Quasi due anni fa venivano festeggiati a Mosca i venticinque anni dalla riapertura dei canali diplomatici tra Russia e Israele, interrotti a seguito dell’aggressione preventiva dell’esercito sionista agli Stati confinanti nel 1967. In quell’occasione, il Presidente Vladimir Putin fece dono a Tel Aviv di un carro armato israeliano catturato a Beirut nel 1982 dall’Esercito siriano e conservato in un museo militare della capitale russa.

Il 9 maggio di quest’anno, in occasione della parata militare per la giornata della vittoria, Putin, nonostante le profonde divergenze nel contesto del conflitto siriano, ha scelto, ancora una volta, di invitare a Mosca il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, allarmando chi ha visto in questa mossa il segno di un progressivo “sganciamento” russo dall’Iran e dal cosiddetto Asse della Resistenza. Più o meno un anno fa, un’altra mossa russa scatenò gli stessi timori. Si trattava della disponibilità a riconoscere Gerusalemme come capitale dello “Stato ebraico”. Il presunto allarme rientrò immediatamente quando qualche analista più attento fece notare che nel comunicato si esprimeva la volontà di riconoscere Gerusalemme Ovest come capitale e non la Città Santa nella sua interezza. Dunque, più che una concessione al sionismo ed al suo sogno di vedere Gerusalemme “capitale indivisibile dello Stato ebraico”, l’azione russa andava interpretata come un monito a non andare oltre il consentito. E, di fatto, dall’inizio delle operazioni militari russe in Siria che, grazie allo sforzo congiunto con le forze governative e le sue milizie, Iran ed Hezbollah, hanno rovesciato le sorti del conflitto, spianato la strada verso la costruzione del mondo multipolare[1] e sancito il fallimento della guerra a rete ibrida dell’Occidente, il ruolo della diplomazia russa è stato essenzialmente quello di tenere a freno, quasi in una riproposizione del ruolo imperiale “catecontico”, i reiterati tentativi sionisti di determinare una recrudescenza bellica su vasta scala[2] e dagli esiti potenzialmente devastanti di quello che è già un conflitto mondiale localizzato in una dimensione spaziale ridotta. Si pensi al numero degli attori già coinvolti nel conflitto: Russia, Iran, forze governative ed Hezbollah da un lato; Israele, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, USA, Francia e Gran Bretagna dall’altro (con USA, Gran Bretagna e Francia addirittura presenti in modo illegale sul terreno dove hanno rimpiazzato di fatto lo Stato Islamico dopo il suo crollo) e con la Turchia che oscilla in modo pericoloso tra i due schieramenti.

La strategia russa, per quanto rischiosa, risulta nei fatti estremamente pragmatica. Mosca non ha alcun interesse ad esacerbare ulteriormente gli animi. Forte della riconquistata egemonia militare nella regione, non rispondendo direttamente agli attacchi israeliani in Siria, concede semplicemente una valvola di sfogo a Tel Aviv che, oltre a distrarre l’attenzione pubblica dai casi di corruzione che coinvolgono l’esecutivo in carica, cerca di riaffermare in modo abbastanza caotico (si veda la fallimentare presentazione di Netanyahu del dossier sul nucleare iraniano) una supremazia ormai perduta. Al contempo, Mosca cerca di evitare che le continue provocazioni del sionismo, terrorizzato dalla presenza delle guardie rivoluzionarie ai suoi confini, scatenino una reale reazione dell’Iran.

A questo proposito le dichiarazioni del diplomatico russo Leonid Frolov, riportate dal giornale sionista Times of Israel, su un presunto appoggio di Mosca ad Israele in caso di attacco iraniano[3], sono abbastanza eloquenti se si considera che l’Iran, dal 1979 ad oggi, al contrario proprio dell’entità sionista, non ha mai aggredito nessuno ma è stato spesso vittima di aggressioni.

L’intervento russo in Siria, di fatto, ha stabilito dei rapporti di forza nella regione che Israele non è ancora riuscito ad accettare. La sua superiorità aerea è stata apertamente messa in discussione dall’interconnessione tecnica tra i sistemi di ricognizione aerea russi e siriani[4]. I raid israeliani, presentati trionfalmente dalla stampa internazionale, nella realtà dei fatti hanno prodotto dei risultati ben poco efficaci nel panorama complessivo del conflitto: non ultimo, l’attacco missilistico avvenuto in concomitanza proprio con la presenza di Netanyahu a Mosca ed in larga parte sventato grazie al supporto tecnico dei radar russi. Una collaborazione che ha dato i suoi frutti anche in occasione dell’aggressione occidentale in risposta al presunto (e successivamente rivelatosi inesistente) attacco chimico delle forze governative nel momento in cui la sacca gihadista della Ghouta si apprestava a capitolare.

