Quella che sembrava essere un’inesorabile avanzata si è bloccata alle porte di Tripoli trasformandosi in una sanguinosa guerra di posizione che, al momento, non sembra poter avere sbocchi. Dall’istante in cui l’ENL – Esercito Nazionale Libico si è avvicinato alla capitale dello Stato nordafricano, i mezzi di informazione occidentali e diversi analisti geopolitici hanno cercato di interpretare lo scontro in atto seguendo rigidi schemi dicotomici incapaci di comprendere la complessità del gioco di strategie messe in campo dagli attori coinvolti in questo scenario. Qui si cercherà di fare chiarezza su questo punto, nella consapevolezza che l’Italia, principalmente a causa della sua stessa insipienza, è ormai fuori dai giochi.

 

Khalifa Haftar non è mai stato un grande comandante militare. Muammar Gheddafi ebbe modo di constatarlo durante la guerra libico-ciadiana, quando, nel corso dell’ultima fase del conflitto (conosciuto come “Guerra delle Toyota”), il generale venne fatto prigioniero dalle truppe ciadiane guidate da Hassan Djamous, sostenute, in quell’occasione, anche da Francia, Egitto e Stati Uniti[1].

Originario della tribù al-Farjan, presente in tutta la Libia, Haftar ebbe un ruolo di rilievo sia nella Rivoluzione che portò al potere il colonnello, al quale rimase fedele sino alla fine degli anni Ottanta, sia nella guerra arabo-israeliana del 1973, quando fu uno dei primi ad attraversare il Canale di Suez rompendo le linee difensive sioniste[2].

Dopo l’esilio nordamericano a seguito del disconoscimento di Gheddafi, il generale è tornato alla ribalta nel contesto del conflitto scaturito dall’aggressione NATO alla Grande Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista come comandante militare dell’Esercito Nazionale Libico, braccio armato del governo di Tobruk.

La recente avanzata verso Tripoli (come si era avuto modo di dimostrare in un precedente articolo pubblicato sul sito di “Eurasia”)[3] aveva colto di sorpresa solo gli analisti più sprovveduti, visto che le operazioni militari dell’ENL erano iniziate addirittura mesi prima di aprile. Tuttavia, il suo approssimarsi alla capitale ha scatenato le più svariate congetture (con prove più o meno fondate) su chi realmente si nasconda (e perché) dietro “l’uomo forte della Cirenaica”.

È bene innanzitutto chiarire che il panorama libico attuale è estremamente complesso e suscettibile di continue evoluzioni ed oscillazioni. E, almeno all’apparenza, sembrerebbe contraddire l’interpretazione geopolitica costruita sullo scontro tra due blocchi contrastanti: l’Occidente (a guida nordamericana) e quello che si potrebbe identificare come “blocco eurasiatico” (a guida sino-russa).

Ma dietro questa apparenza si nasconde un ben più complesso gioco di strategie che, anziché negare tale interpretazione, la rinforza ulteriormente.

In primo luogo è necessario porsi una domanda: chi ci guadagna dall’attuale situazione di stallo del conflitto? Nel già citato precedente articolo, dal titolo Il conflitto libico a una svolta, si era sostenuta la tesi (oggi ancora più valida) che l’interesse reale degli Stati Uniti sia quello di mantenere la Libia nella condizione di Stato fallito. Dopo l’iniziale condanna ufficiale dell’offensiva militare dell’ENL pronunciata dal Segretario di Stato Mike Pompeo, l’amministrazione Trump sembrerebbe essersi improvvisamente ricordata che Haftar, in fin dei conti, è anche un uomo degli USA.

Così, a seguito della presunta amichevole telefonata tra il presidente nordamericano ed il generale, l’inquilino della Casa Bianca si sarebbe deciso a sostenere lo sforzo dell’ENL per liberare la Libia dai gruppi terroristici, abbandonando sia il debole governo di Tripoli (per quanto internazionalmente riconosciuto), sia le promesse della “cabina di regia congiunta” rivolte all’altrettanto geopoliticamente debole Italia.

Taluni hanno interpretato la mossa di Washington come una sorta di “vendetta” per mettere in scacco l’Italia dopo il sì del governo giallo-verde al progetto infrastrutturale cinese noto come “Nuova Via della Seta”. Tuttavia, la realtà è ben diversa. E l’Italia, quanto la Francia (a prescindere da certa retorica “sovranista”), in questo contesto, hanno un ruolo del tutto marginale.

