Oltre a essere irrilevante, l’Europa babelica e disunita
è in ultima analisi responsabile dello strapotere americano
Sergio Romano (*)

L’Europa irrilevante, ossia una nullità geopolitica

Dobbiamo a malincuore constatare che l’Unione Europea dei 27, parvenza di un’Europa politica, è attualmente soltanto un’ “espressione geografica” tra la Russia e il Mediterraneo: una vera e propria nullità sul piano geopolitico. Dal punto di vista geostrategico, invece, essa costituisce la testa di ponte degli USA lanciata sulla massa euroafroasiatica. Per quanto riguarda poi il proprio stato di salute economico e finanziario, i Paesi dell’Unione possono vantare il primato di aver distrutto, nell’arco di appena due decenni, un equilibrio sociale – precario e debole quanto si voglia e certamente bisognoso di sostanziali e radicali correttivi. Un equilibrio che, tuttavia, giacché imperniato sullo stato sociale, costituiva un poderoso elemento di coesione nazionale ed europeo, nonostante le tensioni pure gravi che hanno costellato la storia europea degli ultimi trent’anni. Ma l’errore maggiore è stato quello di non aver costruito alcunché di alternativo, e neanche di prospettare un’ipotesi valida per la costruzione di un’Europa attenta alle questioni sociali ed alla stabilità economica. L’ubriacatura neoliberista, inaugurata dal thatcherismo, ha attraversato tutta la cultura “politica” dell’Europa continentale, esprimendosi, in nome di un’unilaterale concezione della “modernizzazione”, in pratiche antisociali, e, soprattutto, asservendo drammaticamente le scelte politiche e gli interessi – nazionali ed europei – alle logiche economiciste ed espansioniste del vivace ed aggressivo turbocapitalismo d’Oltreoceano. Le dinamiche economico-sociali del neoliberismo degli ultimi anni hanno avvantaggiato soltanto esigui e selezionati ceti europei e aumentato il divario tra “ricchi” e “poveri” (1).

Sul piano culturale, le cose non stanno di certo meglio. L’industria culturale di massa, quella che in particolare determina i comportamenti delle nuove generazioni (anche di quella parte di esse che si vorrebbe antagonista ed alternativa), appare totalmente dominata dagli stereotipi d’Oltreatlantico, come peraltro quella di élite. Le classi dirigenti europee, siano esse politiche, economiche, finanziarie o intellettuali, mallevadrici dell’american way of life, sono in gran parte cooptate nelle strutture di dominio statunitense. Il loro operato sembra dunque rispondere a egoistici interessi di casta e, soprattutto, almeno a partire dalla prima guerra del Golfo, a quelli economico-finanziari di Wall Street e a quelli strategici di Washington.

Il soft power statunitense ha vinto le ritrosie anche di quei settori della sinistra europea, in larga parte tradizionalmente antiamericana, e di quegli strati delle destre nazionali più attenti agli interessi continentali.

La strategia della cooptazione si è rivelata esemplare e vittoriosa, ultimamente, nel caso della elezione dei “transatlantici” Angela Merkel Kasner e Nicolas Sarkozy (2) ai vertici dell’area pivot per eccellenza dell’Europa occidentale: lo spazio franco-tedesco. La nuova dirigenza franco-tedesca, in sintonia con i dettami della politica estera statunitense e britannica, sembra intenzionata a seppellire, definitivamente, ogni tentativo di “orgoglio continentale”, finalizzato alla realizzazione di uno scenario alternativo a quello euroatlantico. Ormai le realistiche intese fra le cancellerie di Parigi, Berlino e Mosca sono solo un vago ricordo, come i nomi dell’ex cancelliere tedesco Schroeder, dell’ex ministro francese Vedrine e come, tra breve, quello di Chirac. Un acuto osservatore della politica internazionale, oltre che scrittore e filosofo di grido, il filoatlantico André Gluksmann, in un’intervista (3) ha dichiarato, con una retorica falsamente “gollista”, che, grazie a Sarkozy ed alla sua determinazione, “la Francia ritrova il suo posto nel mondo, la Francia torna la terra dei diritti dell’uomo. Sarkozy – seguita Glucksmann – metterà fine alla realpolitik di Parigi che ovunque, dall’Africa all’Asia, si è accordata con i peggiori despoti.”

