Il 1° febbraio il Tatmadaw (le Forze Armate del Myanmar) sono intervenute per deporre i vertici politici del Paese in seguito alla crisi generata dalle accuse di irregolarità elettorali che gli stessi militari hanno avanzato dopo le elezioni di novembre. Il Presidente Win Myint e la Consigliera di Stato Aung San Suu Kyi (icona democratica sulla quale l’“Occidente”, sin dai primi anni 2000 ed in modo più articolato a partire dall’era Obama, aveva investito ingenti risorse per sganciare il Paese dall’orbita cinese) sono stati posti agli arresti insieme ad altri membri della Lega Nazionale della Democrazia (partito di maggioranza) e della cosiddetta “società civile”. Si tenga presente che quello che è stato descritto dai mezzi di informazione occidentali come un “colpo di Stato militare”, in realtà risulta essere un’operazione attuata in conformità con l’articolo 417 della Costituzione del 2008, la quale prevede la possibilità di dichiarare lo “stato di emergenza” per un periodo di un anno (previo coordinamento tra Ufficio della presidenza e Consiglio di difesa e sicurezza nazionali) qualora si verifichino condizioni capaci di minacciare l’integrità dell’Unione, la solidarietà nazionale o la piena sovranità della stessa[1]. In questa analisi si cercherà di mettere in luce le ragioni che hanno portato all’intervento militare, il potenziale ruolo di agenti esterni ed il rilievo strategico e geopolitico del Paese asiatico.

Il 12 gennaio 2021 il Ministro degli Esteri della Repubblica Popolare Cinese Wang Yi incontrò il Capo delle Forze Armate del Myanmar Min Aung Hlaing, l’uomo che ha assunto il ruolo di Capo del Governo in seguito alla dichiarazione dello stato d’emergenza. Durante l’incontro i due definirono le relazioni tra i due Paesi utilizzando il termine “pankphaw” che indica un rapporto di fraterna amicizia[2]. Oltre a ringraziare Pechino per il sostegno dato al Myanmar nella crisi sanitaria generata dalla pandemia ed oltre a garantire l’appoggio birmano alla causa della “Cina unica”, Min Aung Hlaing sostenne anche la necessità di accelerare la costruzione del CMEC – China Myanmar Economic Corridor: il progetto di interconnessione infrastrutturale tra i due Paesi che rappresenta uno degli snodi cruciali all’interno della Nuova Via della Seta.

Il CMEC, al pari dell’altrettanto fondamentale ramo sino-pakistano del progetto infrastrutturale eurasiatico (CPEC), evita il transito commerciale attraverso le aree contese del Mare Cinese Merionale e lo Stretto di Malacca, aprendo a Pechino l’ingresso diretto nell’Oceano Indiano e la possibilità di costruire relazioni geopolitiche e geoeconomiche dirette tra Asia ed Africa: ovvero, lungo quella direttrice Sud-Sud (in opposizione all’egemonia del Nord) già teorizzata dal maoismo e ripresa, in tempi più recenti, anche da alcuni studiosi sudamericani (come nel caso del “meridionalismo” dello studioso brasiliano André Martin). Il valore strategico del CMEC, inoltre, è dato dalla possibilità di connessione (e di aggiramento del rivale indiano) tra il porto di Sittwe in Myanmar, quello di Hambantota in Sri Lanka ed il porto pakistano di Gwadar[3]. Una progettualità all’interno della quale si inserisce anche la volontà di Pechino di espandere il corridoio sino-pakistano all’Afghanistan; ragione per cui le forze multipolariste (dall’Iran al Pakistan fino alla Russia e alla Cina) stanno spingendo per una rapida pacificazione del Paese dell’Asia Centrale (al contrario dell’India che invece continua a lavorare sotto traccia, non solo per il mantenimento di un contingente nordamericano a Kabul, ma anche per la destabilizzazione dell’area).

Il ruolo dell’India, anche in Myanmar, non può essere in alcun modo sottovalutato. Se è vero che Aung San Suu Kyi (con delusione dei suoi sostenitori “occidentali”) non ha intaccato particolarmente i tradizionali ottimi rapporti tra il Paese e la Cina ed il programma di cooperazione con quest’ultima, è altrettanto vero che nel corso dei suoi anni di governo il Paese, oltre all’apertura al circuito delle ONG “sorosiane”, ha conosciuto un sostanziale avvicinamento con Nuova Delhi: un rapporto intensificatosi negli ultimi mesi con il blocco all’acquisto del vaccino anti-Covid cinese, al quale è stato preferito proprio quello indiano.

