La guerra dello Yemen era largamente ignorata dai mezzi d’informazione occidentali già prima del famigerato 24 febbraio, ma da quando la Russia ha dato inizio alla cosiddetta “operazione militare speciale” il conflitto yemenita è definitivamente sprofondato nel dimenticatoio. Un silenzio che risalta ancora di più se accostato al continuo bombardamento mediatico sui fatti d’Ucraina e dintorni, interrottosi solo lo scorso 7 ottobre per fare spazio alla Palestina.

Bisogna però precisare che la copertura mediatica di queste due guerre è molto diversa, non solo in termini quantitativi ma anche qualitativi. Un’illuminante ricerca pubblicata sul sito The Conversation e condotta analizzando i titoli degli articoli del New York Times dedicati allo Yemen e all’Ucraina ha dimostrato la faziosità del quotidiano statunitense. Una faziosità che ovviamente è molto allineata agli indirizzi di politica estera del governo statunitense[1].

Innanzitutto una nota di metodo. Se l’oggetto della ricerca è costituito dai titoli degli articoli non è per superficialità. Sebbene il testo di un articolo sia solitamente più ricco di informazioni – sia sulla notizia in sé, sia sul contesto – il titolo ricopre comunque un’importanza cruciale. Oltre a suggerire la linea editoriale della pubblicazione, il titolo rimane impresso nella memoria del lettore e ne influenza la fruizione dell’articolo. In più, non bisogna sottovalutare il fatto che molti lettori si fermano al titolo[2].

Differenza quantitativa e qualitativa, si diceva. Per quanto riguarda i numeri, tra il 26 marzo 2015 (giorno in cui iniziò l’intervento della coalizione a guida saudita) e il 30 novembre 2022, The New York Times ha dedicato 546 articoli allo Yemen. I pezzi sull’Ucraina hanno superato questa cifra dopo tre mesi e l’hanno raddoppiata alla fine del novembre 2022. Dal punto di vista qualitativo, in entrambi i casi utilizzando come campione titoli riguardanti gli attacchi contro i civili, le notizie riguardanti l’Ucraina sono spesso caratterizzate da toni moralistici che denunciano in maniera aperta la condotta bellica russa. Gli articoli sullo Yemen, al contrario, utilizzano toni più neutri che spesso evitano di puntare il dito contro l’Arabia Saudita.

Ci troviamo quindi di fronte a due Stati che, nell’ambito delle rispettive campagne militari, hanno eseguito attacchi che hanno causato vittime civili. Alla medesima condotta, tuttavia, non si accosta la stessa narrazione dei fatti. Se la differenza quantitativa non sorprende – l’opinione pubblica nordamericana ed europea è senza dubbio più interessata alle sorti dell’Ucraina che a quelle dello Yemen – il divario qualitativo merita qualche considerazione in più.

La copertura mediatica del New York Times è emblematica del doppiopesismo che l’Occidente dimostra quando si tratta della tutela della democrazia e dei diritti umani nell’arena della politica internazionale. Da questa prospettiva una condotta rispettosa dei valori liberaldemocratici dovrebbe teoricamente tradursi, nel contesto bellico, in una conduzione delle operazioni militari attenta a non danneggiare la popolazione civile, ovvero basata sul principio di distinzione dei bersagli civili da quelli militari. Coerenza vorrebbe che nel momento in cui uno Stato viola questi principi, esso venisse criticato e sanzionato. Ma ciò che vale per gli avversari non si applica ai danni degli alleati o presunti tali.

Il suddetto doppiopesismo contraddistingue non solo buona parte dell’opinione pubblica ma anche – anzi, soprattutto – la politica estera condotta dai governi. Infatti, se la Russia è stata oggetto di pesanti critiche e sanzioni, lo stesso trattamento non è stato riservato all’Arabia Saudita. Il massimo che alcuni paesi occidentali hanno fatto, tra i quali Danimarca, Germania e Italia, è stato bloccare temporaneamente la vendita di armi[3].

