Non siamo Afghani, non Tartari o Turchi,
nati siamo d’un giardino, d’un solo ramo germogli.
Distinguere colori e profumi è colpa grave per noi,
perché noi tutti, unica e sola allevò la Primavera”.

(M. Iqbal, quartina XX, Messaggi d’Oriente)

 

L’idea di due distinte Nazioni nel Subcontinente indiano non ha accompagnato l’intero percorso politico di Muhammad Ali Jinnah. Solo a partire dalla metà degli anni ’30 del XX secolo, di fronte ai timori che il nazionalismo indiano si stesse rapidamente trasformando in un nazionalismo indù (l’adozione del Vande Mataram come inno del Congresso preoccupò non poco Jinnah che lo considerava un canto “idolatra” e fondato sull’“odio nei confronti dei musulmani”)[1], quest’idea assunse un ruolo guida nel pensiero del Padre fondatore del Pakistan. E lo stesso Jinnah era fermamente convinto che questa idea non fosse affatto nuova. Questa, infatti, non era un prodotto della modernità, ma era nata nel momento stesso in cui il primo indù, anche per sfuggire al rigido sistema castale, si era convertito all’Islam.

L’idea che la teoria delle due Nazioni abbia avuto un’origine premoderna, sebbene non articolata in riferimento al concetto moderno di Stato-nazione, non è priva di fondamento. Alla vigilia della seconda battaglia di Tarain, il Sultano dei Ghuridi[2] Mu’izz al-Din suggerì al suo rivale, il sovrano indù Prithiviraj dei Chahamana, una sorta di partizione ante litteram attraverso una divisione dell’Indostan che a grandi linee anticipava le idee proposte da Muhammad Iqbal nel discorso di Allahabad del 1930. Ai musulmani, infatti, secondo quanto riportato dallo storico persiano Firishta (1560-1620), sarebbero spettati l’area di Sirhind, il Punjab ed il Multan, mentre agli indù il resto dello spazio subcontinentale.

L’idea che indù e musulmani rappresentassero inevitabilmente due comunità distinte e dalla difficile coabitazione si ripresentò anche in epoca Moghul.

La dinastia di origine turco-mongola, pur formalmente aderente alla corrente sunnita (di rito giuridico hanafita) dell’Islam, aveva un rapporto piuttosto complesso (ed a fasi alternate) con la religione. Questa, infatti, veniva concepita principalmente come strumento di potere politico-militare. Babur (1483-1530), capostipite della casata imperiale, ad esempio, riscoprì il fervore religioso solo quando si accinse a muovere guerra ai bellicosi Rajput di Rana Sanga: guerrieri indù noti per la pratica di uccidere le loro stesse donne e i loro figli nell’imminenza di una sconfitta per evitare che venissero resi schiavi dai vincitori. Così, all’approssimarsi della battaglia di Khanua (1527), Babur dichiarò solennemente ai suoi uomini:

“Nobili e soldati! Chiunque partecipi al festino della vita deve, prima della fine, abbeverarsi al calice della morte. È molto meglio, quindi, morire con onore che vivere nell’infamia. L’Altissimo ci è stato propizio. Ora ci ha posto nella situazione per cui se cadremo in battaglia, moriremo da martiri; se sopravviveremo, saremo i vittoriosi vendicatori della sua Santa Causa. Giuriamo quindi di comune accordo sulla Santa Parola di Dio [il Corano] che nessuno di noi penserà neppure per un attimo di voltare le spalle a questa guerra; o di ritirarsi dalla battaglia e dal massacro che seguirà fino a quando la sua anima non sarà separata dal suo corpo”[3].