I mezzi di informazione occidentali, anche col preciso scopo di mettere in crisi l’asse geopolitico tra Mosca e Teheran (pilastro della multipolarità secondo la prospettiva del filosofo russo Aleksandr Dugin)[5], hanno spesso tentato di mettere in discussione il ruolo della Russia in Siria sottolineando una presunta comunione di intenti con Israele o quantomeno un’eccessiva mole di comunicazioni dirette tra Mosca e Tel Aviv. Un dato sì innegabile, visto che nel solo 2017 Netanyahu si è recato a Mosca ben quattro volte, ma che non tiene in considerazione gli scarsi risultati ottenuti dal premier israeliano in questi incontri. Netanyahu non solo non è riuscito a separare Mosca da Teheran (cosa che avrebbe poco senso visto che l’Iran è anche il principale compratore di tecnologia militare dalla Russia), ma non è nemmeno riuscito ad ottenere la creazione di una zona cuscinetto de-militarizzata nel sud della Siria (in prossimità con le Alture del Golan sotto occupazione sionista) in cui la Russia ha schierato circa 800 effettivi in larga parte di provenienza caucasica e dunque di religione musulmana. Una barriera che ha impedito ai reparti speciali dell’IDF operazioni di sconfinamento volte a rifornire in armi, equipaggiamento e dati di intelligence i gruppi ribelli. Non è un caso se il Ministro della Difesa israeliano Moshe “Bogie” Yaalon ha dichiarato: “preferiamo l’ISIS ai nostri confini”.

Dunque, Russia e Israele continuano a rimanere sulle sponde opposte del fronte. Non solo, lo studioso di origine marocchina Youssef Hindi, in un articolo dal titolo Russia, Europa e Oriente: la doppia strategia dell’impero per piegare Mosca ha sostenuto la tesi che Russia e Iran in Siria non stiano combattendo l’imperialismo statunitense ma quello giudaico[6]. Ciò che è certo è che gli obiettivi russi e israeliani nel lungo periodo sono totalmente divergenti: la stabilizzazione dell’area e la costruzione dell’unità eurasiatica nel primo caso; l’espansione ai danni dei paesi confinanti e la salvaguarda del ruolo di ipostasi occidentale nel Vicino Oriente nell’altro.

Tuttavia, sarebbe altresì impensabile negare l’esistenza di un rapporto diplomatico diretto Mosca – Tel Aviv. Il volume complessivo dei rapporti commerciali tra i due paesi si aggira intorno ai 2,5 miliardi dollari. A ciò si aggiunga che in Israele vivono oltre un milione di cittadini di origine russa (quasi il 20% della popolazione). Un risultato dell’infausta politica dell’amministrazione Clinton che negli anni Novanta del secolo scorso garantì un finanziamento di oltre 10 miliardi di dollari per reinsediare in Israele i migranti ebraici provenienti dalle ex Repubbliche Sovietiche[7]. Migranti che in larga parte andarono ad ingrossare la base elettorale dell’ala oltranzista del sionismo ed in particolar modo il Partito Israel Beitenu di Avigdor Lieberman, proveniente dalla Moldavia.

Israele non si è mai apertamente opposta a Mosca. Netanyahu in più di un’occasione ha enfatizzato il ruolo della Russia e la necessità di stringere con essa legami sempre più solidi per ragioni di sicurezza[8]. In quest’ottica rientrava anche l’astensione israeliana al voto ONU di condanna all’annessione russa della Crimea a seguito del colpo di stato atlantista in Ucraina.

Ma nonostante il presunto idillio è altresì vero che Israele si è opposto a tutti gli alleati regionali della Russia, tanto oggi quanto in epoca sovietica, e la sua strategia non si è mai sganciata da quella nordamericana.

