Si può non essere d’accordo con Paul Craig Roberts, per il quale l’arroganza di Washington sta trascinando il pianeta verso la Terza guerra mondiale, (1) ma è indubbio che l’amministrazione Obama si sia rivelata perfino più aggressiva e pericolosa di quella di George W. Bush. Questo non significa che alla Casa Bianca siano cambiati i suonatori mentre la musica è rimasta la stessa. Mutamento di strategia c’è stato, quel che non è cambiato invece è il “fine ultimo” della politica di Washington. Com’è noto, una volta scomparsa l’Unione Sovietica, gli Usa si sono costantemente adoperati non solo per evitare che potesse nascere un “polo geopolitico” alternativo a quello atlantico, ma anche per acquisire il definitivo controllo del “centro” stesso della massa eurasiatica (Heartland), che coincide grosso modo con i territori dell’ex Unione Sovietica. Nondimeno, sia l’intervento in Afghanistan che quello in Iraq, il cui fine principale era appunto il controllo diretto dei principali “poli energetici” dell’Eurasia (inclusa la relativa rete di oleodotti e gasdotti), non ha potuto impedire né la (strabiliante) crescita economica della Cina, né quella dell’India (meno rilevante di quella cinese, ma anch’essa considerevole), né la “ripresa” della stessa Russia, che, grazie a Putin, è diventata di nuovo, facendo leva sulla propria ricchezza energetica, un attore geopolitico di primo piano sulla scacchiera mondiale, scombussolando i disegni degli “strateghi del capitale” occidentali. Per di più, anche sotto il profilo strettamente militare l’esercito “ultraleggero” e “ipertecnologico” voluto da Rumsfeld alla prova dei fatti si è dimostrato tutt’altro che efficiente. Durante l’attacco all’Iraq nel 2003, i comandanti americani delle singole unità sono stati sommersi da un tale massa di informazioni, che in molti casi hanno preferito spegnere i computer, ma soprattutto la gestione del personale militare si è rivelata essere estremamente difficoltosa e fonte di parecchi “guai”. (2) Come al solito, gli Usa hanno cercato di porre rimedio a questi inconvenienti con l’aviazione (l’autentico “grosso e lungo bastone” di Washington) e aumentando enormemente la potenza di fuoco dei propri reparti impegnati in combattimento, ossia dando la “caccia ai calabroni con i cannoni”. Ma agendo così era inevitabile che perdessero l’effettivo controllo del territorio sia in Afghanistan che in Iraq.

Va da sé, infatti, che gli Americani, essendo preparati soprattutto per una “guerra industriale”, come fu (almeno sotto certi aspetti) la Seconda guerra mondiale, ovvero per quella battaglia campale in un contesto altamente tecnologizzato, che Saddam aveva dato loro la possibilità di combattere nella Guerra del Golfo nel 1991, (3) se costretti a far fronte ad un nemico che impiega strategia e tattiche “elusive” e “indirette”, come quelle adottate dai vietcong e dagli stessi “regolari” nordvietnamiti, (4) non possono non trovarsi ad affrontare problemi simili a quelli che si erano già manifestati durante la Guerra del Vietnam (benché con “contraccolpi” assai meno rilevanti sul “piano interno”, dato che l’esercito americano non è più basato sulla coscrizione obbligatoria come in Vietnam). Pertanto, per Washington è di gran lunga preferibile evitare di impiegare unità di fanteria americane in teatri di guerra “non convenzionale”. Un limite della potenza militare “effettiva” degli Stati Uniti, di cui gli “strateghi” americani hanno dovuto prendere atto, riconoscendo al tempo stesso che il dominio diretto del “cuore” dell’Eurasia era al di là delle risorse non solo militari ma pure economiche degli Usa. Naturalmente ciò non significava che non fosse possibile passare da una strategia di tipo “unipolare” ad una strategia “a geometria variabile”, imperniata sì sempre sul predominio degli Usa, ma tale da riservare ad altri centri di potere (alleati di Washington, s’intende) un ruolo da protagonisti, sia pure a seconda del contesto e delle diverse “aree geopolitiche”.