Sempre in epoca Moghul, sebbene sotto il governo di Akbar (nipote di Babur), l’idea dell’incompatibilità tra indù e musulmani trovò nuova fortuna con la predicazione di Ahmad al-Faruqi al-Sirhindi (1564-1624). Membro della confraternita Naqshabandi, Sirhindi non solo teorizzava l’interdipendenza tra pratiche sufi e Shari’a, ma, nonostante le critiche degli ambienti ortodossi, sosteneva la superiorità della Realtà del Corano (haqiqat-i quran) e della Realtà della Ka’ba sulla Realtà del Profeta (haqiqat-i Muhammadi); tale dottrina influirà in modo determinante sullo sviluppo delle teorie di esegesi e metodologia coranica del filosofo pakistano Fazlur Rahman Malik (1919-1988). Rinvigorendo la costante tensione della storia islamica tra conservazione e innovazione, Sirhindi si fece portavoce di una feroce battaglia per la riscoperta della purezza originaria dell’Islam di fronte al tentativo imperiale di costruire una forma religiosa sincretica, tentativo inteso ad appianare le divergenze all’interno dell’Impero. Questo episodio merita un breve approfondimento.

La vicenda storica dell’Imperatore Moghul Akbar è alquanto complessa. Nonostante fosse riuscito ad appagare le sue ambizioni di conquista ponendo sotto il proprio potere l’Indostan, Akbar dimostrò sempre una tendenza alla malinconia (forse determinata dalle frequenti crisi epilettiche) che traspare dall’iscrizione da lui dettata per il maestoso portale della Jama Masjid (la Moschea del Venerdì, da lui fatta costruire a Fatehpur Sikri, dopo la conquista del Gujarat): “Il mondo è un ponte: passaci sopra, ma non costruirci una casa […] Il mondo dura soltanto un’ora: trascorrila in preghiera”[4].

Sempre a Fatehpur Sikri, nel 1575, l’Imperatore volle istituire un centro d’indagine filosofico-religiosa, noto come Ibadhat Khana, il cui obiettivo iniziale era quello di superare le divergenze tra le varie correnti dell’Islam per riportare la religione alla sua originaria forza e purezza. Tuttavia, soprattutto dopo che Akbar aprì le porte del centro e la partecipazione al dibattito anche ad esponenti di altre fedi (ebrei, cristiani, zoroastriani, indù e così via), il suo sentimento di appartenenza all’Islam (sebbene mai rinnegato del tutto) andò lentamente affievolendosi. Il 1578, in particolare, fu l’anno della svolta (forse dovuta ad una crisi epilettica più pesante del solito nel corso di una battuta di caccia): da sovrano musulmano ortodosso si trasformò in riformatore radicale.

Siccome nel pensiero di Akbar si ritrova l’idea che il rito eseguito meccanicamente e privo di consapevolezza interiore renda inutile l’adorazione di Dio, il sovrano era estremamente interessato ed affascinato dal sufismo. Tale interesse però lo spinse a chiamare presso di sé non solo maestri della corrente esoterica dell’Islam come Shaikh Tajuddin (che identificava la dottrina sufica dell’unità dell’essere col monismo della metafisica indù), ma anche samana (asceti buddisti e giainisti), yogi, bramini e sapienti zoroastriani. Di fatto, a partire dal 1580, sotto l’influenza dello zoroastriano Dastur Mahyragi Rana, Akbar adottò anche in pubblico riti dell’antica religione iranica. Ma lo scontro con le autorità ortodosse dell’Islam iniziò già nel 1579, quando, in occasione dell’anniversario della nascita del Profeta Muhammad (che in quell’anno cadeva il 26 giugno), lesse per la prima volta e concluse la khutba (il sermone del venerdì) nella Jama Masjid pronunciando le parole “Allahu Akbar”.

Questa espressione è abbastanza famosa e comune nell’Islam. Tuttavia, scatenò l’ira degli ulama ortodossi che la interpretarono non con il tradizionale significato “Dio è più grande”, ma con la volontà del sovrano di affermare la sua stessa divinità, visto che essa si sarebbe potuta prestare anche ad un più che blasfemo “Akbar è Dio”.

A pochi mesi di distanza dall’accaduto, Akbar ottenne da alcuni dotti religiosi di corte un documento che lo dichiarava Sultan-i adil (governante giusto). Tale documento, impostato sul dettato coranico “obbedite a Dio, obbedite al Profeta ed a coloro di voi che detengono l’autorità”, gli consentiva, tra le altre cose, di fungere da arbitro nelle questioni religiose e di emanare un decreto vincolante (purché conforme al Corano) per il bene dell’Impero in caso di opinioni contrastanti tra i dotti.

