A solo un giorno dalla ricorrenza della XXXIV Giornata della Terra, nella quale i palestinesi ricordano i molti espropri di territori che si protraggono da anni e durante la quale un manifestante quindicenne ha trovato la morte per mano degli israeliani, la situazione critica in Vicino Oriente non sembra trovare fine. Solo qualche giorno è passato da quando il primo ministro israeliano annunciava la costruzione di nuovi insediamenti a Gerusalemme Est, oltre la Linea verde, nonché prossimamente nella zona della Cisgiordania, e le acque hanno iniziato a muoversi.

Gli Stati Uniti, alleati di Israele, hanno poco gradito l’annuncio fatto dal presidente Netanyahu e questo si è potuto evincere anche dal recente incontro fra Obama e il suo collega israeliano: nessun cronista o fotografo è stato ammesso all’evento, ma i colloqui non sembrano essere stati molto proficui. Il presidente americano, infatti, ha chiesto che siano fatti “gesti” a favore dei palestinesi; il portavoce Gibbs ha riferito che gli USA intendono chiedere chiarimenti sui progetti di Israele riguardanti i nuovi insediamenti; il più stretto consigliere di Washington, David Axelrod, ha detto che il via libera ai nuovi insediamenti ebraici mentre il vicepresidente Biden era in Israele rappresenta “un affronto” e “un insulto” oltre a “rendere ancora più difficile un processo (di pace) particolarmente difficile”.

La questione è sicuramente centrale per la regione, ma anche per gli interessi statunitensi, e nonostante Hillary Clinton abbia affermato che le relazioni fra i due stati sono ancora solide e profonde la situazione non dovrebbe appianarsi così facilmente. L’attuale scenario politico mondiale è ben rappresentato da una teoria degli anni Settanta elaborata da Keohane e Nye, quella dell’interdipendenza complessa. Secondo questo concetto, l’indebolimento delle strutture prestabilite di autorità e la disuguaglianza fondamentale tra gli attori tradizionali e i nuovi attori della vita internazionale creavano una situazione di interdipendenza asimmetrica, nella quale le asimmetrie osservate erano fonte di influenza per gli attori nei loro rapporti reciproci. La visione che gli autori presentavano in Power and Interdependance è quella di un ordine internazionale dinamico, nel quale la potenza è di colui che controlla i risultati.

In accordo con questo enunciato, la situazione USA-Israele può così essere interpretata: il primo è un attore forte, il secondo è un attore meno forte e che trova parte della sua legittimazione dall’appoggio del primo. Chi dei due è in una situazione di vantaggio? Chi perderebbe di più nel mantenere una posizione intransigente? Poiché, come dicevano gli stessi Nye e Keohane, vi sono una serie di accordi di governo fra attori egoisti e calcolatori, consapevoli del fatto che l’assenza di coordinamento delle loro rispettive politiche li condurrà a massimizzare i rischi e a minimizzare i benefici, anche in questo caso di specie è necessario attuare un tale approccio.

La situazione dalla quale si parte è nota: Israele, da un lato, che vuole procedere a costruire insediamenti continuativamente (“like there’s no tomorrow”), dall’altra gli Stati Uniti che sono interessati a lasciare la propria “impronta” sulla strada che porta alla pace nel Vicino Oriente. Entrambi gli attori sembrano rimanere statici sulle proprie posizioni: Netanyahu afferma che “un incidente spiacevole è avvenuto in buona fede, non avrebbe dovuto accadere e si è rivelato offensivo”, ma che in ogni caso lo Stato ebraico continuerà ad agire sulla base dei propri interessi essenziali. Washington, d’altro canto, si era esposta in prima persona col vicepresidente Joe Biden che, giunto all’Università di Tel Aviv, si è proclamato di fronte all’uditorio un “sionista”, per poi ricevere la notizia della costruzione di nuovi insediamenti. Gli USA, dunque, hanno percepito questo gesto come estremamente lesivo della loro immagine internazionale e, non ultimo, estremamente pericoloso per il già complicatissimo processo di pace. Noto è che Obama ha voglia di farsi fautore di questo avvenimento, lo conferma il suo impegno nelle riunioni del “Quartetto” (USA, Russia, Ue e ONU) dei mediatori per il Vicino Oriente. Ecco perché, sempre secondo Gibbs, le scuse che sono giunte dal primo ministro israeliano agli Stati Uniti rappresentano un buon inizio, ma non bastano: idea ancora migliore sarebbe quella di “sedersi intorno a un tavolo con idee costruttive per un dialogo costruttivo basato sulla fiducia su come far progredire il processo di pace”.