La svolta in questo senso si è avuta appunto con l’elezione di Obama a presidente degli Usa (novembre 2008), al quale i “rinoceronti” (5) di Stoccolma, solo pochi mesi dopo il suo arrivo alla Casa Bianca, hanno addirittura assegnato il premio Nobel per la pace (ottobre 2009). Che i “venusiani” europei (ammessa e non concessa la loro buonafede) fraintendessero le reali intenzioni della nuova amministrazione di Obama non sorprende, poiché la sola “intenzione” di Obama di ritirare i soldati americani sia dall’Iraq che dall’Afghanistan veniva considerata dai media mainstream (che ora definiscono Obama il “guerriero riluttante”) la prova che l’America aveva voltato pagina. In realtà, anche se Obama ha effettivamente ritirato le truppe d’occupazione americane dall’Iraq, sancendo così il fallimento dell’intera operazione che ha portato alla caduta di Saddam, il ritiro dall’Afghanistan (in cui Obama ha dovuto inviare perfino altri soldati) sembra più problematico del previsto, e l’esercito degli Usa s’è ridotto ad usare i droni, inimicandosi così perfino coloro che dovrebbe difendere. Quel che più conta però è che con Obama la strategia americana mutava davvero, diventando una strategia basata sull’“approccio indiretto”, vale a dire che Washington dava “carta bianca” a vari centri di potere atlantisti (Ong, fondazioni, associazioni etc.) e soprattutto alle petromonarchie del Golfo (Arabia Saudita, Qatar ed Emirati arabi), per ridefinire gli equilibri geopolitici mondali (con speciale attenzione per il mondo islamico), alla luce di una situazione internazionale diventata estremamente “fluida” per la crisi stessa del cosiddetto “unipolarismo statunitense”. In particolare, per gli Usa era adesso necessario non solo sbarazzarsi di vecchi e ormai scomodi alleati, ma soprattutto “liquidare” Assad, alleato della Russia e dell’Iran, ed eliminare definitivamente la Giamahiria di Gheddafi – il cui panafricanismo, oltre che irritare buona parte della ricca borghesia libica, in primo luogo quella bengasina, ferocemente razzista e da sempre ostile a Tripoli, non poteva non essere malvisto sia da Parigi che da Washington (alleati in funzione anti-cinese, dopo anni di rivalità e lotte, più o meno sotterranee, nel continente africano). (6)

In sostanza, si è ripetuto, mutatis mutandis, quanto accaduto nel secolo scorso, allorché gli Usa decisero di appoggiare la guerriglia dei mujaheddin contro il regime filosovietico di Kabul (per indurre Mosca ad intervenire in difesa dei propri alleati, di modo che i sovietici “si impantanassero” in un guerra simile a quella combattuta dagli Usa in Vietnam e che perciò Mosca non avrebbe potuto vincere, mentre avrebbe solo aggravato la già difficile crisi dell’Unione Sovietica). (7) Gli Usa si fecero allora promotori di una sorta di “guerra santa” del mondo islamico contro il regime Kabul, che coinvolse soprattutto il Pakistan e l’Arabia Saudita. E furono proprio i “servizi” sauditi a selezionare come capo della “brigata araba” Bin Laden, il quale aprì numerosi uffici di reclutamento non solo in diversi Paesi musulmani, ma pure negli Usa. Nasceva in tal modo la famigerata Al Qaeda, che avrebbe addestrato decine di migliaia di combattenti “islamisti”, considerati da Washington combattenti per la libertà. Quando l’Armata Rossa (nel 1989) si ritirò dall’Afghanistan, solo alcuni di questi combattenti rimasero in Afghanistan, finché i talebani (finanziati dal Pakistan) conquistarono il potere (nel 1996). Buona parte di loro però si sarebbero recati a combattere in altri Paesi, tra cui l’Algeria, la Bosnia, il Kosovo, la Cecenia e la Somalia. Difatti, caratteristica di Al Qaeda era quella di configurarsi non tanto come una organizzazione rigidamente gerarchica, quanto piuttosto come una “rete di cellule”, che erano relativamente autonome; sicché, tali cellule si disseminarono in tutto in mondo musulmano (e non solo), creandone pure delle altre. Questo incredibile “garbuglio”, reso perfino più complesso e intricato dalla “contiguità tra i “servizi” di vari Paesi (musulmani e occidentali) e le numerose bande armate “islamiste” che si vennero a formare negli anni Novanta, creò le premesse per la nascita del terrorismo “islamista” (definito dalla stessa Cia un esempio di blowback, ossia un “contraccolpo”), ovverosia per l’attentato dell’11 settembre 2001 e per l’intervento degli Usa in Afghanistan e in Iraq.