Akbar utilizzò questo schema per promulgare nel 1582 la propria religione sincretica, il Din Ilahi, in aperto contrasto con l’ortodossia islamica che egli, come ritenuto dal già citato storico Firishta, considerava come un ostacolo alle sue idee. Questa nuova religione si presentava come un credo sincretico, il cui obiettivo era quello di trovare un punto di convergenza tra tutte le fedi, affinché tutti potessero approvarlo pur rimanendo fedeli al loro credo. Era una religione “regicentrica”, che sotto certi aspetti può richiamare l’esperimento monoteistico solare del Faraone egiziano Akhenaton ed i cui connotati erano principalmente sociopolitici. L’idea di fondo propugnata da Akbar era che la venerazione del sovrano fa parte della stessa venerazione di Dio; e che la venerazione di Dio, per il sovrano, non fosse altro che la pratica dell’amministrazione secondo giustizia.

Oltre alla natura piuttosto confusionaria della dottrina, l’esperimento di Akbar fallì non solo per il carattere elitario (pseudoiniziatico) che il sovrano volle dare alla sua “religione”, ma anche per l’ostilità dei sapienti musulmani ortodossi e per la renitenza delle rispettive comunità maggioritarie dell’Impero ad amalgamarsi le une con le altre. Di fatto, nonostante gli sforzi di Akbar, le “due Nazioni” del Subcontinente si erano già ampiamente consolidate.

Un altro anticipatore dell’idea delle “due Nazioni” è Sayyed Ahmad Barelvi (1786-1832), che cercò di convincere i Pashtun ad abbandonare definitivamente il loro peculiare diritto consuetudinario e di costruire uno “Stato islamico” attraverso il gihad offensivo contro il Regno Sikh di Ranjit Singh. Prima di lui, un altro esponente musulmano che merita una certa attenzione fu indubbiamente Shah Waliullah (1703-1762), l’ispiratore del Movimento Deobandi che nel corso del XVIII secolo invitò il fondatore dell’Impero Durrani nell’attuale Afghanistan, Ahmad Shah Abdali (1722-1772)[5], ad intervenire nel Subcontinente per difendere i musulmani dalle persecuzioni induiste.

Tuttavia, colui al quale generalmente viene attribuita la prima formulazione dell’idea di due Nazioni distinte nel Subcontinente indiano è Sayyed Ahmad Khan: il fondatore dell’Anglo-Oriental Muhammadan College di Aligarh, attraverso il quale si proponeva di istruire una nuova classe dirigente musulmana “occidentalizzata” (non sorprende che il suo pensiero sia stato preso come punto di riferimento ideologico durante il disastroso regime di Pervez Musharraf). Il suo nome, ad ogni modo, merita particolare attenzione perché fu proprio a partire dalle sue riflessioni che la teoria delle “due Nazioni” assunse caratteri propriamente moderni e strutturati anche come risposta anticipata al successivo sviluppo delle idee sul “nazionalismo composito”, la cui origine è dovuta in primo luogo al pensiero di Bipin Chandra Pal (1858-1932)[6] nel primo decennio del XX secolo. Così Ahmad Khan dichiarò in un discorso del 1883 tenuto a Patna nell’attuale India: “Amici, in India vivono due importanti Nazioni che si distinguono attraverso i nomi di indù e musulmani. Come il corpo umano possiede alcuni organi principali, nello stesso modo queste due Nazioni rappresentano i due arti principali dell’India”[7].

