In queste ore drammatiche il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama deve decidere se concedere il via libera al piano di attacco elaborato dagli strateghi militari del Pentagono.

Questi ultimi, tutt’altro che convinti della necessità di entrare in guerra, hanno infatti predisposto un tipo di intervento (condotto con il lancio di missili Cruise dalle portaerei statunitensi) estremamente limitato, da esaurirsi nel giro di tre giorni e a zero perdite per i propri soldati.

Sembra in effetti la riedizione della guerra del Kosovo (1999) richiamata da alcuni analisti in questi giorni, in quanto anche allora l’ex capo della Casa Bianca Bill Clinton si illuse che dopo due o tre giorni di bombardamenti aerei della NATO l’ex Presidente serbo Slobodan Milosevic si sarebbe arreso.

Quell’aggressione, condotta col pretesto delle “motivazioni umanitarie” e senza il via libera delle Nazioni Unite, durò in realtà 78 giorni e produsse alcuni effetti destinati a cambiare la geopolitica mondiale.

Le ricadute più rilevanti si manifestarono paradossalmente in Russia (che vide nella disgregazione della ex Jugoslavia lo specchio di quanto le sarebbe accaduto a breve se non avesse reagito), dove i servizi di sicurezza decisero nello spazio di pochi mesi di liquidare il corrotto Boris Eltsin (da tempo asservito alle potenze occidentali) e di condurre alla guida del Cremlino Vladimir Putin, un Presidente che le avrebbe restituito orgoglio e dignità.

Da questo punto di vista si può dire che il sacrificio dei Serbi servì alla salvezza dei Russi.

Se quindi l’occupazione del Kosovo e Metohija servì agli USA quale nuovo trampolino di lancio verso il Mar Caspio e il Vicino e Medio Oriente, fu però proprio allora che iniziò quella strategia di riscossa delle potenze eurasiatiche che ha mutato profondamente gli equilibri geopolitici del pianeta.

I tentativi di spezzare l’alleanza tra Mosca e Pechino sono risultati vani e la resistenza della Siria di Assad negli ultimi due anni è uno dei tanti fattori che gioca a suo favore.

Oggi, sotto la spinta del rinnovato attivismo saudita e in particolare del suo capo dei servizi segreti Bandar Bin Sultan, gli Stati Uniti si trovano a giocare una partita estremamente complessa e pericolosa.

Complessa perché è chiaro che la rielezione di Obama è stata resa possibile solo dopo la sua accettazione dell’antico progetto bushiano, che prevede l’edificazione del Nuovo (Grande) Medio Oriente sotto controllo nordamericano.

Fallita la carta “morbida” giocata con le “rivoluzioni arabe”, non rimaneva all’Amministrazione statunitense che riaggrapparsi alla sua unica certezza, quella costituita da un apparato militare che – nonostante il declino strategico statunitense – continua a rimanere imponente.

Ecco quindi la guerra alla Libia di Gheddafi, l’aggressione alla Siria di Assad (delegata temporaneamente da Washington ai suoi alleati regionali), i colpi di stato e la destabilizzazione dei paesi africani come la Somalia, la Costa D’Avorio, il Mali e il Sudan per fronteggiare l’avanzata cinese.

Con la prospettiva finale di colpire e mutare l’Iran, con le buone e con le cattive maniere, per controllarne le risorse energetiche e stritolare le potenze eurasiatiche rendendole dipendenti dall’acquisto di dollari ormai “carta straccia”.

Partita complessa anche per motivi strettamente “tecnici”.

Tutte le dispendiose guerre condotte dal 1991 ad oggi non hanno portato a Washington i frutti sperati.