Nuova Delhi, inoltre, non nuova alla produzione di false informazioni per screditare i propri rivali[4], da tempo sostiene che la Cina stia appoggiando il traffico di armi lungo il confine indo-birmano attraverso l’appoggio logistico ad alcuni gruppi armati che operano all’interno del Myanmar (l’Esercito di Arakam e l’Esercito dello Stato Unito di Wa)[5]: una strategia informativa rivolta non solo ad incrinare le relazioni tra Pechino e Naypyitaw, ma anche, considerando il ruolo attribuito all’India dagli Stati Uniti, ad accelerare la destabilizzazione di un Paese già profondamente diviso lungo linee etnico-settarie.

Uno dei motivi che possono avere spinto i militari all’intervento diretto, oltre al pretesto delle irregolarità elettorali, è stata proprio la constatazione del fatto che la potenziale istituzionalizzazione della divisione de facto dell’Unione avrebbe potuto causare la creazione di ulteriori potentati locali, suscettibili di venire cooptati da potenze esterne per ragioni in aperto contrasto con l’interesse nazionale. In questo senso il Tatmadaw, istituzione fieramente nazionalista, avrebbe agito nel rispetto della Costituzione del 2008 e della difesa dell’unità nazionale[6]. Uno degli auguri rivolti da Wang Yi a Min Aung Hlaing nel corso del suddetto incontro è stato infatti quello di operare nell’ambito di una “rivitalizzazione nazionale” del Myanmar.

Dunque non sorprende che già prima dell’intervento dei militari (i cui vertici, Min Aung Hlaing compreso, è bene dirlo, sono già stati sottoposti a sanzioni da Washington e Londra a seguito delle azioni adottate per sedare i disordini nello Stato del Rakhine tra buddhisti ed una minoranza musulmana che il governo centrale ritiene essere discendente di immigrati bengalesi), gli USA abbiano minacciato severe punizioni per il Tatmadaw[7].

Ad onor del vero, c’è stato chi ha avanzato l’idea che dietro all’azione dell’Esercito vi fosse la longa manus dei servizi nordamericani. Questo aspetto merita un approfondimento. Innanzitutto è bene sottolineare che il Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, soprattutto dopo la mancata presa di posizione a favore di quello che in “Occidente” viene presentato come popolo Rohingya, ha perso parte della sua “credibilità democratica”, costruita su apparizioni in compagnia di Barack Obama e della famiglia Soros. A ciò si aggiunga il fatto che costei, anche in virtù di una condivisione di potere con apparati militari storicamente legati (seppur tra alti e bassi) con la Cina e con la Russia[8], non ha potuto intavolare una politica estera in totale discontinuità col passato. Tuttavia, affermando che Aung San Suu Kyi sarebbe stata deposta in relazione all’estensione birmana della Nuova Via della Seta, si dimentica il fatto che dei 38 progetti previsti all’interno del CMEC solo 9 sono stati al momento approvati e che lo stesso Tatmadaw, come corpo militare, risulta storicamente di difficile infiltrazione da apparati esterni. È molto più probabile che gli stessi militari abbiano ritenuto la figura della “paladina pacifista” non più spendibile a livello esterno e sostanzialmente dannosa a livello interno.

Ciò non significa che l’evento (attribuibile, secondo chi scrive, a chiare dinamiche interne) non possa essere comunque utilizzato da chi, nel corso dei decenni, ha fondato la sua strategia geopolitica sulla creazione del caos. Le reazioni internazionali all’intervento militare in questo senso sono emblematiche. Se Cina e Russia, perfettamente consapevoli del ruolo cruciale dei militari in Myanmar, hanno mantenuto un atteggiamento diplomatico di non interferenza con i processi politici interni, l’“Occidente” ha avanzato immediatamente critiche, intimidazioni e minacce, vista la constatazione del fallimento nel programma di esportazione della democrazia liberale.

Il nuovo Segretario di Stato USA, il “falco democratico” Antony Blinken, ha intimato ai militari di invertire immediatamente le loro decisioni. Il nuovo Presidente nordamericano Joe Biden ha richiesto l’intervento della “comunità internazionale” per condannare l’azione militare. “The United States – ha affermato Biden – removed sanctions on Burma over the past decade based on progress towards democracy […] the reversal of that progress necessitates an immediate review of your sanction laws and authorities followed by appropriate action[9].