Preso atto della paternità dell’idea, è bene sottolineare che la storiografia pakistana ha indagato a fondo su chi sia stato il primo in ordine di tempo ad articolare in senso compiuto nel XX secolo il progetto di costruzione di due Nazioni distinte nell’India britannica. Lo storico Sheikh Muhammad Ikram, ad esempio, riferisce che la seguente dichiarazione del giudice Abdur Rahim al Congresso della Lega Musulmana ad Aligarh nel 1925 produsse non poco sgomento: “Gli indù ed i musulmani non sono due sette differenti come i cattolici ed i protestanti in Inghilterra, ma formano due distinte comunità di persone, e così si considerano loro stessi. Le loro rispettive attitudini nei confronti della vita, le loro culture, abitudini sociali e civiltà distinte, la loro storia e le loro tradizioni, non meno della religione, li dividono in modo così completo che l’aver vissuto per circa mille anni nel medesimo Paese non ha contribuito in alcun modo a fonderli in un’unica Nazione […] Chiunque di noi Indiani musulmani, viaggiando ad esempio in Afghanistan, in Persia o nell’Asia centrale, tra i musulmani della Cina, tra gli Arabi o i Turchi, si potrà sentire comunque a casa, ritrovando costumi ai quali è già abituato. Al contrario, in India ci ritroviamo completamente alieni in tutte le questioni sociali non appena attraversiamo la strada ed entriamo in quella parte della città dove vivono i nostri concittadini indù”[8].

Tuttavia l’esposizione filosofica e politica della teoria delle “due Nazioni” viene generalmente attribuita a Muhammad Iqbal e Muhammad Ali Jinnah. Il primo, infatti, nel già citato discorso di Allahabad promosse l’idea di una forma di “autogoverno all’interno dell’Impero britannico” (o senza di esso) per i musulmani del Subcontinente. Secondo il poeta e pensatore (che pure riconosceva come i Britannici stessero sfruttando per ragioni geopolitiche le divisioni tra indù e musulmani)[9] la creazione di uno “Stato islamico” era nel migliore interesse tanto dell’India quanto dello stesso Islam. Essa, infatti, avrebbe rappresentato una fondamentale forza di sicurezza, pace e bilanciamento dei poteri all’interno di un Subcontinente la cui unità andava ricostruita non nella negazione delle differenze, ma nella mutua armonia e cooperazione[10]. Questa posizione venne riassunta anche dalla dichiarazione rilasciata da Iqbal in risposta alle accuse di Jawaharlal Nehru dopo il fallimento del ciclo di tavole rotonde tenute a Londra nei primi anni Trenta sulle riforme da adottare in India. Eccone un estratto: “In conclusione, voglio porre una domanda diretta a Pandit Jawaharlal: come si può risolvere il problema indiano se la comunità di maggioranza non concederà né il minimo di tutela necessaria per la protezione di una minoranza di 80 milioni di persone né accettando l’esistenza di un terzo partito ma continuando a parlare di un nazionalismo che funziona solo a proprio vantaggio? Questa posizione può ammettere solo due alternative. O la maggioranza indiana deve accettare per se stessa il ruolo di perenne agente dell’imperialismo britannico in Oriente, o il Paese deve essere ridistribuito sulla base di affinità storiche, religiose e culturali”[11].

Una vaga accusa di rappresentare un agente dell’imperialismo britannico, ad onor del vero, venne mossa anche a Muhammad Ali Jinnah, proprio per il suo sostegno alla causa della partizione. Nel 1943 tale accusa indusse un attivista che si presupponeva associato al movimento dei Khaksar (dal forte carattere social-rivoluzionario)[12] ad attentare alla vita della guida politica musulmana. Jinnah, tuttavia, continuò imperterrito a sostenere l’idea che, al contrario, fosse proprio la falsa rappresentazione di un’India unita a mantenere i Britannici sul suolo del Subcontinente.

Come si è già anticipato, il Qaid-e Azam abbracciò in ritardo la causa della “due Nazioni”. Brillante avvocato prestato alla politica, Jinnah concluse il suo percorso di studi a Londra, dove divenne socio della Honorable Society of Lincoln’s Inn (una delle corporazioni professionali per giudici e avvocati più prestigiosa al mondo) sulla cui entrata principale il Profeta Muhammad veniva annoverato tra i grandi statisti e legislatori dell’umanità. Proprio a Londra, Jinnah divenne assistente del politico liberale (e massone) Dadabhai Naoroji[13], il primo asiatico (di fede zoroastriana) a divenire membro del Parlamento britannico; da lui Jinnah ereditò la devozione quasi testarda per i metodi costituzionali e l’idea dell’emancipazione (soprattutto dei giovani) attraverso l’educazione. Questa insistenza sui metodi costituzionali (anche nel momento in cui egli si rese conto che non vi fosse altra soluzione che la partizione) era legata soprattutto al fatto che, come effettivamente avvenne, una fine repentina del dominio britannico avrebbe inevitabilmente condotto alla violenza settaria.