Certo, non si può negare che il contesto storico oggi sia assai diverso da quello degli anni Ottanta del secolo scorso. Lo stesso declino relativo dell’America non può non comportare un’autonomia e un “peso” assai maggiori per attori geopolitici “subdominanti”, come, di fatto, sono le petromonarchie del Golfo. Il paragone con quanto accadde in Afghanistan è però particolarmente significativo per comprendere la cosiddetta “primavera araba”, ma soprattutto per comprendere l’aggressione alla Libia e alla Siria. Con ciò non si vuol affatto sostenere che, per quanto concerne la caduta dei regimi tunisino ed egiziano, il malcontento popolare non abbia giocato un ruolo importante, tanto è vero che in una prima fase l’influenza di “attori esterni” (in specie nelle vicende della Tunisia) sembra non essere stata determinante, benché non si possa affermare che sia stata trascurabile, perlomeno se si segue la pista dei “finanziamenti” ad alcune organizzazioni filo-occidentali o ai Fratelli musulmani egiziani. (8) Ma già in Egitto lo scontro tra questi ultimi, finanziati e appoggiati dal Qatar ma fortemente osteggiati dai sauditi, ha creato una situazione incandescente al punto che l’esercito egiziano ha ripreso il controllo del Paese. Una conferma che non è affatto facile per Washington avere il totale controllo dei propri alleati “subdominanti”. Diverso comunque il caso della Libia, giacché qui le bande islamiste hanno ricevuto il pieno appoggio della Nato per far fuori Gheddafi e distruggere la Giamahiria. Ma anche in Libia la situazione non pare affatto “sotto il controllo” della Casa Bianca. Il Paese è precipitato nel caos – favorendo pure la destabilizzazione di alcuni Paesi vicini, come il Mali e l’Algeria -, dopo l’assassinio, da parte di un gruppo “qaedista”, dell’ambasciatore statunitense Chris Stevens, a Bengasi l’11 settembre del 2012 (una data più che “eloquente”). Nondimeno, è stata la Siria di Assad a mandare all’aria il progetto di ridisegnare la cartina geopolitica del Medio Oriente dopo il ritiro dei soldati statunitensi dall’Iraq.

