Il principale attore dell’attuale fase del conflitto è Erdoğan, colui che ha avuto maggiore successo nell’essere una pedina nelle mani del suo padrone americano” (Bashar al-Assad in visita alle truppe sul fronte di Idlib, 22 ottobre 2019)[1].

È necessario procedere con estrema cautela nell’analisi e valutazione dell’accordo raggiunto a Soci tra il presidente russo Vladimir Putin ed il suo pari grado turco Recep Tayyip Erdoğan. Innanzitutto è bene sottolineare che, per quanto l’accordo rappresenti indubbiamente un momento cruciale in questa fase del conflitto siriano e (si spera) un approssimarsi alla sua fine, è abbastanza fuorviante trarre conclusioni affrettate lasciandosi prendere dall’entusiasmo per quella che sembra a tutti gli effetti una vittoria della diplomazia russa sulla strategia di destabilizzazione portata avanti dall’Occidente nella regione.

In primo luogo, a chi parla di un “cambio di proprietà” e di una sorta di “passaggio di consegne” tra potenze egemoni nel Vicino e Medio Oriente, sarà sufficiente mostrare una cartina dell’area che evidenzi la presenza militare nordamericana in confronto con quella russa. Con l’esclusione del solo Iran, gli USA ed i loro alleati sono ancora presenti in tutti i Paesi dell’area ed il numero delle loro unità è recentemente aumentato a seguito della crisi nello Stretto di Hormuz. Dunque, si è ancora ben lontani da “svolte epocali” e dal disimpegno statunitense nell’area.

In secondo luogo, per quanto potenzialmente positivo, la bontà di un simile accordo, a prescindere dalla mera propaganda, si valuta nel medio-lungo periodo e non a poche ore di distanza dal momento in cui viene stipulato.

Fatte queste necessarie considerazioni iniziali, si rende indispensabile analizzare i punti principali di questo accordo. Esso prevede: a) l’impegno a preservare l’unità politica e territoriale della Siria (un imperativo “putiniano”); b) il dovere di garantire la sicurezza nazionale della Turchia; c) la necessità di combattere il terrorismo sotto tutte le sue forme; d) l’obbligo di contrastare le tendenze separatiste in territorio siriano.

A questi punti è stato aggiunto un protocollo di intesa, concernente l’operazione militare turca “Sorgente di Pace”, che sancisce il mantenimento dell’attuale status quo nella Siria nordorientale; il disarmo delle milizie curde e il loro ritiro ad una distanza di 30 km dal confine turco-siriano; il dispiegamento di pattuglie russo-siriane nelle aree di confine non sottoposte all’operazione militare turca; il pattugliamento congiunto russo-turco in una zona a 10 km dal confine delle aree sottoposte all’operazione “Sorgente di Pace”[2].

Non ci sono dubbi che, in questo preciso momento del conflitto, un simile accordo rappresenti la migliore soluzione per evitare una sua nuova recrudescenza (opzione sperata dal Pentagono dando il nulla osta all’operazione militare turca) e per garantire una ulteriore e “pacifica” riconquista di territorio siriano da parte del legittimo governo di Damasco.

In questo senso, tale accordo è stato definito con la consueta banale espressione anglosassone “win-win” per sottolineare che tutte le parti in gioco (Turchia, Russia e Siria) ottengono qualcosa. Oltre alla già citata riappropriazione di sovranità da parte di Damasco su regioni troppo a lungo escluse dal suo controllo, la Russia vede riconosciuti i suoi interessi in Siria ed i suoi sforzi per la stabilizzazione regionale; mentre la Turchia, come ha brillantemente sottolineato il collaboratore di “Eurasia” Amedeo Maddaluno, rimane ancorata a quella particolare “condizione esistenziale” che la rende immune dal dover pagare “geopoliticamente” per i propri evidenti errori.

Tuttavia, ad ottenere un “vantaggio” (neanche troppo indirettamente), è stato anche l’Occidente. Di fatto, la sceneggiata del ritiro delle truppe statunitensi ha sortito in parte gli effetti sperati. In una situazione estremamente complicata, Washington è riuscita ad ottenere (al momento) uno degli obiettivi che si era prefissata con il suo “ritiro strategico”: la presenza semipermanente dell’esercito di un Paese membro della NATO nel nord della Siria. L’altro obiettivo sarebbe stato uno scontro diretto Ankara-Damasco fortunatamente evitato dall’abilità diplomatica di Mosca.

