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Il presidente Saddam Hussein è stato consegnato agli americani all’inizio del dicembre 2003, nei pressi di Ad-Dawr da un amico presso cui era nascosto. Secondo l’avvocato egiziano Mahmoud al-Mouni, egli sarebbe stato subito trasferito all’estero per essere interrogato, e poi riportato sul luogo della sua cattura. Quel che è certo è che, arrestato ufficialmente il 13 dicembre, è apparso spossato sugli schermi televisivi, come inebetito dall’assunzione di droghe. «Vederlo così umiliato, uscito dalla sua tana», dichiara Toby Dodge, dell’Istituto Internazionale di Studi Strategici (IISS), «[è] una tappa in più sul processo di liberazione mentale degli iracheni», organizzato ovviamente per demoralizzare la resistenza irachena. I «venti colloqui e cinque conversazioni ordinarie» dell’FBI, declassificate nel luglio 2009, non sarebbero che il remake soft degli infruttuosi interrogatori effettuati prima che lo si dichiari prigioniero di guerra. Sebbene realizzati prima della sua imputazione, e due anni prima della sua condanna a morte, «Mister George», il suo intervistatore, informava Saddam che «la sua vita volgeva al termine»!

«Tutto ciò è teatro», disse Saddam

La pena capitale, sospesa dopo l’invasione, era stata ristabilita «provvisoriamente» l’8 agosto 2004, dal primo ministro Iyad Allawi, per condannare a morte Saddam e i suoi compagni, a dispetto del principio di non-retroattività della legge della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Paul Bremer, capo dell’autorità provvisoria della coalizione (CPA), creò, nel dicembre 2003, un Tribunale Speciale Iracheno (TSI) senza curarsi della sua legalità o legittimità, inteso che ciò era un’emanazione del dipartimento di Stato della Giustizia degli Stati Uniti, potenza occupante. La costituzione del TSI non ha sollevato che proteste puramente formali, anche quando è apparso che i suoi regolamenti non erano stati oggetto di alcuna consultazione, che i suoi membri erano formati in Gran Bretagna per giocare un ruolo fissato sin dall’inizio, che nessun criterio di equità ed imparzialità è stato soddisfatto, neanche per la platea. Dal primo incontro, l’1 luglio 2004, il rais si presenta come «Saddam Hussein al-Majid, presidente dell’Iraq», rifiutò di riconoscere la legittimità del tribunale, respinse le accuse mosse contro di lui e dichiarò: «Tutto questo è un teatro; il vero criminale è Bush».

Per Muwafak al-Rubaie, direttore della Sicurezza Nazionale del regime di Bagdad, il processo a Saddam Hussein doveva essere quello del secolo e fare del nuovo Iraq un esempio da seguire. Non fu niente di tutto ciò. I giudici sono apparsi per quello che erano: della marionette nelle mani degli oppositori in aria di vendetta. Gli avvocati della difesa non ebbero mai accesso alla totalità dei dossier: trentasei tonnellate di documenti a carico raccolti dagli agenti dell’FBI non parlano l’arabo, né si poté verificare l’autenticità dei documenti consegnati. Contro di loro le minacce di morte si moltiplicarono, tra cui quella di Malek Dohane al-Hassan, ministro della Giustizia, che giurò di «farli a pezzi»! Tre di essi furono assassinati: Saadoun al-Janabi nell’ottobre 2005, Adil al-Zubeidi nel novembre 2005 e Khamis al-Obeidi nel giugno 2006. Le spoglia di quest’ultimo, rinvenute  presso Sadr City, sotto un manifesto dell’ayatollah Mohammad Sadek al-Sadr, padre di Moqtada, presentavano dei segni di tortura. L’avvocato era stato trascinato nel quartiere, incatenato alla parte posteriore di un pick-up. Abu Der’ra – il «Zarqawi sciita»  – aveva celebrato il suo assassinio offrendo alla popolazione locale un rinfresco ed invitando i passanti a tirare delle pallonate sul suo cadavere «per vendicarsi dei baasisti».

