paese. Dalla spesa pubblica troppo onerosa dell’epoca socialista del rais Nasser si è passati ad un piano di privatizzazioni sproporzionato rispetto al minimo tasso di crescita economica e di sviluppo industriale a cui l’Egitto stava andando incontro. Alle privatizzazioni imposte dal Washington Consensus attraverso i piani di sviluppo economico della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale non seguirono piani per l’implementazione dei posti di lavoro, ma solo tagli e licenziamenti nel neo settore privato. Attraverso operazioni poco trasparenti, gli stessi che prima controllavano il settore economico pubblico egiziano hanno rilevato negli anni ’70 e ’80 le industrie pubbliche con cifre nettamente inferiori ai loro effettivi valori di mercato. In questo modo, se il fine iniziale del piano di privatizzazione era quello di creare concorrenza per far fermentare l’economia, il settore economico egiziano rimase invece nelle mani della medesima classe politica che prima gestiva quelle stesse industrie per conto dello stato. Una casta che da una parte si guardò bene dal diversificare l’economia e incentivare lo sviluppo attraverso una reale e leale concorrenza industriale, e dall’altra non si sentì in obbligo a garantire ai lavoratori le stesse condizioni contrattuali precedenti.

Il reale potere d’acquisto degli egiziani calava, ma il PIL saliva: una serie di scelte politico-strategiche favorevoli agli USA attuate nella regione dai governi Sadat e Mubarak furono “ripagate” con finanziamenti, accordi economici, riduzioni del debito pubblico, ecc. e perfino “rimborsi” (come quello per l’alleanza egiziana agli USA nella Guerra del Golfo del 2003). Il risultato apparente era quello di un’economia in crescita, ma più che mai dipendente dagli aiuti esteri e condizionata dalle imposizioni che accompagnano tali aiuti.

I costi della rivoluzione

Dalla fine di Gennaio le perdite per l’economia egiziana toccano i 113 miliardi di sterline egiziane (circa 19 miliardi di dollari). Il crollo avanzava con un ritmo in negativo di 40 milioni al giorno. Il turismo, gli scambi commerciali, così come le attività finanziarie e bancarie sono rimaste ferme per circa due mesi, a cui si sono aggiunti i numerosi scioperi dei lavoratori appartenenti ai settori danneggiati. I mercati hanno riaperto solo a fine marzo, ma i continui scioperi hanno fatto calare le esportazioni del 40% allontanando così gli investimenti esteri.
Tuttavia, a dispetto delle perdite, le infrastrutture e il settore agrario non sono state danneggiate seriamente e questo, secondo il ministro dell’economia egiziano Samir Radwan, potrebbe costituire la base per una ricrescita economica del paese.

Secondo i rapporti della Banca Mondiale il rischio maggiore per la ripresa economica rimane sempre l’instabilità politica e la mancanza di certezze per il futuro che allontanano ancora oggi gli investimenti stranieri nel mercato locale e bloccano la ripresa del settore turistico. La BM guarda dunque ad un nuovo governo democratico e trasparente come la condizione necessaria per una risalita e per il ritorno di investimenti privati nel paese.

I recenti sviluppi della politica economica egiziana

Proprio alla luce dello storico rapporto economico e politico tra Egitto e USA, sembrerebbe una scelta in contro tendenza quella dell’attuale ministro dell’economia egiziano Samir Radwan che ha recentemente rifiutato gli aiuti del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. Trattative tra il Ministero dell’Economia egiziano e la BM risalivano già a maggio, quando Radwan aveva fatto richiesta di 2,2 miliardi di dollari per far fronte alle perdite economiche dei mesi precedenti, specie del settore terziario. Un primo ripensamento però si è creato a seguito dell’ultima tavola rotonda dell’Organizzazione Araba per il Lavoro, in occasione del quale il ministro egiziano ha sottolineato il necessario cambiamento di qualità nel criterio di distribuzione dei fondi, non più finalizzato ad ottenere una mera percentuale di crescita (così come era avvenuto fin’ora con i piani del FMI e della BM), ma diretto ad una reale partecipazione degli egiziani allo sviluppo economico.

Il nuovo governo transitorio sembrerebbe quindi voler avviare una certa autonomia economica rispetto ad eventuali condizionamenti esteri, abbandonando la politica degli aiuti. Il Direttore Generale del Fondo Monetario Arabo, Jassem al-Manee, ha poi fatto appello per un nuovo modello di sviluppo economico, focalizzato nei settori industriale ed agricolo attraverso il sostegno alle piccole e medie imprese, seguendo un modello che avrebbe già portato dei risultati positivi in Turchia e Malesia. In questa direzione sembrerebbero andare diverse recenti iniziative, tra le quali il sostegno alla creazione di 150 aziende che porterebbero ad un totale di 2.834 nuovi posti di lavoro.