Israele, come ben noto, contribuì in modo determinante, con la CIA ed attraverso il regime islamista pakistano di Zia ul-Haq, ad armare la guerriglia in Afghanistan[9], che fece sprofondare l’economia sovietica. Una vicenda abbastanza paradossale se si considera che fu proprio l’URSS il principale sostenitore della creazione di Israele nella seconda metà degli anni Quaranta, quando Stalin, ingannato dal carattere socialisteggiante del sionismo, dalle dichiarazioni della Germania nazionalsocialista in sostegno alla causa araba[10] durante il conflitto mondiale e dalle operazione terroristiche delle bande sioniste contro i britannici, anche per l’influenza dell’ambasciatore sovietico a Washington Andreij Gromiko in ottimi rapporti con l’Agenzia Ebraica, si illuse di poter usare Israele come strumento geopolitico in chiave antioccidentale[11].

Nel momento in cui il conflitto del 1948 venne interrotto dalla prima tregua, i sionisti, in evidente difficoltà nonostante la superiorità numerica sul campo e la totale inattività di cinque dei sette eserciti arabi coinvolti, violando le regole stabilite dal mediatore ONU (il conte Folke Bernadotte, successivamente ucciso proprio dai sionisti), ingrossarono le proprie fila e ricevettero ingenti armamenti tramite la Cecoslovacchia[12]. L’URSS fu la prima nazione a riconoscere Israele. Un errore che costò molto caro a Stalin e più in generale all’URSS se si considera che Israele ha fatto la guerra ad ogni alleato sovietico nell’area già dal 1956 con l’aggressione all’Egitto a seguito dell’accordo segreto di Sèvres con Francia e Gran Bretagna che addirittura imponeva un ultimatum ad un paese attaccato e non all’attaccante. Una strategia che è proseguita nel corso degli anni fino al primo tentativo di destabilizzazione della Siria con la ribellione, appoggiata da CIA e Mossad, dei Fratelli Musulmani a Hama nel 1982 e duramente repressa da Hafiz al-Asad.

Oggi, nonostante la malcelata ambiguità sionista[13], la Russia, in più di un occasione, ha apertamente affermato e garantito il diritto di Israele alla sicurezza. Lo stesso Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha spesso sottolineato l’inopportunità di ogni ulteriore preoccupazione a riguardo. Tuttavia, tale riconoscimento è subordinato al riconoscimento israeliano degli interessi russi nella regione. E l’interesse russo è essenzialmente quello della stabilità dell’area ed il netto rifiuto ad ogni ulteriore destabilizzazione che potrebbe inevitabilmente compromettere la sua progettualità geopolitica di lungo periodo. In primo luogo la realizzazione di un futuristico gasdotto che partendo dalla regione di Krasnoyarsk convoglierà verso Ovest, coinvolgendo Iran, Turchia e Siria, oltre 60 miliardi di m³ di gas sulle coste orientali del Mediterraneo. Progetto in evidente contrasto con quello East-Med volto allo sfruttamento dei giacimenti di gas del Mediterraneo orientale ed alla riduzione della dipendenza europea dal gas russo che rischia di sfociare nell’ennesimo casus belli tra Israele e Libano[14] ora che l’Alleanza 8 marzo guidata da Hezbollah, a seguito delle recenti elezioni, ha conquistato la maggioranza dei seggi in Parlamento.

Israele, in totale opposizione al concetto classico di deterrenza volto ad impedire che un nemico ti faccia del male sul tuo territorio, intima al “nemico” di astenersi dal fare qualcosa sul suo territorio (presunta costruzione di fabbriche per le forniture militari) o addirittura dal sfruttare le sue risorse naturali (condanna della decisione libanese di indire un bando internazionale sull’assegnazione del diritto di esplorazione nei presunti giacimenti di gas all’interno della sue acque territoriali ma al confine con quelle israeliane). Un’idea di deterrenza che risulta completamente priva di fondamento storico o di una qualsiasi legittimità sul piano del diritto internazionale ma alla quale l’opinione pubblica occidentale è stata abituata da anni di guerre imperialistiche mascherate da azioni di “polizia globale”.

Esiste anche un’altra dimensione,di questo conflitto, per lo più ignorata dagli analisti di geopolitica,  e direttamente collegata con la già citata funzione “catecontica” della Russia. 

In un testo redatto in francese nel 1985 e intitolato Prophètes et visionnaires de Russie, lo scrittore russo Aleksandr Volskij, prima ancora del crollo dell’Unione Sovietica, riscontrava una tendenza diffusa tra il suo popolo a riscoprire la pratica dell’Ortodossia. Allo stesso tempo individuava un rapporto diretto tra l’avvenire spirituale della Russia ed alcune profezie di fine XIX secolo che indicavano nella Russia l’unico vero bastione della cristianità che Dio mai avrebbe lasciato distruggere completamente[15].