Torniamo ai fatti. È importante sottolineare nuovamente che l’offensiva di Haftar è iniziata ben prima della telefonata di Donald Trump. Ed è altrettanto importare sottolineare che L’ENL ha potuto finora sostenere il costo della sua offensiva militare attraverso una “linea vitale” costituita da “bond non ufficiali, denaro stampato in Russia e depositi nelle banche dell’est”[4].

La Russia, sin dal 2017, ha mostrato una certa vicinanza al generale, ben consapevole del rischio che quest’ultimo, da un momento all’altro, potesse nuovamente ricadere nelle mani degli USA. Tale vicinanza è stata recentemente dimostrata anche dalla partecipazione del vice di Haftar, Kheiri al-Tamimi, alla “Conferenza sulla Sicurezza Internazionale” tenutasi a Mosca il 24 aprile[5].

Haftar, di fatto, rappresenta una sorta di scommessa per la Russia. Appoggiando un personaggio estremamente pragmatico, e dal passato più che ambiguo, gli strateghi del Cremlino hanno deciso di sostenere lo sforzo per la stabilizzazione della Libia, sperando di poter costruire un solido triangolo di cooperazione nel Mediterraneo orientale tra Libia, Egitto e Siria (è proprio l’Egitto a spingere attualmente per la riammissione della Siria all’interno della Lega Araba), un triangolo volto a scardinare il dominio esercitato sulla regione dall’asse Tel Aviv-Riyadh-Washington.

Della rapida penetrazione geoeconomica della Russia in Libia ed Egitto si era già parlato nell’articolo Nuovi scenari geopolitici del conflitto libico[6]. Qui, è necessario ribadire che l’obiettivo di Mosca, al momento, consiste nello sventare sul nascere la possibile formazione di quella NATO araba che, nella prospettiva geopolitica di Washington, dovrebbe costituire una forza di contenimento del “blocco eurasiatico” nella regione. A tale scopo, gli sforzi di Russia e Cina si sono concentrati proprio sull’anello più forte militarmente e demograficamente, ma economicamente più debole, del piano nordamericano: l’Egitto di al-Sisi.

È un dato di fatto che senza l’Egitto la MESA – Middle East Strategic Alliance morirebbe sul nascere. Ed è in quest’ottica che si deve interpretare l’estremo attivismo della diplomazia russa ed una certa comunione di intenti col Cairo per quanto concerne lo scenario libico. Non è un caso se al recente Forum di Pechino sulla Nuova Via della Seta il presidente egiziano era seduto proprio vicino a Vladimir Putin ed a Xi Jinping. L’Egitto, per la sua stessa fondamentale posizione geopolitica, non può che avere un ruolo di primo piano nel progetto infrastrutturale cinese. E non è un caso se, dopo il referendum che ha prolungato il suo mandato fino al 2030, lo stesso al-Sisi ha sfilato l’Egitto dalla NATO araba, con la precisa volontà di garantirsi una maggiore capacità di autonomia in politica estera[7].

Inoltre, non è neanche da sottovalutare il fatto che proprio nel Vicino Oriente la Cina sta già da tempo mettendo in serio pericolo l’egemonia nordamericana nel mercato degli armamenti. Non sorprende dunque che i droni Wing Loong utilizzati da Haftar nei suoi bombardamenti sulle posizioni delle milizie gihadiste, strette a difesa di Tripoli, siano di produzione cinese.

L’Egitto, infatti, principale sostenitore di Haftar, è uno dei maggiori acquirenti di tecnologia militare cinese. Ma anche altri Paesi della regione, come la Giordania, si stanno convertendo al più vantaggioso mercato cinese per quanto concerne l’industria degli armamenti[8]. Di questa tendenza si sono resi conto a Washington sin dall’aprile del 2018, quando il Dipartimento di Stato ha annunciato una nuova politica in relazione all’esportazione dei droni, volta a rimuovere le barriere al mercato globale e ad evitare che altri competitori traggano vantaggio dalle sue limitazioni[9]

Ora, è evidente che gli USA non possono permettersi di perdere una pedina fondamentale della loro strategia geopolitica come l’Egitto, né, tanto meno, che il progetto MESA, fortemente voluto anche dall’entità sionista, fallisca sul nascere.

La risposta, infatti, non si è fatta attendere. Improvvisamente, a Washington si sono ricordati che Haftar è, tra le altre cose, cittadino americano. E quasi a sorpresa, dopo avere a lungo utilizzato la Fratellanza Musulmana, nemica mortale di al-Sisi, per le sue azioni di destabilizzazione, Washington la inserisce nella lista delle organizzazioni terroristiche[10].

