Con la seconda riunione della conferenza di adesione con l’Islanda tenutasi lo scorso 27 giugno, hanno preso il via i negoziati sostanziali di ingresso dell’isola all’Unione Europea. I lavori sono accompagnati da molti dubbi all’interno dell’UE, a causa del crack finanziario delle principali banche islandesi del 2008, che ha prodotto un enorme debito nei confronti dei contribuenti di Olanda e Regno Unito. I due Paesi hanno richiesto un risarcimento a Reykjavik, ma la popolazione islandese, in due consultazioni referendarie consecutive, ha bocciato l’accordo che prevedeva il rimborso attraverso denaro pubblico. Per quanto l’eventuale ingresso dell’isola possa apportare benefici all’UE, questo mancato risarcimento ad Olanda e Regno Unito – congiuntamente alle questioni relative alla riforma della politica comune della pesca – potrebbe essere un ostacolo per il nuovo allargamento europeo.


Relazioni storiche fra Islanda e UE

L’Islanda, in passato, non ha mai palesato la volontà di un vero coinvolgimento nella politica di integrazione europea ed ha per lungo tempo limitato il suo interesse alla sola cooperazione economica con i Paesi del Nord Europa. Nella metà degli anni Cinquanta, aderì al “Nordic Council”, un’associazione che gestisce rapporti privilegiati fra tutti i Paesi scandinavi, ma che non ha mai avuto un confronto su temi politici veri, per cui è rimasta solo un forum per dibattiti fra Stati affini.

Dal 1970 entrò, come associata, nell’EFTA (European Free Trade Association, 1959), di cui già facevano parte Austria, Danimarca, Svezia, Svizzera, Portogallo, Norvegia e Regno Unito e a cui si aggiunsero successivamente Finlandia e Liechtenstein. Questa organizzazione fu creata su iniziativa della Gran Bretagna come alternativa alla Comunità Economica Europea e, quando essa stessa ne uscì nel 1973 per aderire alla CEE, l’associazione perse di importanza. Oggi parte di questi Paesi sono entrati a far parte dell’UE, cosicché l’EFTA risulta essere formata da Norvegia, Liechtenstein, Svizzera e Islanda, appunto. Il motivo per cui l’Islanda aderì a quest’area di libero scambio è da ricercare nella tipologia della sua economia a “senso unico”, ossia incentrata sulla pesca quale suo unico traino produttivo. L’EFTA ha lo scopo di favorire gli scambi economici e commerciali tra i Paesi membri attraverso una progressiva riduzione delle tariffe doganali interne. Tuttavia, fino a tutti gli anni Ottanta, l’Islanda aveva tra i Paesi della Comunità Europea i principali partners commerciali. Di fatti, e in linea con lo spazio EFTA, nel 1972 il Paese sottoscrisse un accordo bilaterale di libero scambio con la CEE, che poté rafforzarsi nella seconda metà degli anni Ottanta quando iniziò una più stretta integrazione fra le due organizzazioni regionali CEE ed EFTA basata non più su accordi bilaterali fra i singoli Stati.

Il Presidente della Commissione Jacques Delors, sulla base del Libro bianco del 1985, in cui egli stesso tracciava le linee per il completamento del mercato unico, propose una nuova formula di collaborazione: la SEE (Spazio Economico Europeo). Nel 1994 l’Accordo SEE entrò in vigore con lo scopo di creare una zona di libero scambio tra gli Stati dell’UE e i tre dell’EFTA (la Svizzera ne aveva bocciato l’adesione in seguito a referendum nazionale). L’Accordo SEE voleva creare un mercato unico basato sull’aquis communautaire, nonché, quindi, sulle quattro libertà fondamentali (libera circolazione di merci, capitali, servizi e persone) e sulle norme sulla concorrenza. Nell’accordo non vennero tuttavia incluse le politiche comuni in materia di agricoltura e pesca. Lo spazio SEE acconsentiva, dunque, ai Paesi che ambivano alla membership dell’UE di compiere un primo importante passo per un progressivo adeguamento a tutti i vincoli comunitari e permetteva a chi volesse tenersi fuori dal processo di integrazione comunitaria di rimanere solo legato a vincoli associativi.