Anche in Siria si sono usati i Fratelli musulmani come “quinta colonna” per abbattere il regime di Damasco, ma fin dall’inizio della “rivolta” è stato chiaro che i “ribelli” siriani erano sostenuti dalle petromonarchie. Non solo armi e denari però affluivano in Siria per “alimentare la rivolta” contro Assad. Difatti, in Siria sono affluiti e continuano ad affluire (dalla primavera de 2011) migliaia di combattenti islamisti, anch’essi definiti dai soliti media mainstream, “combattenti per la libertà” (ma è dall’attacco della Nato contro la Serbia, negli anni Novanta, che bande islamiste scorrazzano impunemente in tutta l’area mediterranea, armate fino ai denti, “apparentemente” senza che la Nato o gli Usa, che pur controllano militarmente l’intera area, se ne accorgano). Ciò malgrado, la resistenza dell’esercito siriano si è dimostrata di gran lunga maggiore del previsto e il regime di Damasco, grazie pure all’aiuto di Hezbollah, dell’Iran e soprattutto della Russia, non si è trovato isolato, di modo che ha potuto validamente opporsi all’aggressione di una miriade di bande armate, le cui orribili e continue violenze hanno indotto buona parte dei siriani ad appoggiare Assad, costi quel che costi. Tre anni di guerra però non possono non avere creato enormi problemi a Damasco (basti pensare alle decine di migliaia di soldati morti in combattimento, nonché ai milioni di profughi, di invalidi e di malati). Invero, l’esercito siriano non può impedire il continuo afflusso di rinforzi ai gruppi di terroristi islamisti, dato che le basi di questi ultimi si trovano all’estero – in specie in Turchia, un Paese che sotto la guida di Erdogan ambisce ad aver un ruolo geopolitico di primo piano nell’area.

Anche “dietro” agli scontri all’interno dell’arcipelago islamista, che hanno portato alla nascita dell’Isis, vi sono ovviamente le petromonarachie del Golfo, benché anche questa nuova “creatura islamista” sembri essere sfuggita di mano a tutti i suoi “padroni” Ciononostante, è palese che i diversi attori geopolitici coinvolti nell’aggressione alla Siria, stanno giocando contemporaneamente su più tavoli: Erdogan mira a far cadere il regime di Damasco per annettersi una fetta della Siria, eliminare i curdi e prendersi pure una fetta di Iraq; mentre l’America e le petromonarchie del Golfo, che hanno già sfruttato l’avanzata dell’Isis in Iraq per far cadere il governo “filo-sciita” di Maliki, sono uniti (al di là di “doppi o tripli giochi” e del fatto che i loro interessi sono tutt’altro che sempre “convergenti”) nello strumentalizzare il caos che si è creato nella regione, in funzione anti-siriana e anti-sciita o, meglio, anti-iraniana. Sicché, non meraviglia neppure che le azioni dell’aviazione americana contro l’Isis siano (almeno per ora ) poco più che dimostrative. Del resto, sembra pacifico che, per distruggere davvero l’Isis, occorrerebbe cooperare con l’esercito siriano – una cooperazione che né Washington, né Ankara, né le petromonarchie del Golfo hanno intenzione di chiedere, mentre un intervento “diretto” dell’esercito americano nel conflitto sembra da escludersi. Ma si sa che quando si parla di Medio Oriente si parla anche necessariamente di petrolio. E non ci si riferisce ai pozzi petroliferi controllati dall’Isis (ma come potrebbe l’Isis, senza alcun appoggio, vendere il petrolio? O forse si crede che l’Isis abbia aperto dei distributori di benzina in Mesopotamia?), bensì al fatto che chi controlla l’area medio-orientale, in pratica è in grado di puntare un pugnale alla gola della Cina (la cui sete di petrolio è nota) dell’India, e della stessa Europa, mentre gli Usa, che dispongono pure di ingenti riserve di shale oil e shale gas, non hanno bisogno di importare petrolio dal Medio Oriente. Il che di per sé è già sufficiente a spiegare il ruolo degli Usa in quest’area, benché per colpire la Russia, che di petrolio e gas ne possiede in abbondanza, occorra ben altro.