Come si è cercato di dimostrare nel precedente articolo Il conflitto siriano ad un nuovo livello, l’operazione turca, nonostante le ipocrite condanne arrivate da molte cancellerie occidentali, è stata assolutamente sostenuta dalla NATO nella precisa consapevolezza che l’obiettivo reale non era affatto il genocidio del popolo curdo (al di là di talune atrocità commesse dai miliziani gihadisti che hanno accompagnato la campagna militare) ma consisteva nell’assicurare la presenza futura di un alleato tattico dell’Occidente nello scenario siriano. Ciò appare evidente dal fatto che gli Stati Uniti in primo luogo hanno ampiamente sostenuto i suddetti miliziani per tutto il corso del conflitto siriano (si parla di 21 gruppi armati dagli Stati Uniti)[3]; e dal fatto che, solo poco tempo fa, il presidente nordamericano ha approvato l’invio di 4,5 milioni di dollari in aiuto ai cosiddetti White Helmets ben connessi con gli ambienti del terrorismo gihadista[4].

Dunque, ben lungi dall’essere prossima alla disgregazione, come taluni erroneamente sostengono, la NATO è più solida che mai e lo dimostrano le continue pressioni nordamericane per l’aumento delle spese militari da parte dei Paesi membri (con l’Italia sempre in prima fila nell’eseguire gli ordini di Washington) ed il rafforzamento dei suoi effettivi in teatri di fondamentale valore strategico come l’Artico e l’Europa orientale.

C’è un altro aspetto da tenere in considerazione per ciò che concerne la Siria e che non è stato preso in considerazione nell’incontro di Soci: quello dei pozzi petroliferi. Come già sostenuto nel precedente articolo, il ritiro nordamericano dalla Siria non è stato affatto completo. Il ritiro ha riguardato solo le aree sottoposte all’operazione turca.

A questo proposito, il Pentagono ha ribadito che un contingente militare, in collaborazione con le cosiddette Forze Democratiche Siriane, rimarrà lungo la valle dell’Eufrate per assicurarsi che il petrolio siriano non cada nelle mani dell’ISIS o di “altri”[5]. Ed appare evidente che qui per “altri” si fa aperto riferimento al legittimo proprietario: il governo di Damasco.

Mantenendo la propria presenza nell’area (è riportato ad esempio che la base nordamericana di Ash-Shaddadi sia tuttora operativa e che truppe USA siano ancora presenti nel campo petrolifero di Al-Omar, uno dei più grandi della Siria), gli Stati Uniti mirano ad impedire che Damasco si riappropri di una regione ricca di risorse (non solo in termini di risorse energetiche ma anche idriche e agricole) la quale possa consentire un decisivo miglioramento della situazione economica del Paese. In questo senso, non sorprende affatto che forze mercenarie nordamericane stiano addestrando milizie di varia natura al sabotaggio delle infrastrutture petrolifere siriane nel momento in cui gli USA saranno costretti al ritiro totale[6].

Dunque, il conflitto siriano, nonostante i passi avanti, è ancora ben lontano dalla sua definitiva conclusione. Il fronte di Idlib, dove la Turchia continua a non far mancare il suo sostegno ai gruppi terroristi, rimane estremamente caldo. L’accordo di Soci rappresenta un fondamentale passo avanti della diplomazia, ma i suoi effetti si potranno valutare solo nel medio-lungo periodo e soltanto qualora gli impegni presi vengano mantenuti dalle parti. Tuttavia, il mai cessato utilizzo strumentale del gihadismo da parte di Ankara ed il suo alterno ruolo di “pedina” nordamericana e di interessato dialogante col fronte eurasiatico lascia delle ombre sul futuro del Paese levantino e sulle reali volontà dell’abile dissimulatore Erdoğan.

Infatti, Turchia e Stati Uniti concordano sul fatto che mantenere la Siria in una condizione di instabilità sia il miglior modo per prevenire non solo la commercializzazione da parte di Damasco delle proprie risorse, ma, anche e soprattutto, per impedire la costruzione di quel gasdotto Iran-Iraq-Siria (concordata sin dal 2012)[7] che comporterebbe un reale sconvolgimento dei rapporti di potere della regione, privando Ankara delle sue aspirazioni subimperialiste di potenza egemone.


NOTE

[1]President al-Assad meets army personnel on frontline in Idlib and Hama countryside, www.sana.sy.

[2]Si veda Turkey, Russia agree on new Syria accord, www.hurriyetdailynews.com.

[3]Si veda The US has backed 21 of the 28 ‘crazy’ militias leading Turkey’s brutal invasion of northern Syria, www.thegrayzone.com.

[4]Trump approves $4,5 milions in aid to White Helmets in Syria, www.rt.com.

[5]US troops will remain in Syria to ‘protect’ oil fields from ISIS, www.southfront.com.

[6]Si veda Vladimir Putin, Syria’s pacifier in chief, www.asiatimes.com.

[7]Ibidem.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).