In un precedente articolo apparso sul sito informatico di “Eurasia” dal titolo “Cosa sta accadendo in Myanmar” si era già cercato di interpretare i fatti birmani alla luce della convulsa situazione interna e delle potenziali dinamiche geopolitiche che si sarebbero potute innescare. In quell’occasione, a pochi giorni dall’azione militare che sovvertì l’esito elettorale in base ad accuse di irregolarità, l’articolo si concludeva con la speranza che la presenza di agenti esterni (ben poco interessati alla tutela della democrazia) non provocasse un’ulteriore destabilizzazione del Paese. Ad alcuni mesi di distanza dai fatti, tali speranze sono state ampiamente disattese. In quest’analisi si cercherà di descrivere la strategia occidentale per la creazione di uno “scenario siriano” nello Stato dell’Asia meridionale.

 

Nel corso del Forum sulla Sicurezza Internazionale di Halifax del 2011, l’allora senatore repubblicano ed ex candidato alla Casa Bianca John McCain dichiarò: “A year ago, Ben Ali and Gaddafi were not in power. Assad won’t be in power this time the next year. This Arab Spring is a virus that will attack Moscow and Beijing[1].

In tempi di pandemia, il paragone fatto a suo tempo da McCain tra gli schemi strategici utilizzati dall’“Occidente” per la destabilizzazione dei Paesi non allineati (dalle primavere arabe alle rivoluzioni colorate) ed un virus appare di stringente attualità e particolarmente efficace. Soprattutto alla luce del fatto che Russia e Cina, al pari di quanto avvenuto con il Covid-19, sono riuscite (per prime) a trovarne una via di uscita. Tuttavia, il “virus”, quello biologico come quello geopolitico, rimane un nemico infido e difficile da debellare completamente. Il caso birmano lo dimostra in modo emblematico.

In questo contesto non si insisterà sugli aspetti che hanno portato all’intervento militare dei primi giorni di febbraio. Tali aspetti sono stati già ampiamente indagati, anche nei loro termini costituzionali, nel suddetto articolo pubblicato sul sito informatico di “Eurasia”[2]. Qui, in linea con quanto sostenuto allora (ovvero, l’attribuzione dell’evento a dinamiche collegate alla condivisione interna del potere), verrà data priorità all’evoluzione della situazione birmana in relazione alla crescente tensione e rivalità tra “Occidente” e “blocco eurasiatico”.

Di fatto, ciò a cui si sta assistendo è l’applicazione di una precisa strategia rivolta a manipolare le informazioni provenienti dal Myanmar per diffondere e consolidare teorie anticinesi (anche dal sapore cospirativo) sia all’interno che all’esterno del Paese dell’Asia meridionale. E lo si sta facendo per diversi ordini di motivi.

In primo luogo, bisogna considerare la prospettiva geopolitica. È chiara la volontà di utilizzare il Myanmar come “pedina” per sabotare ed indebolire le potenzialità di integrazione dello spazio eurasiatico insite nel progetto della Nuova Via della Seta. Dopo l’intervento del Tatmadaw e l’estromissione dal potere del Lega Nazionale per la Democrazia, Stati Uniti, Regno Unito e Canada hanno rapidamente provveduto ad imporre nuove sanzioni alla giunta militare. L’India, dal canto suo, ha seguito i suoi alleati occidentali nello schema anticinese del “Quad” puntando il dito contro il Tatmadaw anche alla luce del fatto che, durante il governo della Lega Nazionale per la Democrazia, era riuscita ad imporre la sua proiezione geopolitica su Naypyitaw attraverso la consistente esportazione di vaccini anti-covid.

Tuttavia, l’imposizione di nuove sanzioni ha fatto temere che la giunta militare si potesse aprire ancora di più verso Mosca e Pechino. Cosa che effettivamente è avvenuta; soprattutto per quanto concerne la Russia. Durante l’annuale parata per il giorno delle Forze Armate, tenutasi nella capitale del Paese dell’Asia meridionale, il capo della giunta militare Min Aung Hlaing ha accolto i rappresentanti di Russia, Cina, Bangladesh, Pakistan, India, Laos, Vietnam e Thailandia, ed ha ribadito al vice ministro della difesa russo Alexander Fomin la profonda amicizia che lega Myanmar e Russia[3].

In risposta a ciò, l’“Occidente” ha ampiamente diffuso false informazioni, sia per screditare la giunta militare agli occhi di Mosca e Pechino, sia per screditare le due capitali agli occhi dei manifestanti birmani. Una di tali false informazioni riguarda l’assunzione (mai confermata dai diretti interessati birmani) da parte del Tatmadaw del lobbista israelo-canadese Ari Ben Menashe, titolare del gruppo con sede a Montreal Dickens e Madson[4]. Ex agente segreto israeliano, noto mentitore e doppiogiochista a scopo di lucro, Ben Menashe ha dichiarato di essere stato assunto per la cifra di 2 milioni di dollari più eventuali bonus in caso di raggiungimento dell’obiettivo. Tale obiettivo sarebbe migliorare l’immagine della giunta militare in “Occidente” (con conseguente rimozione delle sanzioni) divulgando le vere ragioni dell’azione di febbraio: ovvero, rovesciare il governo filocinese di Aung San Suu Kyi per evitare che il Myanmar divenisse un burattino di Pechino.