Che si tratti dell’Iraq, dove gli sciiti al governo non solo parteggiano per la Siria di Assad ma privilegiano Cina ed India nelle forniture di petrolio, che si tratti dell’Afghanistan dove il Presidente Karzai non vede l’ora di liberarsi del controllo statunitense per rivolgersi a Pechino e a Nuova Delhi, che si tratti della piccola Serbia o addirittura dell’Egitto che tornano a guardare verso Mosca, questi conflitti hanno esaurito la spinta propulsiva degli Stati Uniti e dimostrato la loro inadeguatezza quali leader mondiali.

L’economia USA si trova alle prese con una nuova scadenza che il prossimo mese la costringerà ad innalzare a 17.000 miliardi di dollari il tetto del proprio debito per evitare il fallimento del paese, mentre le principali banche nordamericane vengono declassate dalle stesse agenzie di rating statunitensi e la prospettiva di un ulteriore “settembre 2008” si avvicina pericolosamente.

Ma la partita che Obama si appresta a giocare è anche molto pericolosa.

Se questi probabili due-tre giorni di attacchi missilistici sulla Siria dovessero avere luogo, non è invece facilmente prevedibile quanto potrà accadere.

Il calcolo statunitense è riassumibile nella volontà e nella prospettiva, tutta mediatica, di voler riaffermare al mondo che gli Stati Uniti con i loro alleati sono ancora la guida del pianeta e che la sfida lanciata da Mosca e da Pechino – manifestatasi platealmente con il “caso Snowden” – può essere vinta.

Gli analisti del Council on Foreign Relations e del Pentagono ritengono che la Siria non disponga di misure di reazione efficaci e che dopo questa lezione “morale” pian piano il governo di Assad verrà sgretolato, subendo l’analoga sorte di quello guidato da Milosevic (deposto un anno dopo la fine dell’intervento militare).

Questo calcolo dimentica però il mutamento della situazione geopolitica rispetto al 1999; se allora la Serbia si trovava isolata e venne difesa solo diplomaticamente da Russia e Cina, oggi la Siria di Assad si trova in una situazione decisamente più favorevole.

Teheran, innanzitutto, è legata a Damasco da un’alleanza di carattere militare che in caso di aggressione statunitense si estenderebbe automaticamente anche a Hizbollah in Libano.

Israele, in particolare, si troverebbe esposto ad una possibile rappresaglia iraniana e quello che è stato progettato per essere un intervento limitato rischierebbe di trasformarsi in una guerra regionale dalle conseguenze imprevedibili.

Tel Aviv, che non dimentica la lezione ricevuta in Libano nel 2006 e la figuraccia rimediata a Gaza nel 2009, desidererebbe forse intraprendere una nuova avventura ma diverrebbe l’agnello sacrificale dell’imperialismo statunitense.

Difficilmente Turchia e Arabia Saudita, che a parole smaniano di venire alle mani con la Siria, potrebbero partecipare ad una coalizione a fianco dei soldati di Tel Aviv.

Le rappresaglie di Russia e Cina nei loro confronti, poi, potrebbero essere non solo economiche ma anche militari, e sia ad Ankara che a Riyad sanno bene come la loro alleanza con gli Stati Uniti non rivesta più per Washington un carattere strategico.

L’umiliazione subita dalla Georgia nel 2008 è ancora un vivo ricordo e solo dei disperati come Hollande e Cameron possono sperare di far dimenticare i propri guai interni con un nuovo conflitto.

Ecco quindi che Obama si trova alle prese con un dilemma tutt’altro che facile: essere un nuovo Gorbaciov e traghettare in maniera pacifica l’inevitabile ridimensionamento statunitense o sognare di essere un nuovo Roosevelt, nell’illusione che una rinnovata “economia di guerra” possa rilanciare un paese ormai industrialmente destrutturato e finanziariamente fallito.

Ai siriani il difficile e gravoso compito di resistere, per consentire l’emergere definitivo del nuovo sistema multipolare non più a guida angloamericana e nel quale le controversie internazionali potrebbero non essere più risolte a colpi di cannoniere.

 

 

* Stefano Vernole  è redattore di “Eurasia”


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