A questo punto occorre precisare che il governo saudita non solo è responsabile di bombardamenti che hanno causato la morte di migliaia di civili, ma anche di un blocco pensato per indebolire i suoi nemici, un blocco che ha solo aggravato quella che le Nazioni Unite e numerose organizzazioni non governative hanno definita come una delle più gravi crisi umanitarie del XXI secolo. Il blocco saudita ha ostacolato gli aiuti umanitari favorendo la diffusione delle malattie (tra cui il colera) e l’inasprimento della piaga della malnutrizione. Da quando l’Arabia Saudita è intervenuta nella guerra civile, decine di migliaia di civili yemeniti sono morti a causa delle malattie e della fame[4].

Occorre poi ricordare che nella sua fallimentare campagna militare Riyad non solo ha potuto contare sulle armi occidentali, ma ha beneficiato anche del supporto logistico degli Stati Uniti e del Regno Unito.

La differenza di trattamento è perciò lampante: da un lato le sanzioni alla Russia, la condanna della sua condotta bellica, l’invio di armi a Kiev e l’esaltazione dell’Ucraina assurta a baluardo della democrazia contro l’autocrazia. Dall’altro, il silenzio sui bombardamenti e sul blocco, il supporto logistico e la vendita di armi all’Arabia Saudita. Senza dimenticare le quotidiane violazioni dei diritti umani di cui il governo saudita si rende protagonista e il caso Khashoggi.

Sebbene le ragioni dell’intervento di Riyad in Yemen siano molto diverse da quelle che hanno portato Mosca a invadere l’Ucraina, gli Stati Uniti e i loro alleati si sono resi complici, in maniera più o meno diretta, delle atrocità causate dai sauditi con i bombardamenti e con il blocco. Democrazia e diritti umani vengono così ridotti a leve utilizzate per screditare i propri avversari e per serrare i ranghi dei propri alleati, strumenti da impiegare per convenienza politica.

La politica occidentale nei confronti dell’intervento saudita è quindi l’ennesimo cortocircuito di quella narrazione che pretende di dividere la comunità internazionale in due schieramenti netti e contrapposti: democrazie contro dittature, ovvero buoni contro cattivi. Si tratta dell’ultima (per ora) di una lunga serie di contraddizioni che smentiscono la credibilità dell’Occidente.

Vale la pena citarne almeno due. Quest’anno sono stati celebrati alcuni anniversari significativi: il 50° anniversario del golpe contro il presidente cileno Salvador Allende e il 70° anniversario del colpo di Stato che spodestò il primo ministro iraniano Mohammed Mossadeq. Politici che furono democraticamente eletti, ma il cui orientamento non era condiviso dagli Stati Uniti, che decisero di eliminarli per favorire i propri sostenitori. A queste vittime del doppio standard occidentale bisogna aggiungere la popolazione yemenita e soprattutto quella palestinese, alle quali i governi occidentali e buona parte dell’opinione pubblica non riconoscono dignità pari a quella dei civili ucraini.

In tutto questo, il dramma dello Yemen continua. Ci sono però alcune note positive: a partire dalla tregua raggiunta nell’aprile 2022 grazie alla mediazione delle Nazioni Unite l’intensità dei combattimenti è diminuita. L’Onu è anche riuscita a sventare un disastro ambientale[5] mentre lo storico accordo tra Iran e Arabia Saudita mediato dalla Cina ha favorito ulteriormente l’abbassamento della conflittualità.

In questo contesto di lenta ma progressiva stabilizzazione, la recente recrudescenza del conflitto israelo-palestinese è stata un fulmine a ciel sereno. La violenza della rappresaglia israeliana ha causato l’intervento yemenita. Già alla fine di ottobre il governo filoiraniano, composto da esponenti del partito Ansar Allah (Houthi), ha lanciato numerosi missili balistici contro bersagli militari israeliani[6]. Nelle ultime settimane però il conflitto ha assunto una dimensione marittima, allargandosi allo stretto di Bab al-Mandeb, strategico collo di bottiglia che separa la penisola araba e il corno d’Africa, connettendo Mar Rosso e Oceano Indiano. Il governo yemenita filoiraniano controlla la parte asiatica dello stretto e da qui, lo scorso 19 novembre, è partito il blitz con cui un gruppo di miliziani aerotrasportati di Ansar Allah ha preso possesso di “una nave israeliana”[7].