Se, come affermato in precedenza, Jinnah optò per la teoria delle “due Nazioni” già a partire dal 1937 ed a seguito delle crescenti tensioni tra Congresso e Lega Musulmana, è altrettanto vero che la sua idea venne apertamente presentata solo nel discorso che tenne a Lahore il 22 marzo 1940:

“È estremamente difficile apprezzare il fatto che i nostri amici indù non riescano a comprendere la natura stessa dell’Islam e dell’Induismo. Queste non sono religioni nel senso concreto del termine, infatti, sono ordini sociali differenti e distinti, ed è un sogno pensare che indù e musulmani possano sviluppare un comune senso di nazionalità, e questa incomprensione della Nazione indiana ha dei problemi e porterà l’India stessa al fallimento se non ricostruiamo in tempo tale nozione. Indù e musulmani appartengono a due filosofie religiose differenti, a differenti letterature e costumi sociali. Non si sposano tra di loro ed appartengono a due differenti civiltà che sono basate su concetti ed idee in conflitto. La loro idea della vita e sulla vita è differente. È abbastanza chiaro che indù e musulmani derivano la loro ispirazione da fonti storiche differenti. Hanno un’epica differente, eroi differenti ed eventi differenti. Spesso un eroe dell’uno è un nemico per l’altro e le loro vittorie e sconfitte si sovrappongono. Costringere insieme in un unico Stato queste due Nazioni, l’una maggioritaria e l’altra minoritaria, genererà malcontento e porterà alla distruzione finale di qualsiasi costituzione governativa pensata per un simile Stato”[14].

Una simile dichiarazione venne fatta qualche anno prima anche da Choudhry Rahmat Ali (esattamente nel 1933 ed al termine delle tavole rotonde londinesi) all’interno di un pamphlet che ottenne una certa fama con il titolo di Pakistan declaration. Così scrive Rahmat Ali: “Le nostre religioni e culture, le nostre storie e tradizioni, i nostri codici sociali e sistemi economici, le nostre leggi sull’eredità, sulla successione e sul matrimonio sono fondamentalmente differenti rispetto a quelle delle persone che vivono nel resto dell’India. Le idee che muovono la nostra gente a compiere i sacrifici più alti sono essenzialmente differenti rispetto a quelle che ispirano gli indù a fare altrettanto. Queste differenze non sono confinate ai principi di base. Si estendono sui dettagli più minuziosi delle nostre vite. Non ceniamo insieme. Non ci sposiamo tra di noi. I nostri costumi nazionali ed i nostri calendari sono differenti come la nostra alimentazione ed i nostri vestiti”[15].

Durante un incontro del 1934 tra Jinnah e lo stesso Rahmat Ali, il primo suggerì al secondo di mantenere una certa prudenza. Tuttavia, lo zelo missionario portò il fondatore del Movimento Nazionale Pakistano ad avvicinarsi alle tesi del nazionalsocialismo e ad entrare in contrasto con lo stesso Jinnah; ciò avvenne quando quest’ultimo accettò una soluzione territoriale che riduceva lo spazio geografico del futuro Pakistan rispetto al progetto ideale di Rahmat Ali, fondato sull’idea di liberare i musulmani del Subcontinente dalla “barbarie dell’indianismo”[16].

