Ad un osservatore fornito di spirito critico le recenti elezioni presidenziali francesi potrebbero offrire una buona occasione per riflettere su un paradosso clamoroso: il candidato uscito vincitore dalla competizione elettorale si è presentato ed è stato accolto come un indiscusso campione dell’“europeismo”, nonostante fosse palesemente sostenuto dai poteri della finanza mondialista e dai circoli atlantisti e nonostante la sua ideologia e i suoi progetti siano eminentemente occidentalisti.

Questo paradosso non riguarda soltanto Emmanuel Macron ed i suoi elettori francesi, ma tutto quanto lo schieramento politico che in Europa si definisce “europeista” e si riconosce nelle attuali istituzioni della cosiddetta Unione Europea. Esso consiste nel fatto che tali istituzioni e l’ideologia corrispondente svolgono un ruolo in ultima analisi funzionale ad una strategia qualificabile come extraeuropea ed antieuropea, in quanto contribuiscono in maniera decisiva ad incorporare l’Europa nell’Occidente, vale a dire nell’area geopolitica egemonizzata dagli Stati Uniti d’America.

La causa del paradosso in questione risiede nell’oggettiva ambiguità semantica di termini quali “europeismo” ed “europeista”. Lo scrittore tedesco Günther Maschke immagina che due uomini parlino tra loro dell’unione dell’Europa, credendo di condividere la medesima opinione. Invece, “uno vorrà l’unione dell’Europa in quanto tappa verso l’unione del mondo, favorita da una socializzazione uniformante dell’umanità, prodotta dalla tecnica e dall’economia, due fattori che renderanno superflua ogni politica. L’altro interlocutore, al contrario, vorrà l’unione dell’Europa per mettere un termine a tutte le tendenze universaliste verso l’unità del globo e alla dissoluzione di tutte le differenze esistenti tra le nazioni e le culture (…) Chi oggi parla di Europa deve anche dire chiaramente se intende servire ‘l’universalismo’ o il ‘grande spazio’, per riprendere due concetti cari a Carl Schmitt; se desidera la dissoluzione del mondo in una sola e unica unità pacificata, nella quale non vi sarebbe altro che un’unica politica interna mondiale, dove la pace sarebbe mantenuta con l’aiuto di espedienti di tipo poliziesco o se desidera un’organizzazione regionale dei poteri del mondo, organizzazione mediante la quale i popoli collaborerebbero tra loro, in serenità e nell’indipendenza reciproca”1.

L’“europeismo” ufficiale, rappresentato dalle posizioni che in questo dialogo immaginario ma verosimile sono enunciate dal primo interlocutore, è in realtà un’ideologia antieuropea, in quanto si risolve nella negazione della sovranità europea a vantaggio di un “universalismo” incentrato sui “valori occidentali” e funzionale agl’interessi statunitensi . “Gli Stati Uniti d’Europa – teorizzava già negli anni Sessanta un portavoce di questo ‘europeismo’ mondialista – non possono essere il punto di arrivo ma solo il punto di partenza verso quell’ideale che la storia addita come meta futura e ultima dell’umanità: gli Stati Uniti del Mondo. In caso contrario, non faremmo che creare una nuova forma di nazionalismo, quello europeo, su scala più vasta”2.

Il secondo paradosso riguarda invece gli avversari del presunto “europeismo”, i quali, respingendo a buon diritto le attuali istituzioni dell’Unione Europea ma ignorando i principi elementari della geopolitica dei “grandi spazi”, si attestano su posizioni che sono anch’esse, benché in diverso modo, oggettivamente funzionali all’imperialismo statunitense. Nell’epoca delle potenze continentali, in un mondo costituito di grandi spazi in conflitto tra loro, l’appello nostalgico ad un ripiegamento su un’impossibile “sovranità nazionale” se non addirittura regionale (!) non è soltanto puerile ed irrealistico, ma è politicamente criminale, poiché condanna l’Europa alla divisione perpetua e quindi al mantenimento della sua condizione di colonia statunitense.

D’altronde le promesse elettorali di Donald Trump, scatenando illusioni e speranze circa un assurdo neoisolazionismo statunitense, hanno fatto momentaneamente riemergere, nei movimenti “sovranisti”, “nazionalisti”, “populisti” ed “euroscettici”, quella vena filoamericana che era rimasta sotterranea finché l’amministrazione di Obama e della Clinton, espressione della destra finanziaria neocon e della sinistra “politicamente corretta”, aveva fatto propria l’ideologia del pensiero unico neoliberale.