I giudici che non stettero al gioco dovettero dimissionarsi o furono scartati. Rizgar Muhammad Amin si ritirò alla fine di quattro mesi poiché i «politici» gli rimproveravano di non essere abbastanza severo. Sayeed al-Hamashi fu allontanato quando si scoprì che aveva fatto parte del partito Baas, Rauf Rashid Abdul Rahman poiché nativo di Halabja e Abdullah al-Amiri per mancanza di «neutralità». Egli aveva dichiarato che Saddam Hussein non era un dittatore! Bushra Khalil, avvocato libanese, sciita, fu espulsa non perché aveva stabilito un parallelo tra l’affare di Dujail, per il quale il presidente era stato giudicato, e quello di Abu Ghraib, ma in ragione della sua confessione. Khalil era la sola sciita nella difesa. Ciò infastidiva gli americani, dice, «poiché il dossier perdeva il suo carattere confessionale».

Riti barbari

Alla fine, Nouri al-Maliki, nuovo primo ministro, designò un membro delle brigate Badr, Mohammad al-Araiby, come giudice. I pro-iraniani volevano terminare in fretta, poiché correva voce che Donald Rumsfeld aveva proposto a Saddam di liberarlo in cambio di un appello rivolto agli insorti per deporre le armi. Il presidente aveva rifiutato. I pro-iraniani non volevano correre alcun rischio, ed oggi è noto che la resistenza aveva progettato di liberarlo attaccando la sua prigione, e che ci mancò poco a che l’operazione ebbe luogo.

Il verdetto cadde il 5 novembre 2006. Come previsto, il TSI condannò a morte Saddam Hussein, il suo fratellastro Barzan al-Tikriti ed il giudice Awad al-Bandar. Le 300 pagine giustificanti la decisione non furono consegnate alla difesa che il 22 novembre, per cui quest’ultima non ebbe il tempo di studiarle seriamente. Ad ogni modo, Saddam aveva imposto ai suoi avvocati di non chiedere la grazia. Come dirà un  membro dell’Unione dei giuristi iracheni: «Questo processo non è stato che una disgustosa farsa…»

La sentenza fu confermata il 26 dicembre. Le autorità occupanti avevano trenta giorni per fissare la data dell’esecuzione. Troppo. George Bush voleva che Saddam fosse giustiziato prima del nuovo anno cristiano e prima di un discorso che egli doveva pronunciare circa la sua nuova strategia in Iraq. La data dell’Aid al-Adha sunnita fu suggerita da Nouri al-Maliki che, sposandosi suo figlio proprio quel giorno, non prevedeva di assistere all’impiccagione, ma aveva ordinato di trasportare il feretro al suo domicilio per festeggiare l’esecuzione. Nella notte del 30 dicembre, gli americani lasciarono Saddam Hussein in mano ai suoi boia. La Hawza di Nadjaf aveva dato il suo avallo alla scelta della data, barbaro modo di far intendere agli iracheni che il potere religioso aveva cambiato mano, che il rito sciita prevaleva ormai nel paese.

L’esecuzione fu concepita come uno spettacolo multimediale. Una camera riprese ufficialmente l’evento, doppiato da uno o due telefoni portabili, tra cui quello di Muwafak al-Rubaie. Tutti speravano di veder crollare Saddam all’ultimo minuto. Il presidente è salito con calma alla forca tra gli insulti degli estremisti dell’Esercito del Mahdi, invitato per l’occasione. Moqtada al-Sadr era presente, ma ha smentito di aver partecipato, mascherato, all’esecuzione, come afferma con relativa foto un giornale saudita. Saddam ha risposto sarcasticamente ad uno di quelli che lo scherniva: «Hiya hiy al marjale?» («È questa la tua virilità?»), replica che risale ai tempi antichi dell’Arabia e dell’Islam, intraducibile letteralmente poiché unente virilità e coraggio, fierezza e valori cavallereschi. Ad un altro che gli aveva detto di andare all’inferno, rispose che l’inferno era ciò che era diventato l’Iraq. La corda al collo non gli lasciò il tempo di terminare la Shahada, la professione di fede dei musulmani. La botola si aprì sotto i suoi piedi. Dei fanatici si fiondarono sul cadavere per tentare di sgozzarlo. Come previsto, il suo feretro fu esposto presso Nouri al-Maliki per allietare gli invitati al matrimonio di suo figlio. Il corteo funebre prese in seguito la strada per Al-Awja, presso Tikrit, dove la sua tomba è diventata un luogo di pellegrinaggio.

(traduzione a cura di Matteo Sardini)


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