A tale proposito, si deve tenere presente che le stesse vicende medio-orientali non le si comprende se non si tiene conto che la Russia è considerata di nuovo da Washington il nemico principale dell’Occidente. Non a caso, secondo Brzezinski sarebbe opportuno mettere fine al caos in Medio Oriente mediante un’alleanza strategica con l’Iran – Israele e petromonarchie del Golfo volenti o nolenti – e al tempo stesso puntare su un sistema bipolare incentrato su un rapporto privilegiato tra gli Usa e la Cina, senza escludere l’esistenza di altri minori “poli geopolitici” di carattere regionale (per questo motivo il celebre studioso statunitense definisce tale sistema “G2 plus”). (9). Se le posizioni del più noto geopolitico americano d’origine polacca sembrano essere indice delle difficoltà dell’attuale amministrazione americana (come altrimenti spiegare la difesa di un progetto così poco “realistico”?), sono pure indice di quanto sia importante per Washington mettere con “le spalle al muro” la Russia, dacché la rinascita economica e geopolitica di una superpotenza militare come la Russia, può mutare “in radice” gli equilibri mondiali tuttora incentrati sulla supremazia statunitense, attraendo nella sfera d’influenza di un “polo geopolitico” eurasiatico un notevole numero di Paesi dell’Eurasia (Europa compresa). Ragion per cui Washington non si è limitata in questi anni ad installare una serie di basi militari ai confini della Russia, infischiandosene degli accordi presi con Gorbaciov, o a denunciare unilateralmente, nel 2002, il trattato Abm (alterando di conseguenza l’equilibrio del terrore nucleare, senza che i “vassalli europei” battessero ciglio), ma ha addirittura promosso un colpo di Stato a Kiev, (10) per favorire l’instaurazione di un regime dichiaratamente ostile alla Russia, pur sapendo che l’Ucraina è di importanza vitale per la sicurezza nazionale russa. Ancora una volta però Washington ha fatto “i conti senza l’oste”. Infatti, dopo che gli “insorti” hanno violato l’accordo tra il governo ucraino e l’opposizione, che prevedeva che Yanukovich restasse in sella fino alle nuove elezioni, la Crimea si è riunita a furor di popolo con la Russia, e anche gli altri russi (11) dell’Ucraina orientale si sono rifiutati di obbedire ai golpisti filo-occidentali di Kiev. Inoltre, i rapporti tra Mosca e Pechino, anziché indebolirsi come auspicato da Brzezinski, si sono ancor più rafforzati. Un “contraccolpo” che potrebbe mandare a monte decenni di lavoro diplomatico degli Usa ( al fine di inasprire i rapporti non facili tra la Russia e la Cina), e avere conseguenze assai sgradite per gli apprendisti stregoni della Casa Bianca, mentre il governo di Kiev, che non è riuscito ad imporre la propria autorità nell’Ucraina orientale, è sempre più dipendente dagli aiuti economici dell’Occidente.

Eppure, è evidente che la politica di “pre-potenza” degli Usa rischia veramente di moltiplicare conflitti e squilibri d’ogni genere: si è messa a soqquadro l’Africa Settentrionale (con grave pericolo per i Paesi vicini, tra cui l’Italia), (12) si è trasformata l’intera Mesopotamia in un lago di sangue, si è incendiata l’Ucraina e si è scatenata una nuova guerra fredda contro la Russia. E tutto questo, mentre gli Usa non rinunciano nemmeno a mostrare i muscoli nel Pacifico per intimorire la Cina, né intendono cambiare politica in America Latina, ove hanno compiuto ogni sorta di nefandezza. Sicché, se le preoccupazioni di Paul Craig Roberts paiono eccessive, dacché le armi termonucleari incutono terrore non solo alla Casa Bianca ma pure ai “banditi di Wall Street”, sarebbe sciocco non preoccuparsi per i venti di guerra che soffiano sulla stessa Europa. Le deliranti dichiarazioni di Lech Walesa, secondo cui cui la Nato dovrebbe consegnare ai Polacchi dei missili nucleari, di modo che la Polonia possa minacciare la Russia, (13) rivelano non solo che buona parte dei Paesi dell’Europa orientale sono “drammaticamente” fermi al 1939, ma che in Occidente si rischia davvero di scherzare con il fuoco, ignorando, tra l’altro, lo spaventoso costo che l’Unione Sovietica (ma soprattutto la Russia) dovette pagare per difendersi dall’aggressione tedesca nella Seconda Guerra Mondiale, (14) dopo essere già stata aggredita da Carlo XII di Svezia e da Napoleone.