In una valutazione concreta dei pro e dei contro, non vi è dubbio che gli Stati Uniti si trovino in una posizione di netto vantaggio rispetto a Israele. Seppur è vero che il Partito Democratico statunitense riceve ingenti sovvenzioni da parte e di ebrei e di sionisti, è anche vero che Washington sta riscontrando un crescente appoggio internazionale sulla strada intrapresa. Israele dipende, nel suo acquisto di armi, soprattutto dagli USA e da essa trae sostegno e legittimazione del suo operato, cosa sulla quale attualmente sembra non poter contare. Sembrano lontani i tempi in cui Bush supportava le azioni israeliane, in quella che era considerata come una lotta ai terroristi. In un momento in cui gli USA vivono una crisi interna notevole, nonché una situazione in campo internazionale non esattamente brillante, Obama è chiamato a prendere una posizione decisa. Se in ambito interno, infatti, il Presidente si trova in parte costretto a mantenere una politica mediatizia con il lato repubblicano, in politica estera è necessario che l’immagine statunitense torni alla ribalta e che non sia offuscata da nessun altro attore internazionale. Analizziamo, dunque, nello specifico la situazione dei due Paesi.

Israele ha potuto per molto tempo contare sull’appoggio statunitense, per una logica del do ut des, nella quale ebrei e sionisti investivano cospicue somme di denaro oltreoceano e, spesso, finanziavano lautamente l’attività politica del Partito Democratico (e non solo di quello). D’altro canto, gli USA possono contare sull’esportazione di armamenti per quello che, stando alle cifre degli ultimi “aiuti” (sotto forma di caccia da combattimento F-35), si aggirano intorno ai 3 miliardi di dollari. Questo stato ha, per anni, visto la possibilità di espandere i propri insediamenti senza troppe difficoltà, avendo la meglio sulle rimostranze dei vicini palestinesi e con l’appoggio di Washington. Quest’ultimo ha influenzato la scena internazionale e ha implicitamente dato il benestare all’azione israeliana fino a questo momento e, in particolare, nella passata era di George W. Bush. La posizione di Netanyahu è quella di proseguire con l’edificazione dei 50 mila appartamenti programmati a Gerusalemme Est, affinché essa non diventi la capitale dello stato palestinese. Israele ha potuto contare sull’appoggio di Obama anche durante la sua campagna presidenziale, quando egli disse che “Gerusalemme rimarrà la capitale di Israele, e deve rimanere indivisa”. Joe Biden si è proclamato “sionista” e l’unica risposta avuta in cambio è stato l’annuncio della costruzione di nuovi accampamenti, nonché un laconico annuncio fatto dall’ex ambasciatore israeliano negli USA nel quale si diceva: “Il primo ministro di Israele è il rappresentante del popolo d’Israele, e il modo in cui si rivolge a lui un primo ministro condiziona il modo in cui il popolo di Israele si sente trattato”. Israele, dunque, pretenderebbe di continuare con gli insediamenti, senza che nessuno contesti il suo operato, ma in questo caso c’è da pensare che l’irritazione statunitense non passerà così facilmente. Dal canto suo lo stato sionista ha solo da perdere se manterrà la sua posizione intransigente: appoggia (se non fomenta) l’idea del disarmo dell’Iran, finanzia i politici nordamericani, ma è anche vero che non può pretendere di compiere un affronto alla più grande potenza al mondo senza che vi siano delle conseguenze. Se le sue posizioni rimarranno tali, è plausibile che gli Stati Uniti rivedano questa partnership e si oppongano in tutti i modi ai nuovi insediamenti previsti. Nell’analisi dei pro e dei contro, Israele dovrebbe tener presente un concetto base della geopolitica: quello secondo cui esiste, per riprendere le parole di Giacomo Corna Pellegrini, un indissolubile legame fra geografia e politica, e nessuna corretta analisi del territorio può prescindere dai fatti politici che lo hanno influenzato, così come nessuna azione politica può prescindere dalla concreta situazione territoriale in cui si colloca. Proprio quest’ultimo punto dovrebbe essere, oggi più che mai, fondamentale nelle valutazioni israeliane: il suo territorio, creato per mano occidentale, è inscritto in un’ampia area islamizzata, in cui gran parte delle persone appoggia la causa dei palestinesi; inimicarsi, in questo particolare momento, il più potente alleato su cui si può contare massimizzerebbe solo le perdite per il Paese. La soluzione più conveniente sarebbe, dunque, di ritirare i proprio propositi almeno per il momento e magari provare a negoziare.