Secondo stime della Camera del Commercio egiziana basterebbe un tasso annuale di crescita economica del 4,6% nel periodo 2011-2020 ad incoraggiare gli investimenti esteri diretti. Il ministro intende infatti ridurre il disavanzo del budget per il prossimo anno finanziario 2011/2012 da 170 miliardi di lire egiziane a ben 134,3 miliardi attraverso una maggiore apertura del mercato locale agli investimenti sia locali che stranieri, ma anche attraverso lo sviluppo del settore energetico, non più petrolifero, ma del gas. La crisi economica e la guerra in Libia hanno mostrato quanto mai la debolezza egiziana proprio rispetto al settore energetico, l’Egitto avrebbe un grande potenziale di gas e certamente l’attuale situazione geopolitica della regione giocherebbe a suo vantaggio qualora decidesse di investire massicciamente nel gas.

Il controllo USA nel MENA (Middle East and North Africa)

Tuttavia, a confutare ogni eventuale speranza di indipendenza è l’impegno USA nel cancellare entro i prossimi tre anni il 33% del debito egiziano (circa 3 miliardi di dollari) attraverso una serie di progetti di sviluppo e di investimenti ad alta intensità. L’amministrazione Obama ha diverse volte dichiarato di voler appoggiare la fase di transizione politica egiziana garantendo la continuità dei rapporti bilaterali Egitto-USA e ribadendo il ruolo dell’Egitto come partner arabo di eccellenza nelle relazioni USA in Medio Oriente e Nord Africa.

Il futuro panorama politico egiziano non è ancora molto chiaro, la cosiddetta primavera araba non ha ancora portato ad una vera rivoluzione, ma per il momento solo ad un regime change che ancora non ha portato ad un reale mutamento di struttura. Il protagonismo dei movimenti islamisti, primo fra tutti quello della Fratellanza Musulmana, preoccupa seriamente gli Stati Uniti che ancora non si sbilanciano circa eventuali rapporti con il movimento. Anzi, pur di mantenere lo status quo, il Segretario di Stato USA Hilary Clinton nella sua ultima visita al Cairo avvenuta a seguito della caduta di Hosni Mubarak, si rifiutò di incontrare il papa copto Shenuda III, preferendo una grave rottura diplomatica con il patriarca di Alessandria piuttosto che rischiare di attrarre le antipatie politiche delle forze islamiste. Non è possibile analizzare le relazioni internazionali del MENA singolarmente secondo un approccio realista o liberista. Il ruolo egiziano di partner USA nel MENA è insieme politico, militare ed economico, i delicati rapporti con Israele intrecciano sia le ambizioni militari che quelle economiche e la questione del gas ne è una conferma: l’impegno governativo nell’investire nel gas rafforzerebbe i rapporti commerciali tra Egitto, Israele e USA, Israele è infatti, insieme alla Giordania, uno dei principali clienti per il gas naturale egiziano, che costituisce circa il 40% del suo totale consumo di gas, ed ogni accordo tra i due stati avviene sotto il bene augurio della potenza statunitense che a sua volta concede altre agevolazioni e accordi all’alleato egiziano.

I continui sabotaggi ai gasdotti nel Sinai tuttavia, potrebbero mettere in seria difficoltà il governo di transizione così come un qualsiasi prossimo governo in carica: quello di luglio avvenuto ad est di al-Arish, a 50 km dal confine israeliano, è il quarto sabotaggio avvenuto dopo la deposizione dell’ex presidente Mubarak, i beduini (e non solo) che rivendicano gli attentati e i sabotaggi ai gasdotti condannano gli accordi di pace con Israele firmati dal presidente Sadat nel 1979 e premono affinché il governo prenda una posizione netta nei confronti dei rapporti con Israele. Una delle accuse formulate contro Mubarak era stata proprio quella di aver “servito” gli interessi USA e Israeliani piuttosto che quelli nazionali e arabi, con particolare riferimento alle posizioni governative circa l’ultima intifada a Gaza del 2008-2009. Continuare sulla stessa linea politica incondizionata di fedeltà all’alleato USA e quindi ad Israele potrebbe delegittimare qualsiasi futura forza politica al governo, ma allora fino a quando sarà possibile mantenere lo status quo? Questo è un azzardo che coinvolge in misure e modi differenti gli attori in questione: il governo di transizione non sembra voler modificare la linea economico-politica del precedente regime se non nella politica degli aiuti, e non sappiamo ancora se un futuro governo, guidato con molta probabilità da forze islamiste, vorrà seriamente prendere una posizione a riguardo.

Kawkab Tawfik è laureata in Lingue e Civiltà Orientali presso la Facoltà di Studi Orientali dell’Università La Sapienza di Roma. I suoi studi e le sue ricerche vertono soprattutto sul diritto musulmano e sulla politica egiziana.


Questo articolo è coperto da ©Copyright, per cui ne è vietata la riproduzione parziale o integrale. Per maggiori informazioni sull'informativa in relazione al diritto d'autore del sito visita Questa pagina.