Questa dimensione marittima del conflitto tra Israele e lo Yemen ha visto anche il coinvolgimento degli Stati Uniti. Nelle ultime settimane la marina statunitense è più volte intervenuta nel tentativo di intercettare i missili e i droni yemeniti. Il fatto più recente si è verificato il 3 dicembre, quando Ansar Allah ha lanciato droni armati di missili per colpire alcune navi mercantili che stavano transitando nel Mar Rosso. Il cacciatorpediniere USS Carney della marina statunitense è intervenuto a difesa dei mercantili, riuscendo ad abbattere tre droni.

L’intervento yemenita nel conflitto israelo-palestinese è coerente con l’appartenenza di Ansar Allah all’asse della resistenza guidato dall’Iran. Per usare le parole del portavoce delle forze armate yemenite Yahya Sare’e, l’intervento a sostegno della popolazione palestinese è stato reso “imperativo” dal “nemico sionista” e dai suoi “continui crimini e massacri contro il popolo di Gaza e contro tutto il popolo della Palestina”[8].

Ad ogni modo, al netto delle conseguenze dell’allargamento della guerra in Palestina, il paese rimane comunque frammentato e all’orizzonte non si vedono spiragli per una vera pacificazione che permetta la riunificazione: il nord con la capitale Sana’a è controllato dal governo filoiraniano, mentre il resto del paese è nelle mani dell’eterogeneo gruppo di fazioni che sostengono il governo riconosciuto dall’Occidente. Nel frattempo la crisi umanitaria non dà tregua: malnutrizione e malattie continuano a martellare i civili, nell’indifferenza generale.


NOTE

[1] Esther Brito Ruiz, Jeff Bachman, Headlines and front lines: How US news coverage of wars in Yemen and Ukraine reveals a bias in recording civilian harm, theconversation.com, 3 agosto 2023.

[2] La seguente citazione è presa dalla versione originale dell’articolo menzionato sopra. “Purposefully, our analysis focused solely on headlines. While the full stories may bring greater context to the reporting, headlines are particularly important for three reasons: They frame the story in a way that affects how it is read and remembered; reflect the publication’s ideological stance on an issue; and, for many news consumers, are the only part of the story that is read at all”.

[3] Ebad Ahmed, Denmark ends arms sale ban against Saudi Arabia, UAE, aa.com.tr, 11 marzo 2023. Luca Gambardella, Anche l’Italia torna a vendere bombe e missili all’Arabia Saudita, ilfoglio.it, 01 giugno 2023. Hans Von Der Burchard, Germany loosens arms export restrictions to Saudi Arabia – but not on fighter jets, politico.eu, 12 luglio 2023.

[4] Torture in slow motion: The economic blockade of Yemen and its grave humanitarian consequences, reliefweb.int, 22 settembre 2022.

[5] L’operazione per svuotare la petroliera abbandonata al largo dello Yemen è andata a buon fine, ilpost.it, 11 agosto 2023.

[6] Emad Almarshahi, Yemeni Armed Forces confirm launching strikes against Israel in retaliation for its aggression against Gaza, hodhodyemennews.net, 31 ottobre 2023.

[7] Houthis seize ship in Red Sea with link to Israeli company, reuters.com, 20 novembre 2023.

[8] Si veda nota 6.


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Massimiliano Palladini, dopo la laurea triennale in Scienze politiche, sociali e internazionali (Università di Bologna) ha conseguito la laurea magistrale in Relazioni internazionali ed europee (Università di Parma). Si interessa di politica internazionale e storia delle relazioni internazionali. Nel 2019, insieme ad alcuni compagni di corso dell’Università di Bologna, ha fondato Civitas Europa, associazione di studi sull’integrazione europea e la politica internazionale.