Travolti dall’entusiasmo per il nuovo liberator d’Oltreoceano, che secondo i loro auspici avrebbe dovuto liberare i Paesi europei dalla nuova tirannide tedesca, i “sovranisti” non riuscivano a capire che il nuovo amministratore delegato della superpotenza statunitense non avrebbe mai potuto né voluto invertire il corso di una strategia che da più di un secolo è rivolta al controllo del continente eurasiatico. Era infatti ovvio che anche Trump, come i presidenti che lo hanno preceduto, dovesse rendere conto delle sue azioni a quei “centri di potere dove si trova il quadro di comando da cui dipende la stessa Casa Bianca (…) i colossali gruppi finanziari che dominano l’economia”3. A Mosca, dove la Duma di Stato salutò l’elezione di Trump con un applauso unanime, toccò al presidente del Partito Comunista della Federazione Russa, Gennadij Zjuganov, di richiamare al realismo i suoi compatrioti rilasciando questa sobria dichiarazione: “Non mi aspetto cambiamenti nella politica americana, la strategia degli Usa non cambia mai: espansionismo e affermazione degli interessi nazionali”4.

La previsione sintetizzata nella frase “L’America non si isolerà”, scelta come titolo per lo scorso numero di “Eurasia”, non era dunque troppo difficile da formulare. Quanto meno, non per noi…

Così, tra classe politica “europeista” e opposizioni “antieuropeiste”, l’Europa prosegue nella sua deriva. Sottoposta agli effetti congiunti dell’invecchiamento demografico e del diluvio immigratorio extraeuropeo, della propaganda massiccia a favore di ogni anormalità e perversione, della sclerosi economica e del calo del suo genio creativo, dell’anomia sociale e dell’egoismo individualista, del terrorismo settario e di tutte le perturbazioni provenienti dal contesto internazionale, l’Europa si incammina verso la progressiva disintegrazione delle nazioni che la compongono e verso la dissoluzione della sua civiltà.

A questo scenario di decadenza e di morte un libro recente di Gérard Dussouy, professore emerito dell’Università di Bordeaux e autore di lavori attinenti alla geopolitica ed alle relazioni internazionali, come unica alternativa possibile contrappone la creazione di una sorta d’impero federale europeo che possa sottrarre gli Europei all’azione genocida del mondialismo e permetta loro di continuare ad esistere come tali. “Se intendono essere partecipi del gioco multipolare che si sta organizzando fra gli Stati Uniti e le potenze asiatiche, – scrive l’Autore – gli Europei non possono far altro che unirsi in uno Stato continentale. Questa scelta è indispensabile, se vogliono essere all’altezza delle immense sfide che vengono loro lanciate dall’evoluzione del pianeta e, in particolare, dalle relazioni con le due parti del mondo geograficamente più vicine all’Europa: il mondo musulmano e l’Africa”5.

Il progetto abbozzato da Dussouy non intende però rinchiudere l’Europa in un quadro geopolitico ristretto e sbilanciato in senso occidentale. “È chiaro – egli scrive – che l’avvenire dell’Europa è ad est, soprattutto se si pensa ad un’integrazione a medio termine della Russia. Sarebbe dunque giustificato considerare uno spostamento della capitale dell’Europa verso il centro del continente. Verso una città come Vienna, la cui tradizione imperiale si riflette nella sua architettura e che, soprattutto, si trova all’incrocio delle tre grandi aree culturali europee: la germanica, la latina e la slava”6.

Ci pare significativo che il libro di Dussouy rechi una prefazione scritta dallo scrittore militante Dominique Venner un paio di mesi prima di darsi volontariamente la morte nella cattedrale di Nôtre Dame, “per protestare contro il suicidio dell’Europa al quale egli assisteva da tempo”7 e per interpellarci con questa angosciosa domanda postuma: Quo vadis, Europa?


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  1. Günther Maschke, Unità del mondo e grande spazio europeo, in: Louis Sorel – Robert Steuckers – Günther Maschke, Idee per una geopolitica europea, Società Editrice Barbarossa, Milano 1998, p. 93.
  2. Andrea Dall’Oglio, Europa, unità e divisione, Dall’Oglio Editore, Milano 1962, p. 261.
  3. Manlio Dinucci, L’alternanza del Potere imperiale, “il manifesto”, 15 novembre 2016.
  4. “La Stampa”, 9 novembre 2016.
  5. Gérard Dussouy, Contre l’Europe de Bruxelles. Fonder un État européen, Tatamis, Paris 2013, p. 94.
  6. Gérard Dussouy, op. cit., p. 108.
  7. Alain de Benoist, Lo stile di un cavaliere dal cuore ribelle, in: Dominique Venner, Un samurai d’Occidente. Il breviario dei ribelli, Settimo Sigillo, Roma 2016, p. 207.
Claudio Mutti, antichista di formazione, ha svolto attività didattica e di ricerca presso lo Studio di Filologia Ugrofinnica dell’Università di Bologna. Successivamente ha insegnato latino e greco nei licei. Ha pubblicato qualche centinaio di articoli in italiano e in altre lingue. Nel 1978 ha fondato le Edizioni all'insegna del Veltro, che hanno in catalogo oltre un centinaio di titoli. Dirige il trimestrale “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”. Tra i suoi libri più recenti: A oriente di Roma e di Berlino (2003), Imperium. Epifanie dell’idea di impero (2005), L’unità dell’Eurasia (2008), Gentes. Popoli, territori, miti (2010), Esploratori del continente (2011), A domanda risponde (2013), Democrazia e talassocrazia (2014), Saturnia regna (2015).