In definitiva, anche se dovrebbe essere chiaro a chiunque che la “geopolitica del caos” (che pare essere diventata la strategia preferita da Washington) non necessariamente favorisce gli Usa, non si può nemmeno escludere che la smisurata “volontà di potenza” statunitense possa avere conseguenze catastrofiche per la maggior parte degli abitanti del pianeta, compresi quelli del Vecchio Continente, che perciò avrebbero tutto l’interesse a smarcarsi dalla politica irresponsabile e “guerrafondaia” degli Usa. Il prezzo della “prepotenza” di Washington rischia comunque di essere salatissimo per il Vecchio Continente, che non solo non si trova sull’altra sponda dell’oceano Atlantico come l’America (che quindi è ben lontana dalle fiamme che bruciano l’Africa, il Medio Oriente o l’Ucraina), ma che è colpito da una crisi che ormai aggredisce perfino il “corpo vivo” dei Paesi dell’Europa meridionale. Tuttavia, è inutile dire che dall’Unione Europea non ci si può aspettare nulla di buono, perlomeno fino a quando gli europei continueranno ad essere sottomessi alla brutale e impersonale dittatura dei “mercati occidentali”, ossia finché non saranno in grado di sbarazzarsi di una classe dirigente al servizio di Washington e di Wall Street.

NOTE
1. P. C. Roberts, Washington Is Destroying the World (http:// www. Paulcraigroberts. Org/ 2014/10/06/ washington-destroying-world-paul-craig-roberts/). Si tenga presente che Paul Craig Roberts non è affatto un “signor nessuno”, dato che, oltre ad essere stato membro del governo di Reagan, è stato associate editor del Wall Street Journal e columnist di Business Week.
2.Vedi in particolare Gabriel Kolko, Il libro nero della guerra, Fazi, Roma, 2005, pp. 209-238. Benché sia emersa solo la “punta dell’iceberg”, ancora una volta si è verificato il “crollo del morale” dei soldati americani (ivi, pp. 621-622 e p. 635).
3. Saddam non poteva scegliere né momento peggiore (l’Urss era sul punto di “collassare” e aveva inizio il cosiddetto “unipolarismo” americano), né teatro operativo migliore per le forze armate americane, dacché dalla Seconda guerra mondiale si sa che la guerra nel deserto è simile a quella sul mare, e che decisivo pertanto è il dominio dell’aria.
4. Non è esagerato affermare che la sagacia tattica di Giap, che negò sempre al generale statunitense Westmoreland l’opportunità di combattere una grande battaglia “in campo aperto”, logorò l’esercito degli Usa al punto che, dopo l’offensiva del Tet del 1968, i soldati americani rischiavano di essere più pericolosi per i propri ufficiali che non per i nemici. Si badi però che Hanoi non si limitò a condurre operazioni di guerriglia, ma seppe attuare una vera “guerra rivoluzionaria” in perfetto “stile clausewitziano”, di modo che fosse impossibile per Washington far convergere obiettivi militari e scopo politico. E fu solo l’abilità strategica del duo Nixon-Kissinger a far uscire gli Usa dal “labirinto vietnamita”.
5. Com’è ovvio, ci si riferisce alla celebre opera I rinoceronti, di Eugène Ionesco.
6. Il professor Michel Chossudovsky giunge ad affermare che «la guerra civile in Ruanda [cominciata nel 1990] ed i massacri etnici erano parte integrante della politica estera USA, messa a punto secondo precisi obiettivi strategici ed economici. Nonostante le buone relazioni diplomatiche tra Parigi e Washington e l’apparente unità dell’alleanza militare occidentale, si trattò di una guerra non dichiarata tra Francia ed America», M. Chossudovsky, The Globalization of Poverty and the New Order, Global Research, Pincourt, Québec, Canada, 2003, p. 120. Non si deve poi trascurare che le compagnie petrolifere cinesi sono sempre più attive in Africa, specialmente in Angola, Sudan e Guinea. Perfino lo “strano” invio di truppe americane per “combattere” il virus ebola potrebbe essere messo in relazione alla politica di Washington, tesa a contrastare la crescente presenza economica cinese nel continente africano.