Gli Stati Uniti si trovano chiaramente in una posizione asimmetrica di forza rispetto all’alleato israeliano. Innanzitutto questo Paese è tutt’ora la maggiore potenza al mondo; poi, è vero che la classe politica riceve finanziamenti da ebrei e sionisti, ma è altresì necessario considerare che Obama ha bisogno ora più che mai di aumentare il proprio consenso interno. Far tornare alla ribalta il ruolo chiave degli USA nello scenario internazionale è un compito che il Presidente non può esimersi dal compiere. Già le recenti tensioni con la Cina hanno offuscato in parte l’immagine dell’inquilino della Casa Bianca, ora è tempo di operare affinché gli interessi nordamericani siano tutelati in toto. Se da una parte lo stallo con Pechino ha frenato le ambizioni di porre sanzioni alla svolta nucleare iraniana, c’è da dire che Obama ha recentemente segnato un punto a suo favore con l’aiuto della Francia. Il presidente francese Sarkozy, infatti, nella recente trasferta americana, ha offerto pubblicamente il suo appoggio all’azione della Casa Bianca in tal senso. Se ciò non bastasse, importanti segnali arrivano dal fronte russo; recentemente, infatti, il presidente americano è riuscito a raggiungere un accordo sul disarmo nucleare, che porterà all’eliminazione di 1/3 delle testate attuali. Proprio l’evoluzione dei rapporti con la Russia sembra essere la più interessante, nonché la più foriera di un futuro brillante: non solo, in verità, essa fa parte del Quartetto di mediatori per il Vicino Oriente, ma è anche una nazione che, nella storia contemporanea, è stata costantemente rivale degli USA.

Obama, per riassumere, dovrebbe mantenere un atteggiamento risoluto e brillante in politica estera, cosa che sembra poter fare. Sul fronte del processo di pace, gli USA si stanno proficuamente impegnando insieme a Russia, Unione Europea e ONU tanto che il segretario generale Ban Ki-moon ha affermato che la riunione da poco conclusasi a Mosca contribuirà al rilancio del processo di pace, ostacolato dall’annuncio israeliano di nuovi insediamenti. In questo momento gli Stati Uniti hanno una posizione di forza nel rapporto con Israele, se dunque decidessero di assecondare la costruzione delle nuove unità a Gerusalemme Est ne trarrebbero solo svantaggi. In primis poiché l’immagine statunitense ne uscirebbe compromessa in quanto sottomessa alle ambizioni di un altro attore internazionale; poi, non c’è da sottovalutare l’aspetto delle pressioni interne al Paese non solo per il ritiro dell’esercito dalle zone di guerra, ma anche a favore del processo di pace. Se gli Stati Uniti appoggiassero il progetto israeliano, dopo che i dirigenti arabi hanno espressamente chiesto al presidente americano di rimanere fermo sulle sue posizioni, ne potrebbe seguire una tensione tale da arrecare possibili rischi agli USA stessi. Perché, allora, Washington dovrebbe decidere di appoggiare ancora una volta le decisioni arbitrarie di Israele? In vantaggio, in questo caso, è dalla parte statunitense.

* Eleonora Peruccacci, dottoressa in Relazioni internazionali, collabora con “Eurasia”


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