E’ proprio per la mancanza di un sano realismo politico, invece, che i ceti egemoni europei mantengono l’Europa in uno stato di perenne subordinazione agli interessi d’Oltreoceano. L’Europa è “irrilevante” perché ancora, a distanza di oltre sessanta anni, non si è emancipata dai suoi liberators; è, in altre parole, irrilevante perché ancora non è libera delle proprie decisioni.

Il futuro ci dirà, tuttavia, come e quando le tensioni geopolitiche in seno all’Europa riemergeranno, e come e quando la vocazione continentale dell’Europa avrà la meglio sulle scelte ora marcatamente occidentali del nuovo corso franco-tedesco.


Il nuovo corso e le antiche tensioni orientali

Allo stato attuale, possiamo tuttavia ritenere, con un buon grado di certezza, che la nuova alleanza franco-tedesca, sebbene occidentalista e transatlantica, prevedibilmente rappresenterà, sul piano economico e finanziario, un poderoso concorrente della “nuova” Europa orientale, costituita da quello che i Russi definiscono il proprio “estero vicino”.
Come reagiranno i Paesi baltici, la Polonia, la Repubblica ceca, la Slovacchia, l’Ungheria, la Romania, e la Moldova alla ritrovata sintonia tra l’Europa occidentale e Washington, dopo le “incomprensioni” degli ultimi anni, in particolare quelle originate dalla guerra angloamericana in Iraq? Il nuovo asse anglo-franco-tedesco sembra proprio nato per controbilanciare l’Europa del “rattrappimento baltico”.

Riteniamo che la concorrenza riguarderà, in particolare, due problemi strutturali dell’Unione Europea, peraltro ora strettamente connessi: la questione energetica e il rapporto con la Russia.
Secondo il filoatlantico Glucksmann il “trattato leggero” dell’UE, auspicato da Blair e da Sarkozy e da approvare per via parlamentare, onde superare in maniera indolore una lacerante consultazione referendaria, rappresenta una soluzione “più pragmatica e rapida, che consentirà all’Europa di riprendere l’iniziativa in campo energetico. E’ uno scandalo – lamenta Glucksmann – che un’Europa nata proprio sull’energia, con la Comunità del carbone e dell’acciaio, vada a trattare con Putin in ordine sparso, senza coordinamento e quindi senza peso negoziale” (4). In realtà, un’Europa sbilanciata in senso atlantico ed egemonizzata dal quartetto degli “Atlanticist European Union modernisers” sembra più rispondere agli interessi “modernizzatori” del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, piuttosto che alle esigenze e agli interessi delle popolazioni europee.
Gli appetiti tedeschi, storicamente – e ottusamente – proiettati verso oriente, in sinergia con la spregiudicatezza del nuovo inquilino dell’Eliseo, che almeno nelle affermazioni elettoralistiche, sembra interessato a una “Unione mediterranea”, non tarderanno a creare tensioni, esiziali per il precario equilibrio europeo. La voracità tedesca e il neoatlantismo à la Sarkozy saranno dunque utilizzati, nell’ambito della strategia globale statunitense, proprio contro l’integrazione europea e il dialogo eurorusso. A tal proposito, ricordiamo che le ”attenzioni” tedesche verso lo spazio economico orientale della ex-Jugoslavia sono state all’origine della disgregazione della Federazione balcanica (5).
Il malumore della “nuova” Europa, più volte manifestato nei confronti di Bruxelles e Mosca, costituirà un importante atout nelle mani degli strateghi di Washington che lo giocheranno ai fini del mantenimento della propria egemonia sull’intera Europa e contro la Russia. Nel prossimo futuro l’Amministrazione americana si barcamenerà, verosimilmente, tra le due special relationship: quella franco-tedesca, fresca di conio e “commissariata” dall’inglese Brown, e quella della “nuova” Europa, già collaudata ai tempi dell’aggressione angloamericana all’Iraq di Saddam Hussein, e recentemente tornata nel “cuore” dei vertici del Pentagono, proprio per la sua importante funzione geostrategica.
Le due special relationship saranno dunque funzionali alla nuova dottrina di contenimento dell’”Orso russo”, già denunciata dal presidente russo Putin e dal suo ministro agli esteri, Lavrov, in particolare nei discorsi pronunciati dai due statisti russi, rispettivamente, alla 43ma Conferenza sulla sicurezza (10 febbraio 2007) e alla XV Assemblea del Consiglio per la politica estera e la difesa (17 marzo 2007) (6).