7. Sulla “trappola Afghanistan” vedi G. Kolko, op. cit., pp. 510-516.
8. Vedi Claudio Mutti, Il Mediterraneo tra ‘Eurasia e l’Occidente (http://www.eurasia-rivista.org/il-mediterraneo-tra-leurasia-e-loccidente-2/15679/).
9. Per le tesi di Brzezinski vedi Fabio Falchi, La grande scacchiera secondo Brzezinski (http:// www. eurasia-rivista.org/la-grande-scacchiera-secondo-brzezinski/21794/).
10. Oltre alle note e scandalose affermazioni della Nuland, ai misteriosi cecchini che a Kiev nello stesso tempo sparavano contro i manifestanti e i poliziotti e al mancato intervento delle forze armate ucraine (un fatto “inconsueto”), non si devono neppure ignorare i cospicui finanziamenti alle forze dell’opposizione perché abbattessero il governo “filorusso” di Yanukovich (vedi John L.Mearsheimer, Why the Ukarine Crisis is the West Fault, http://www.foreignaffairs.com/articles/141769/john-j-mearsheimer/why-the-ukraine-crisis-is-the-wests-fault).
11. Non “filo-russi” come vengono definiti dagli “eurogazzettieri”, forse “confusi” dalle squallide “prestazioni hard” in un museo di Mosca da parte delle Pussy Riot, e da altre carnevalate di quel gigantesco e grottesco Circo Barnum che pare essere diventato il mondo occidentale in questi ultimi decenni.
12. Ma i vertici delle forze armate del Paese dell’8 settembre permanente si vantano pure di avere contribuito a distruggere la Giamahiria, il che, in sostanza, equivale a vantarsi di aver bombardato il proprio Paese.
13. Lech Walesa, Putin? Bisogna fermarlo. Dateci i missili nucleari, li punteremo su Mosca (http://www.lastampa.it/2014/10/06/esteri/walesa-putin-bisogna-fermarlo-dateci-i-missili-nucleari-li-punteremo-su-mosca-otnpP8G7zguVxxTcQEgEFN/pagina.html).
14. Le perdite dell’Armata Rossa ammontarono a circa 9.000.000 di morti e ad oltre 18.000.000 di feriti o malati. Ancora più gravi le perdite tra i civili dell’Unione Sovietica, ossia almeno 16.900.000 morti, vedi Richard Overy, Russia in guerra, Il Saggiatore, Milano, 2000, p. 294. Ma non c’è dubbio che lo sforzo maggiore fu compiuto proprio dalla Russia, come lo stesso Overy riconosce.


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Fabio Falchi ha compiuto studi filosofici. Nel 2010 ha iniziato una fruttuosa collaborazione con "Eurasia. Rivista di studi geopolitici" e col relativo sito informatico, pubblicando diversi articoli e saggi in cui vengono tracciate le linee di una "geofilosofia" dell'Eurasia. Accogliendo la prospettiva corbiniana dell'Eurasia quale luogo ontologico della teofania, l'Autore ambisce a fare della posizione geofilosofica il grado di passaggio a quella "geosofica". Un tentativo di tracciare una sorta di mappa storico-geopolitica e metapolitica dei conflitti dall'antichità fino ai nostri giorni è costituito da Il Politico e la guerra (due volumi, 2015-2016); una nuova edizione di quest'opera, Polemos. Il Politico e la guerra dall'antichità ai nostri giorni, è disponibile sul sito "Academia.edu". Nel 2016, infine, è apparsa la sua opera più recente, Comunità e conflitto. La Terra e l’Ombra.