La teoria delle “due Nazioni” ottenne sostegno anche in ambiti prettamente religiosi. La visione di Jinnah, come noto, era quella di uno Stato ispirato ai principi dell’Islam, sebbene egli stesso rifiutasse sempre ogni caratterizzazione religiosa del suo ruolo. A chi gli volle attribuire il titolo di “Maulana”, ad esempio, si oppose sempre con forza, dichiarando di essere un politico e non un religioso[17]. Ad ogni modo, così dichiarò nel corso di una intervista ad una radio nordamericana:

“Il Pakistan è il primo Stato islamico […] La Costituzione del Pakistan deve ancora essere discussa dall’Assemblea Costituente. Non so quale sarà la forma finale di tale Costituzione, ma sono sicuro sarà un modello democratico capace di incorporare i principi essenziali dell’Islam. Oggi, questi sono ancora applicabili all’attualità come lo erano 1300 anni fa. L’Islam e l’idealismo ci hanno insegnato la democrazia. L’Islam ci ha insegnato l’uguaglianza tra gli uomini e la giustizia”[18].

Il richiamo alla giustizia ed all’uguaglianza tra gli uomini compaiono anche in alcune dichiarazioni di natura più prettamente economica. Ad esempio:

“Il sistema economico dell’Occidente ha creato problemi insolubili per l’umanità […] Ha fallito nel creare giustizia tra gli uomini e nell’eliminare le diatribe in ambito internazionale […] L’adozione di una teoria economica occidentale non ci aiuterà nel raggiungere l’obiettivo di creare un popolo autosufficiente e felice […] Dobbiamo costruire il nostro destino a nostro modo e presentare al mondo un sistema economico basato sul concetto islamico di uguaglianza”[19].

Sulla base di queste attestazioni molti esponenti del sufismo Barelvi si schierarono in favore della partizione. Al contrario, Maulana Abul A’la Maududi sosteneva che l’idea di partizione e di chiusura dell’Islam all’interno di uno Stato moderno fosse sostanzialmente non islamica (contraria al concetto tradizionale di Umma). Tuttavia, il suo Jama’at-e-Islami, nonostante un rapporto non facile con le istituzioni pakistane dopo la partizione, trovò nel militarismo islamista di Zia ul-Haq l’alleato ideale per sviluppare un progetto di islamizzazione forzata dall’alto, altrettanto contrario ai principi coranici.

Tra i gruppi che sostennero in modo più attivo il processo di separazione in due Stati vi fu indubbiamente la Ahmadiyya Muslim Jama’at. Si trattava di un movimento di ispirazione messianica, la cui prima guida (Mirza Ghulam Ahmad, 1835-1908) si era dichiarata l’atteso Mahdi, invocando il ritorno alla purezza originaria dell’Islam. Durante la prima guerra indo-pakistana del 1947-48 questo movimento creò l’organizzazione paramilitare nota con il nome Forze del Furqan, che combatté nel Kashmir[20].

Naturalmente, anche in ambito indù vi furono pensatori ed intellettuali che fecero propria o contrastarono la teoria delle “due Nazioni”. Basterà citare Indira Ghandi, la quale, nel momento in cui il Pakistan orientale divenne indipendente con il nome di Bangladesh a seguito della guerra del 1971[21], dichiarò il fallimento della teoria delle “due Nazioni”. Tuttavia, come ha avuto modo di far notare l’analista ed ex militare pakistano Masud Ahmad Khan, il Bangladesh non è affatto uno Stato laico, è uno Stato musulmano. E la stessa recente affermazione del nazionalismo esclusivista indù del Bharatiya Janata Party, ispirato dal pensiero di Vinayak Damodar Savarkar (1883-1966), costituisce la più evidente dimostrazione che la teoria delle “due Nazioni” distinte nel Subcontinente indiano è più viva che mai[22].


NOTE

[1]    Il Vande Mataram racconta la storia di una società segreta indù che nel XVIII secolo cercò di rovesciare il governo islamico nel Bengala.

[2]    Dinastia persiana che si convertì all’Islam dal Buddismo e che sconfisse la dinastia turca persianizzata dei Ghaznavidi nel 1186 conquistando la loro capitale Lahore, nell’attuale Pakistan.

[3]    A. Eraly, Il trono dei Moghul. La saga dei grandi imperatori dell’India, Il Saggiatore (2000), p. 43.

[4]    Il trono dei Moghul, ivi cit., p. 188.