Più o meno sulla stessa lunghezza d’onda sono state le dichiarazioni del Senatore democratico Bob Menendez, il quale ha auspicato l’imposizione di ulteriori “strict economic sanctions[10] e del diplomatico Daniel Russel (colui che ha costruito il rapporto tra l’amministrazione Obama ed Aung San Suu Kyi), il quale ha sottolineato che il “colpo di Stato” è un duro colpo agli interessi regionali degli Stati Uniti, avendo estromesso dalle leve del potere il principale strumento in possesso dell’Occidente[11]. A ciò si aggiunga che l’organo della CIA in Asia, Radio Free Asia, si è immediatamente adoperato come megafono della protesta di Aung San Suu Kyi[12]

Resta da capire, dunque, come gli Stati Uniti possano sfruttare la situazione a proprio vantaggio. Oltre alla già citata possibilità di utilizzare l’India come strumento di guerra ibrida nei confronti del Myanmar, un’altra soluzione potrebbe essere quella della creazione di uno “scenario venezuelano” (o bielorusso) non riconoscendo il dato di fatto della situazione politica interna e continuando a garantire legittimità ad un governo senza potere reale, nella speranza di innescare un rapido processo di destabilizzazione e “balcanizzazione”.

In questo contesto, il ruolo di Cina e Russia non potrà che essere quello di accompagnare il Myanmar verso un processo politico che garantisca stabilità interna (anche attraverso il mantenimento inalterato dei canali commerciali che verranno compromessi dall’eventuale nuovo regime sanzionatorio occidentale) e l’assenza di intromissioni esterne non solo a Naypyitaw ma anche nel più ampio spazio eurasiatico.


NOTE

[1]    La Costituzione del Myanmar è consultabile sul sito www.constituteproject.org.

[2]    Wang Yi meets with Myanmar’s Commander in Chief of Defense Services Min Aung Hlaing, www.fmrc.gov.cn.

[3]    Il porto cingalese di Hambantota, a suo tempo, venne elevato ad esempio del carattere aggressivo del progetto infrastrutturale cinese in un celebre articolo di George Soros pubblicato dal “Financial Review”. Il noto speculatore, nel suo contributo dall’emblematico titolo “Xi Jinping is the most dangerous enemy”, sostenne la tesi che la Cina, attraverso la cosiddetta “trappola del debito”, stesse cercando di stringere un cappio attorno al collo dei Paesi inseriti all’interno della Nuova Via della Seta. Tuttavia, alcuni studi della John Hopkins University e dell’Università di Boston hanno dimostrato come vi sia una correlazione abbastanza scarsa tra i problemi del debito dei suddetti Paesi e l’opera infrastrutturale.

[4]    Emblematico in questo senso è la vasta campagna di disinformazione prodotta dai mezzi di informazione indiani, ed ampiamente rilanciata in “Occidente”, sul Pakistan. Si vedano, ad esempio, The dead professor and the vast pro-India disinformation campaign, www.bbc.com; EU NGO report uncovers Indian disinformation campaign, www.aljazeera.com

[5]    India accuses China of helping rebel groups on its Myanmar border, www.scmp.com.

[6]    È bene ricordare che la Costituzione del 2008 prevede che il 25% dei seggi in Parlamento appartenga di diritto al Partito dell’Unione, Solidarietà e Sviluppo (espressione politica del Tatmadaw) e che ai militari debba essere comunque garantito il controllo degli Interni e naturalmente della Difesa. Va da sé che lo stesso Esercito (in una impostazione simile a quella egiziana) gode di sostanziale autonomia in materia di gestione degli investimenti.

[7]    US warns Myanmar’s military it’all be punished for coup, www.politico.com.

[8]    Il 29 giugno 1954 Cina e Birmania siglarono un Trattato di amicizia basato sui Cinque Principi di Coesistenza Pacifica: a) rispetto reciproco dell’integrità e della sovranità nazionale; b) mutua non aggressione; c) reciproca non interferenza negli affari interni; d) mutuo vantaggio ed uguaglianza; e) pacifica coesistenza. Tra la fine gli anni ’60 e gli anni ’70 del secolo scorso, i rapporti tra i due Paesi si incrinarono a seguito di alcune rivolte anti-cinesi in Birmania. Tuttavia, durante l’era Deng, i rapporti tornarono ad essere ottimi soprattutto a seguito della firma di  diversi accordi di cooperazione commerciale a partire dalle fine degli anni ’80.

[9]    Si veda Myanmar’s Army Chief challenges Biden, bets big on China, www.bloomberg.com.

[10]  Ibidem.

[11]  Si veda, Myanmar Army pledges new elections after one year state of emrgency; Suu Kyi urges public to protest, www.straitstimes.com.

[12]  Aung San Suu Kyi urges protests to reject Myanmar miltary coup, 1-year state of emergency, www.rfa.org.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).