Nel frattempo, sul piano istituzionale, l’Unione Europea della Merkel e di Barroso si affretta a intessere accordi quadro e trattati “transatlantici”. Uno degli ultimi in ordine di tempo – siglato a Washington lo scorso 30 aprile, in occasione del Summit euroamericano (7) – è quello, fortemente voluto dal cancelliere tedesco, relativo all’avanzamento dell’integrazione economica transatlantica tra l’Unione e gli USA. Il Work Program of Cooperation in questione prevede la promozione dell’integrazione economica in aree strategiche per l’economia europea: proprietà intellettuale, investimenti, mercati finanziari e innovazione, mentre una delle dichiarazioni adottate congiuntamente dai rappresentanti dell’UE e degli USA riguarda il sostegno alla “Euro-Atlantic prespective” in materia di “promoting peace, human rights e democracy worldwide”.
Tali trattati, al di là della retorica cara agli “esportatori di democrazia”, tendono a cementare ancora di più il destino dell’Unione Europea con quello degli Stati Uniti e, di conseguenza, a separarla dai suoi naturali vicini: la Russia e i Paesi della sponda sud del Mediterraneo.


Il nuovo blocco occidentale e il Mediterraneo

La separazione geopolitica dell’Europa dalla Russia e dal Mediterraneo, e la sua inclusione in un “blocco occidentale” egemonizzato dagli USA, è la strategia perseguita da Washington fin dagli ultimi anni del secondo conflitto mondiale, ai fini della sua egemonia su scala globale.

All’epoca del cosiddetto duopolio russo-americano (1945-1989), l’attuale blocco occidentale si autodefiniva “mondo libero” e il conflitto ideologico, basato sulla dicotomia “democrazia – comunismo”, nascondeva le tensioni, spiccatamente geopolitiche, tra la talassocrazia americana e la Russia sovietica per il controllo del continente eurasiatico e del Mediterraneo. E’ in questa ottica che andrebbero rivisitati eventi storici dell’epoca, quali, tanto per citarne alcuni, la strategia della tensione, i tentativi di golpe (veri o presunti) in Italia (il “ventre molle” dell’Europa), il golpe dei Colonnelli in Grecia, le guerre arabo-israeliane, la guerra sovieto-afgana del 1979. Oggi il conflitto ideologico è più sfumato e meno riconoscibile. Esso è basato principalmente sui temi del rispetto dei diritti umani, sulla mancanza della libertà di stampa, sulla ossessiva e reiterata accusa di derive autoritarie e oligarchiche lanciata verso i vertici del Cremlino. Peraltro queste stesse accuse vengono scagliate anche contro quei Paesi, come la Cina, il Venezuela, l’Iran, la Corea del Nord, i quali, mal adeguandosi agli interessi strategici o economici degli USA, rappresentano possibili poli geopolitici funzionali alla creazione di un sistema multipolare (8).

Unico fatto nuovo, e decisivo per meglio comprendere le attuali dinamiche, è invece costituito dalla demonizzazione degli “islamici”. L’attribuzione di termini come terrorismo, fondamentalismo, integralismo all’Islam, ai suoi esponenti e credenti è diventata ormai una pratica mediatica comune, che, magistralmente intensificata dopo l’11 settembre 2001, è stata di fatto istituzionalizzata con la dottrina della “guerra al terrorismo”, quale particolare strumento di pressione psicologica verso le popolazioni europee. Lo scopo ultimo di tale strategia mediatica, che – in piena sintonia con la teoria dello “scontro di civiltà” – retoricamente ricorre a temi presi in prestito a certa storiografia occidentalista ed antiaraba, e si avvale delle penne più brillanti della carta stampata e degli anchormen più seguiti, è quello di predisporre psicologicamente gli europei a diffidare dei propri vicini e a rinchiudersi in una sorta di “fortezza occidentale”, e dunque appiattirsi, acriticamente, sui desiderata statunitensi volti alla “sistemazione neocolonialista” dello spazio vicino e mediorientale, dal Mediterraneo alle repubbliche centroasiatiche.