In effetti, gli aspetti più difficili da gestire, per l’Islanda, sono da sempre quelli relativi alla Common Fishery Policy dell’UE. La CFP definisce per ciascun Stato membro, delle quote di pescato per ciascuna specie e promuove l’industria ittica mediante l’utilizzo di strumenti regolativi e sostegno al mercato. Dal 2009, con il Trattato di Lisbona, il settore della pesca è diventato un’area di competenza esclusiva dell’UE.

L’Islanda ha sempre ritenuto che senza pesca il Paese non potesse produrre ricchezza. In questo senso Reykjavik ebbe un lungo contenzioso con la Gran Bretagna (le cosiddette “Guerre del merluzzo”) a causa della delimitazione delle proprie acque territoriali – da 4 a 50 miglia dalla costa – che si conclusero nel 1976 con un accordo provvisorio, ma ancora in vigore, che ha fissato il limite a 200 miglia. E quanto la pesca sia importante lo dimostrano i dati sulle esportazioni: tra il 1991 ed il 1995, il 77% delle esportazioni furono prodotti ittici e il Paese è stato tra le prime venti nazioni al mondo per volume di pesca. Di contro, l’agricoltura è quasi assente e l’industria non soddisfa i consumi interni.

Nell’ultimo decennio l’Islanda si è trasformata da sola industria della pesca in un Paese dai sofisticati servizi finanziari, dando input ad un nuovo tipo di economia. Tuttavia, la crisi bancaria e valutaria che ha colpito il Paese nell’ottobre del 2008 ha condotto le due principali banche islandesi, la Icesave e la Landsbanki, ad essere sottoposte a procedimento di liquidazione. Le passività delle banche ammontano a circa 3,8 miliardi di ISK (corona islandese). Dapprima il Governo ha chiesto l’assistenza del Fondo Monetario Internazionale (FMI), poi ha nazionalizzato le banche, il che ha comportato l’assunzione da parte del Paese dei debiti contratti dai due istituti bancari.

 

Rapporti attuali con l’Unione Europea

Lo spazio SEE diede, perciò, all’Islanda la possibilità di cooperare con l’Unione Europea, senza entrare a farne parte pienamente. Ciò permise comunque l’adesione al Trattato di Schengen di cui applica le disposizioni relative all’abolizione dei controlli alle frontiere, il rilascio dei visti, la cooperazione ed il coordinamento tra i servizi di polizia e le autorità giudiziarie (EUROPOL). Il Paese applica, altresì, il Regolamento di Dublino II, (2009) in merito alle richieste d’asilo nell’UE. Il Paese partecipa anche, sia pure senza diritto di voto, in un certo numero di agenzie e programmi dell’UE, che riguardano: impresa, ambiente, istruzione e ricerca, contribuendo finanziariamente alla coesione sociale ed economica nell’UE.