Ora, ci sono pochi dubbi sul fatto che Pechino non fosse particolarmente entusiasta rispetto ad un’azione suscettibile di venire sfruttata dai suoi rivali geopolitici per generare il caos ai suoi confini. Tuttavia, non sembra completamente credibile il fatto che i militari birmani abbiano scientemente deciso di scindere i legami con il primo socio commerciale del Paese (e con il loro principale fornitore di armamenti) nella speranza di una improbabile redenzione agli occhi di Washington.

A questo proposito, sempre allo scopo di incrinare i legami tra Cina e Tatmadaw, è stato esagerato anche l’appoggio cinese al precedente governo birmano. Quest’ultimo, infatti (anche se tale pratica è stata applicata per l’intero periodo della cosiddetta “transizione democratica”), ha favorito la diffusione su tutto il territorio nazionale di organizzazioni non governative responsabili di aver propagato i modelli occidentali legati a quella che si potrebbe definire come “cultura sorosiana”. Queste, come ha ribadito Xu Luping (Direttore del Centro Studi per l’Asia Meridionale dell’Accademia Cinese di Scienze Sociali), hanno operato per produrre una vera e propria “colonizzazione spirituale” del Myanmar[5]. Non sorprende che la stessa Aung San Suu Kyi, dal 2014 al 2017, si sia incontrata quattro volte con lo speculatore/filantropo George Soros e ben sei volte, dal 2017 al 2020, con suo figlio Alexander. A questo proposito, inoltre, non dovrebbe sorprendere il fatto che uno dei primi provvedimenti presi dalla giunta militare, anche per poter indagare le transazioni finanziarie delle ONG durante gli anni di governo della Lega Nazionale per la Democrazia, sia stato quello di chiudere i conti bancari facenti riferimento alla Open Society Foundation in Myanmar[6]

L’obiettivo “occidentale”, dunque, è quello di generare una forma di antagonismo su più livelli tra Myanmar e Cina per rovinare quella che è stata definita in diverse occasioni come una relazione di amicizia fraterna (non ultima, l’incontro tra il ministro degli esteri cinese Wang Yi e l’attuale capo della giunta militare Min Aung Hlaing dello scorso gennaio)[7]. Ad esempio, diverse delle suddette organizzazioni non governative (insieme ad altri agenti “occidentali”) che operano all’interno ed all’esterno del Myanmar hanno anche diffuso l’idea che Pechino abbia appoggiato l’azione militare per fare sì che i manifestanti indirizzassero la loro rabbia direttamente contro la Cina. Allo stesso tempo, sono stati istigati gli attacchi ed i sabotaggi alle infrastrutture legate alla Nuova Via della Seta (con corredo di diffusione di false notizie anche su questo argomento) per indurre la Cina ad intervenire direttamente all’interno del Myanmar e coinvolgerla nella spirale della tensione. 

Appare evidente che l’“Occidente”, in relazione alla situazione birmana, sembra ben poco interessato alla difesa dei diritti umani e molto di più a creare problemi alla Cina. Una particolare attenzione, tra le ONG che operano in tale direzione, la meritano il Burma Human Rights Watch (con base londinese alla pari del tristemente famoso organismo di diffusione di informazioni false Syrian Observatory for Human Rights), il quotidiano informatico Myanmar Now, il “serbatoio di pensiero” Institute for Strategy and Policy e l’associazione Justice for Myanmar. Tutti questi gruppi rientrano in un modo o nell’altro nella sfera di influenza “occidentale”. Il Burma Human Rights Watch e Myanmar Now, ad esempio, sono apertamente sostenuti dalla fondazione nordamericana National Endowment for Democracy[8]. E tutti questi gruppi sono particolarmente attivi sulle piattaforme sociali private, specialmente da quando il processo di “colonizzazione spirituale” del Paese ha consentito che vi accedessero oltre 20 milioni di nuovi utenti (concentrati soprattutto nelle aree urbane).