Con l’arrivo all’Eliseo di Nicolas Sarkozy, al Quay d’Orsay di Bernard Kouchner e, con la presenza, come cosigliere diplomatico, dello sherpa Jean-David Levitte, la “nuova” Francia neoatlantica e neocon diventa un asso insperato nelle mani del Dipartimento di Stato nordamericano. Tuttavia, l’idea sarkoziana di una “Europa mediterranea”, in altre parole di un’Europa antiturca, antiaraba e contraria all’immigrazione, nuova pedina per il progetto nordamericano del Grande Medio Oriente, dovrà scontrarsi con la realtà e le leggi della geopolitica. Il bottino vicino e mediorientale cui mira potrebbe rilevarsi un boccone amaro, difficile da digerire. L’attuale fronte neoatlantico anglo-franco-tedesco, se non adotta un sano e pragmatico realismo, invece di governare l’Europa rischia di infrangersi prima ancora di consolidarsi, nonostante l’ “amico americano”.

* – Sergio Romano, Il rischio americano. L’America imperiale, l’Europa irrilevante, Milano, 2003, p. 113.

Note:

1 – Secondo i risultati di una ricerca svolta recentemente dal prof Patrizio Di Nicola del Gruppo di ricerca “Laboratorio Lavoro e Impresa” (Università degli Studi “La Sapienza” di Roma), il 26% della popolazione europea adulta (sopra i 15 anni), cioè oltre un 1/4 della popolazione totale, è a rischio di povertà (P. Di Nicola, II Conferenza Internazionale sul Modello Sociale Europeo, presso l’Unioncamere italiana, promossa dall’Eurispes, dalla Fondazione F. Ebert e dal Gruppo europeo “Social Europe”, Roma, 11 maggio 2007)

2 – Recentemente, in occasione delle elezioni presidenziali francesi, il Financial Times ha definito il quartetto Merkel, Barroso, Sarkozy e Brown, successore di Blair alla guida del Regno Unito, “a powerful group of Atlanticist European Union modernisers”, vedi George Parker, Liberal leaders eye Sarkozy for axis of mainstream modernisers, Financial Times, 27 aprile 2007 – http://www.ft.com.

3 – Stefano Montefiori, Fallita la demonizzazione di Sarko, ora finirà la realpolitik di Parigi, intervista a André Glucksmann, Corriere della sera, 7 maggio 2007.

4. – Ib.

5 – Si veda, per un approfondimento, Dragos Kaljic, Serbia, trincea d’Europa, Edizioni all’insegna del Veltro, 1999, Parma.

6 – I due discorsi sono riprodotti nella sezione Documenti del presente numero di Eurasia. A proposito della nuova dottrina americana di contenimento e di come essa sia radicata nella cultura politica dei Paesi dell’ “estero vicino”, si legga l’articolo, programmaticamente titolato “Containing Russia”, di un’ex esponente del governo di Kiev e attuale leader dell’opposizione parlamentare ucraina, Julia Timoshenko, apparso nella rivista del Council on Foreign Relations, Foreign Affairs, may/june 2007, vol.86, N. 3, pp.69-82. Sulla “terza guerra fredda” si veda, in questo stesso numero di Eurasia, la brillante analisi svolta da Stefano Vernole.

7 – Framework for advancing transatlantic economic integration between the European Union and the United States of America (http://www.consilium.europa.eu).

8 – “In questi ultimi anni gli Stati Uniti, anche all’epoca della presidenza Clinton, hanno continuato a estendere lo spazio giuridico e militare del loro potere. Il Congresso ha votato leggi extraterritoriali che l’America pretende d’imporre al di fuori del proprio territorio, e ha distribuito sanzioni agli Stati che non si adeguano alle sue prescrizioni, talora irragionevoli o demagogiche. La Colombia, per esempio, venne minacciata di sanzioni perché non riusciva a controllare le esportazioni della droga verso il mercato nordamericano. Ma gli Stati Uniti riescono forse a controllare il commercio della droga sul loro mercato nazionale?”, in Sergio Romano, op. cit., p. 113-114.


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