Il 17 luglio 2009 l’Islanda ha presentato domanda di adesione all’UE e il Consiglio Europeo le ha conferito lo status di candidata ufficiale nel giugno 2010. Nel giugno 2010, a Bruxelles, sono iniziati i negoziati di adesione, dopo che la Commissione ha concluso la propria valutazione sulla situazione islandese, affermando che il Paese rispetta in larga parte i principi e i valori dell’UE, come stabilito dai criteri di Copenaghen nel 1993. Infatti, sul piano politico, l’Islanda gode di una forte tradizione democratica e di istituzioni stabili, nonché di un sistema completo di protezione dei diritti fondamentali. Tuttavia, Reykjavik dovrà rafforzare l’indipendenza della magistratura e la prevenzione dei conflitti di interesse e, a tal proposito, il sistema di nomina della magistratura dovrà essere rivisto. Per quanto riguarda l’adeguamento alla legislazione comunitaria, i negoziati prevedono 35 capitoli di diritto europeo ai quali il sistema islandese, in virtù anche dell’Accordo SEE, è già quasi in linea. Restano dubbi, invece, per quanto riguarda il criterio economico: Reykjavik deve restituire 3,8 miliardi di euro ai depositanti di Olanda e Regno Unito. Il piano del rimborso ai due Paesi è stato bocciato con il 60% dei voti dai contribuenti islandesi in due referendum, l’ultimo dei quali avvenuto lo scorso 11 aprile. Il rimborso avrebbe fatto gravare sulla popolazione un debito di circa 12.000 euro pro-capite. Oltre al risanamento del bilancio, il Paese dovrà quindi ristrutturare l’intero comparto finanziario e migliorare la vigilanza su di esso.

 

Prospettive future

L’ingresso dell’Islanda apporterebbe notevoli vantaggi all’UE. In primo luogo, l’isola è di grande importanza strategica per Bruxelles dal punto di vista economico-commerciale, grazie all’ampia estensione delle acque territoriali, le più pescose del pianeta e di esclusivo sfruttamento dei pescatori islandesi. Inoltre, l’eccezionale disgelo dell’estate 2008 ha riacceso le mire di molte nazioni nordiche che ambiscono a metter le mani sulle ricchezze dell’Artico, importante fonte di materie prime, sia per l’Islanda che per i Paesi nordici. Secondo lo United States Geological Survey, nei fondali artici ci sarebbero 90 mld di barili di petrolio, 47 mila miliardi di m3 di gas, grandi giacimenti di gas liquefatto, metalli e minerali.

L’Islanda ha altresì, numerose centrali geotermiche, come quella  di Leirhnjùkur nella grande area vulcanica di Krafla e di Nesjavellir, che sfruttano il calore conseguente all’intensa attività eruttiva e che sono in grado di produrre energia per tutto il Paese e che, quindi, potrebbero costituire fonti essenziali per l’approvvigionamento energetico europeo. Sulle potenzialità energetiche puntano molto anche multinazionali, come le americane Alcoa e Rio Tinto e l’italiana Impregilo, impegnate nella costruzione di due fonderie di alluminio, oltre alle tre già esistenti sull’isola, le più grandi d’Europa. Gli stabilimenti dovrebbero essere completati entro due anni e portare risorse e lavoro al Paese. Vi è poi il caso della Magma Energy che, con un accordo di 322 milioni di euro volto a privatizzare buona parte del settore dell’energia geotermica, ha acquisito, prima del crollo del sistema bancario nazionale del 2008, una delle principali società energetiche islandesi, la HS Orka, dando avvio ad un processo di privatizzazione dell’energia geotermica, considerata patrimonio nazionale islandese.

Infine, a causa del surriscaldamento del pianeta, la calotta artica si è ridotta sensibilmente e nell’estate del 2008, per la prima volta nella storia, si sono estesi gli accessi a Nord-Est (sopra la Russia settentrionale) e a Nord-Ovest (sopra l’Alaska). L’Islanda, più di ogni altro Paese, offrirebbe quindi all’UE, la possibilità di proiettarsi verso lo spazio artico e di sfruttarne le nuove possibili rotte commerciali.

In ultimo, tra i vantaggi dell’adesione, come ha affermato il Presidente della Commissione europea Barroso nel 2010, favorevole alla decisione islandese, vi sarebbe quello di dimostrare che l’UE è una realtà interessante, anche con i suoi problemi finanziari, capace di ridare un segno di vitalità al progetto europeo.

Tuttavia, nel caso in cui l’Islanda riuscisse a portare a termine in un breve periodo i negoziati di adesione, vi è il rischio di creare un precedente, poiché anche altri Paesi, con le stesse difficoltà economiche, potrebbero avanzare le proprie richieste e far valere le proprie ragioni per entrare a far parte dello spazio comunitario.