Fra i più attivi, ancora una volta, vi sono il Burma Human Rights Watch e Myanmar Now. Se il primo, come già anticipato, ha istigato apertamente al sabotaggio delle infrastrutture e delle industrie cinesi nel Paese in risposta alla repressione della giunta militare (non si capisce, tra l’altro, come la distruzione di una fabbrica che dà lavoro possa migliorare le condizioni del popolo birmano), il secondo ha promosso sotto traccia l’uso della violenza da parte dei manifestanti o, addirittura, la formazione di un esercito federale che includa tutte le forze che si oppongono al governo centrale (gruppi armati legati alle minoranze etniche compresi)[9]. Senza considerare le reiterate invocazioni alla sciagurata pratica del R2P – Responsibility to Protect: schema ideologico del momento unipolare (applicato con esiti tragici in Libia) attraverso il quale gli Stati Uniti (e più in generale l’“Occidente”) si sono attribuiti il ruolo di poliziotto globale al fine di mantenere inalterato il proprio disegno egemonico.

Non meno meritevole di attenzione è l’influenza che sta esercitando nelle proteste un’altra organizzazione di stampo “sorosiano”: la Milk Tea Alliance, anch’essa nata ed estremamente attiva sulle piattaforme sociali private, che le hanno fornito una visibilità equiparabile a quelle dei movimenti Me Too e Black Lives Matter. L’obiettivo della Milk Tea Alliance, legata a figure di primo piano del secessionismo filooccidentale di Hong Kong (come Nathan Law, fuggito dapprima a Londra e successivamente divenuto parte del programma Pritzker Fellows dell’Università di Chicago), è quello di creare un fronte comune di opposizione a Pechino tra Hong Kong, Taiwan, Thailandia (altro Paese centrale nelle rotte della Nuova Via della Seta) e Myanmar.

L’aperto conflitto civile sembra essere, ad oggi, l’evoluzione sperata dall’“Occidente” per ciò che concerne la situazione in Myanmar. Nel 2011 l’aggressione pianificata alla Siria interruppe lo sviluppo dell’interconnessione (anche in termini di gasdotti ed oleodotti) tra i Paesi della cosiddetta “Mezzaluna fertile” (Iran, Iraq, Siria e Libano). La destabilizzazione ed il sabotaggio delle infrastrutture sino-birmane (tra le quali spicca un oleodotto di oltre 800 km che dal Golfo del Bengala arriva fino in Cina) complicherebbe non poco i progetti cinesi rivolti a diversificare i flussi di approvvigionamento energetico per ridurre la dipendenza dal passaggio nello Stretto di Malacca. Da lì, infatti, transita attualmente l’80% del greggio destinato alla Cina, per cui, nell’eventualità di uno scontro militare, la sua chiusura metterebbe in grave difficoltà Pechino.

Questo è il motivo per cui la Cina ha più volte affermato di voler promuovere la riconciliazione tra le forze politiche civili e le forze militari in Myanmar. La stabilità del Paese dell’Asia meridionale è nel pieno interesse di Pechino. La sua distruzione è nel pieno interesse dell’“Occidente”.


NOTE

[1]The Arab Spring: ‘a virus that will attack Moscow and Beijing’, www.theatlantic.com.

[2]L’articolo 417 della Costituzione del 2008 prevede la possibilità di dichiarare lo “stato di emergenza” per un periodo di un anno (previo coordinamento tra Ufficio della presidenza e Consiglio di difesa e sicurezza nazionali) qualora si verifichino condizioni capaci di minacciare l’integrità dell’Unione, la solidarietà nazionale o la piena sovranità della stessa. La Costituzione del Myanmar è consultabile sul sito www.constituteproject.org.

[3]Non bisogna dimenticare che i principali fornitori di tecnologia militare al Myanmar sono proprio Cina, Russia ed India. Si veda Myanmar junta holds military parade with Russian attendance, www.asia.nikkei.com.

[4]Israele (che rientra nel novero dei principali fornitori di attrezzature militari del Myanmar) ha dichiarato di non aver più alcun collegamento con la persona di Ari Ben Menashe.

[5]Si veda West utterly manipulates Myanmar situation as a tool in anti-China campaign, www.globaltimes.cn.

[6]Si veda Myanmar regime seizes bank accounts of Soros Open Society Foundation, www.irrawaddy.com.

[7]Wang Yi meets with Myanmar’s Commander in Chief of defense services Min Aung Hlaing, www.fmrc.gov.cn.

[8]Il National Endowment for Democracy è ben noto anche per il suo sostegno al separatismo uiguro nella Regione Autonoma cinese dello Xinjiang. Questo, a partire dai primi anni ‘2000, oltre ad aver sostenuto la nascita dell’Uyghur Human Rights Project con l’aiuto di diversi “dissidenti” espatriati negli Stati Uniti, ha garantito un sostegno finanziario di 8.758.300$ a diversi gruppi uiguri che si oppongono al governo centrale di Pechino. Si veda Uyghur human rights policy act builds on work of NED grantees, www.ned.org.

[9]Si veda GT investigates: western forces, HK secessionists behind China rumors in Myanmar, www.globaltimes.cn.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).