Lo scacchiere libico, tuttavia, si fa ancora più complesso quando, nonostante il presunto appoggio a Haftar, Washington rifornisce contemporaneamente le milizie di Misurata, col preciso obiettivo di mantenere la Libia in una situazione di instabilità[11]. Tale complessità si manifesta ulteriormente quando quelle stesse milizie vengono appoggiate, paradossalmente, anche dall’Iran.

Risulta infatti che una nave cargo iraniana, sottoposta a sanzioni USA, sia arrivata tra il 18 ed il 20 aprile a Misurata, dove avrebbe scaricato diverse attrezzature militari: in particolare missili Khaibar-1[12].

Alla città di Misurata, trasformatasi in una sorta di città-Stato nel contesto del conflitto, appartengono quelle milizie che nel 2011 si resero protagoniste del linciaggio del morente colonnello Gheddafi. Oggi queste milizie sono appoggiate da Turchia e Qatar; due Paesi che hanno svolto un ruolo di primo piano nella destabilizzazione sia della Siria sia della Libia, prima del loro (più o meno voluto) avvicinamento al “blocco eurasiatico”. La Turchia, pur rimanendo membro della NATO, è da tempo nel mirino degli Stati Uniti, che ne studiano le mosse nel contesto siriano. Invece il Qatar, un’entità economico-finanziaria che ospita la più grande base nordamericana nel Levante, è stato costretto dall’embargo saudita (dovuto all’irritazione di Riyadh per il tentativo di Doha di acquisire un ruolo di guida all’interno del mondo arabo-sunnita) ad un momentaneo avvicinamento all’Iran, sebbene allo stesso tempo esso cerchi, tramite l’intercessione del neutrale Oman, di rientrare nelle grazie dei Saud.

Lascia quanto meno interdetti il sostegno iraniano alle suddette milizie. Se è vero che l’Iran ha spesso sostenuto gruppi militanti sunniti come Hamas (ramo palestinese della Fratellanza Musulmana che nella sua fase di sviluppo poté godere anche della benevolenza del Mossad che pensava di utilizzarlo per distruggere l’unità dell’OLP), è altrettanto vero che proprio i pasdaran hanno combattuto analoghi prodotti creati in vitro nel contesto del conflitto siriano. Senza considerare che proprio in Siria, in queste ore, si sta preparando l’offensiva su Idlib, dove sono tuttora presenti forze sostenute da Turchia e Qatar e variamente collegabili ad al-Qaeda.

Tuttavia è ben noto che il mondo islamico sciita non ha mai nutrito grande simpatia per la Libia sin dall’epoca della sparizione dell’Imam Musa al-Sadr, che venne imputata a Gheddafi.

Resta da capire se questo approccio ideologico iraniano metterà a rischio il più pragmatico progetto sino-russo di coinvolgimento dell’Egitto, in pessimi rapporti con la Turchia, nella decostruzione dell’egemonia statunitense nel Mediterraneo, punto di arrivo della Nuova Via della Seta.

Se la geopolitica nordamericana si è sempre fondata sul divide et impera; quella eurasiatica si fonda sull’unione. Ma tale unione non può prescindere dall’unità di intenti.


NOTE

[1]Kenneth M. Pollack, Arabs at War. Military Effectiveness 1948-1991, University of Nebraska Press, 2002, p. 396.

[2]https://tass.ru/opinions/6339188

[3]https://www.eurasia-rivista.com/il-conflitto-libico-a-una-svolta/

[4]https://www.startmag.it/mondo/chi-ha-finanziato-in-libia-haftar-e-perche-le-casse-della-cirenaica-non-sono-floride/

[5]https://www.themoscowtimes.com/2019/04/24/aide-to-libyan-commander-visits-moscow-as-a-sign-of-haftars-closeness-to-russia

[6]https://www.eurasia-rivista.com/nuovi-scenari-geopolitici-del-conflitto-libico/

[7]http://piccolenote.ilgiornale.it/40075/al-sisi-sfila-egitto-dalla-nato-araba/

[8]http://sicurezzainternazionale.luiss.it/2019/05/03/droni-bombardano-tripoli-ruolo-nascosto-della-cina/

[9]https://www.state.gov/r/pa/prs/ps/2018/04/280619.htm

[10]Si veda Robert Dreyfuss, Devil’s game: How the United States helped unleash fundamentalist Islam, Metropolitan books, New York 2005.

[11]https://www.agenzianova.com/a//libia-fonti-locali-a-nova-militari-usa-giunti-nella-citta-di-misurata-via-mare/

[12]https://www.addresslibya.com/en/archives/


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).