In caso di adesione l’Islanda dovrebbe in secondo luogo pensare alla condivisione delle risorse ittiche, tema spinoso per l’opinione pubblica islandese, la quale potrebbe rifiutare l’eventuale membership in un referendum. Secondo l’ultimo sondaggio dell’11 agosto 2011, il 60% degli abitanti è sfavorevole all’ingresso: si tratta per lo più di pescatori e imprenditori dell’industria conserviera, spaventati all’idea di dover dividere col resto dell’Europa il loro mare pescoso. Di fatto, la politica comune per la pesca dell’UE non soddisfa tutti – ad esempio i pescatori irlandesi – ma l’UE stessa potrebbe trarre insegnamento dalla politica della “pesca sostenibile” con proposte di riforma della CFP su suggerimento islandese. Certamente, però, la doppia crisi bancaria e valutaria che ha investito l’isola nel 2008 è all’origine del processo di adesione, nel quale Reykjavik potrebbe aver visto la soluzione ai problemi nazionali dopo il collasso delle sue principali banche ed il conseguente crollo della corona islandese. Il Paese ha cominciato a vedere nell’adesione all’UE e all’Euro, un mezzo per ristabilire la sua economia.

In conclusione resta difficile prevedere quando l’Islanda riuscirà ad entrare nell’UE. Il dibattito in merito è aperto e complesso. Dal punto di vista politico non vi sono impedimenti significativi, ma, per quanto riguarda il settore economico, dovrebbe probabilmente cercare di ottenere una serie di clausole e dichiarazioni, al fine di sottoporre lo sfruttamento del mare al parere di commissioni scientifiche islandesi e a licenze ministeriali autonomamente gestite.

 

Conclusioni

L’UE porta avanti le trattative tra la voglia di aumentare i propri benefici e la paura di dare origine ad un precedente. Tuttavia, come dimostra la recente conferenza di adesione, i negoziati di adesione procedono a pieno ritmo, nonostante  le incertezze. E’ verosimile che il caso Icesave rimanga irrisolto, in quanto la banca ha ancora debiti verso Olanda e Gran Bretagna, le quali si sono trovate a compensare le perdite nazionali con importi fino a 3,8 mld di euro. Ora che ogni tentativo di accordo è fallito, la cosa finirà con ogni probabilità in tribunale, sotto l’ala della vigilanza dell’EFTA.

Resta, di fatto, la diffidenza del governo olandese in merito a questo nuovo allargamento; mentre la Gran Bretagna, favorevole all’allargamento, per ora non si sbilancia, anche se l’ingresso islandese potrebbe rappresentare per quest’ultima un importante sbocco nello spazio artico e la possibilità di porsi come ponte per un miglior collegamento tra le acque settentrionali e quelle meridionali del Continente europeo.

L’Islanda sta portando avanti le trattative sotto la presidenza polacca, nella speranza di concluderli sotto la successiva presidenza danese: queste presidenze, che hanno l’opportunità di rafforzare la cosiddetta “Dimensione settentrionale “ della politica comunitaria – che ha l’obiettivo di creare un quadro comune per la promozione del dialogo, della cooperazione, del consolidamento della stabilità e del benessere di quest’area e di intensificare l’integrazione, la competitività e lo sviluppo sostenibile nell’Europa del Nord – potrebbero facilitare l’Islanda nel rapido avanzamento nel processo di adesione, più di quanto possano evidentemente fare i Paesi mediterranei. Se è vero che attualmente l’Europa si trova di fronte all’importante sfida di rafforzare la propria dimensione mediterranea, è anche vero che ci sono tutte le premesse per un potenziamento della dimensione settentrionale, il che comporterà, per esempio, una maggiore cooperazione con Paesi esterni all’UE e, quindi, principalmente con Norvegia e Russia.

 
* Donatella Ciavarroni è laureanda in Storia delle Relazioni Internazionali (Università di Urbino)


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