Questa forza catecontica si sta apertamente palesando come freno all’autoannientamento dell’umanità: ciò che Martin Heidegger chiamava Selbstvernichtung, l’autodistruzione di ciò che distrugge. Ovvero, la possibilità di una conflagrazione nucleare determinata dalla bramosia di quel popolo sradicato (essenza stessa della modernità) che radicandosi nuovamente non ha prodotto altro che una mera imitazione dei modelli occidentali, sovvertendo al contempo i suoi stessi caratteri tradizionali.


NOTE

[1]Si veda tal proposito S. Vernole, La vittoria in Siria spiana la strada al multipolarismo, su www.eurasia-rivista.com.

[2]Recrudescenza nella quale si inserisce la non esattamente lungimirante scelta dell’amministrazione Trump di abbandonare unilateralmente il JCPOA (l’accordo sul nucleare iraniano) nonostante il rispetto dell’accordo da parte iraniana e nonostante lo stesso accordo fosse studiato per penetrare economicamente e culturalmente in Iran (una sorta di nuova westoxification) in modo da preparare nel lungo termine il tanto agognato “cambio di regime”.

[3]Russian official: If Iran attacks Israel we will stand with you, intervista di Raphael Ahren su www.timesofisrael.com.

[4]A. Crooke, Putin’s Great Bargain to Israel: Can Israle Digest It?, su www.strategic-culture.org

[5]A. Dugin, Osnovy Geopolitiki: Geopoliticheskoe Budushchee Rossii, Arktogeya, Mosca 1997, p. 158.

[6]Si consiglia anche la lettura di Messianismo e imperialismo su www.eurasia-rivista.com.

[7]T. G. Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Il Mulino, Bologna, 2015, p. 241.

[8]T. Lazaroff – Y. Lappin, Netanyahu: Deeping Ties With Russia Important For Israel Security, su www.jpost.com.

[9]Si veda a tal proposito R. Dreyfus, The Devil’s game. How the United States helped unleash fundamentalist Islam, Metropolitan Books, New York 2005.

[10]Si vedano a tal proposito S. Fabei, Guerra santa nel golfo, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1990, e S. Fabei, Una vita per la Palestina. Storia di Hajj Amin al-Husayni Gran Muftì di Gerusalemme, Mursia, Milano 2003. Si consideri anche che molti nazionalsocialisti in fuga dalla Germania occupata trovarono rifugio nei paesi arabi, in taluni casi convertendosi anche alla religione islamica. Johann von Leers, ad esempio, entrò in Islam assumendo il nome Omar Amin, mentre Otto Ernst Remer ebbe un ruolo di primo piano nell’armare il Fronte di Liberazione Nazionale in Algeria.

[11]Stalin, prima di incappare nell’errore di considerare il sionismo come un possibile strumento geopolitico per la politica mediorientale dell’URSS, desideroso di risolvere il problema ebraico entro i confini sovietici cercò di attuare un piano in opposizione al sionismo occidentale dal carattere marcatamente borghese e colonialista. Ovvero, creò un’enclave nazionale ebraica “sovietica” nell’estremo Oriente lungo il bacino del fiume Amur dopo un fallito tentativo di ri-locazione degli ebrei russi in Crimea.

[12]Si veda a tal proposito, L. Mlecin, Perchè Stalin creò Israele, Sandro Teti, Roma 2008, p. 153.

[13]Il già citato Youssef Hindi ha riportato come nel 2013, il principale alleato sionista nella regione, l’Arabia Saudita, per bocca del cosiddetto “principe dei terroristi” Bandar bin Salutan cercò, attraverso il ricatto economico, di convincere la Russia ad abbandonare Iran e Siria. Il rifiuto russo alla proposta determinò l’inizio del progressivo accerchiamento nordatlantico al paese transcontinentale culminato con il colpo di stato in Ucraina e l’inasprirsi del conflitto nel Vicino Oriente.

[14]Di fatto, Israele rivendica diritti esclusivi su  tutto il gas del Mediterraneo orientale attraverso il già sperimentato metodo di arrotondare per eccesso, con un abuso del concetto geopolitico di “fascia di sicurezza”, la delimitazione dei propri confini. Così i giacimenti di gas nelle acque territoriali libanesi diventano oggetto di disputa mentre ai palestinesi è impedito lo sfruttamento dei giacimenti Gaza Marine 1 e 2 al largo delle coste della Striscia.

[15]A. Volskij, I veri protocolli, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1993, p. 31.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).