[5]    Discendente dalle tribù Pashtun Sadozai e Alokozai, Ahmad Shah Abdali è l’eroe nazionale dell’Afghanistan e viene considerato alla stregua di Padre moderno della Nazione.

[6]    Uno dei maggiori architetti del Movimento Swadeshi (insieme a Sri Aurobindo) che si opponeva alla partizione del Bengala decisa dal governo britannico dell’India nel 1903. Chandra Pal era anche membro del “trumvirato” nazionalista Lal-Bal-Pal (gli altri due membri erano Lala Lajpat Raj e Bal Ganghadar Tilak) che guidò la lotta anti-coloniale indiana nei primi anni del XX secolo.

[7]    R. Guha, Makers of modern India, Harvard University Press (2011), p. 65.

[8]    S. M. Khan, Indian muslims and partition of India, Atlantic Publisher & Dist (1995), p. 308.

[9]    Di questa idea è anche lo storico David Hardiman che è avanzato la teoria secondo la quale non vi fosse particolare ostilità tra musulmani ed indù quando i Britannici arrivarono nel Subcontinente. Furono proprio loro ad attuare la ben nota pratica imperialista del divide et impera per mantenere il controllo coloniale della regione. Si veda D. Hardiman, Gandhi in his time and ours: the global legacy of his idea, Columbia University Press (2003), p. 22.

[10]  Si veda I. S. Sevea, The political philosophy of Muhammad Iqbal. Islam and nationalism in late colonial India, Cambridge University Press (2012), p. 14.

[11]  Contenuto in Iqbal and the Pakistan Movement, www.allamaiqbal.com.

[12]  Il movimento, dal rigido carattere militarista, venne fondato nel 1931 da Allama Mashriqi (matematico e teorico politico) e si proponeva di liberare l’India dai Britannici attraverso la lotta armata e la costruzione di uno Stato indù-musulmano.

[13]  Naoroji è considerato anche come il mentore dell’attivista politico e intellettuale Bal Ganghadar Tilak (già citato quale membro del triumvirato Lal-Bal-Pal e autore della celebre opera La dimora artica nei Veda) e dell’importante politico indiano Gopal Krishna Gokhale fondatore della Società Servitori dell’India.

[14]  Jinnah. Creator of Pakistan, Oxford University Press (1953), p. 140.

[15]  T. Kamran, Choudhry Rahmat Ali and his political imagination: Pak Plan and the continent of Dinia, contenuto in A. Usmani – M. Eaton Robb (a cura di), Muslims against the Muslim League, Cambridge University Press (2017), p. 92.

[16]  K. K. Aziz, Rahmat Ali: a biography, Steiner Verlag Wiesbaden (1987), p. 123. Rahmat Ali coniò il termine “indianismo” per definire una forza che ha dominato tutti i Paesi del Subcontinente ed ostacolato gli sforzi dei loro popoli per migliorare la propria condizione. Tale forza, inoltre, veniva considerata in termini distruttivi; come un qualcosa che aveva condotto alla schiavitù almeno la metà della popolazione del Subcontinente. Per questo motivo, Rahmat Ali si opponeva con forza alla creazione di una Federazione Indiana sotto l’egida del Congresso.

[17]  Hector Bolitho racconta, a questo proposito, di una particolare ammirazione di Jinnah per l’esperimento nazionalista, laico e riformista di Mustafa Kemal in Turchia di cui comunque ne criticava gli slanci libertini. Al contempo, è curioso notare come Muhammad Iqbal non apprezzasse affatto il Padre della Repubblica turca.

[18]  Contenuto in M. A. Z. Qureshi, Decolonization and Nation-Building in Pakistan. Islam or Secularism?, IDSS Research Paper 2011.

[19]  Jinnah. Creator of Pakistan, ivi cit., p. 177.

[20]  S. Ross, Islam and the Ahmadiyya Jama’at. History, belief, practice, Columbia University Press (2003), p. 204.

[21]  Una delle preoccupazioni principali che affliggeva Jinnah nel momento della partizione era proprio l’assenza di una comunicazione diretta (nessun corridoio terrestre) tra le due parti del Pakistan.

[22]  Si veda M. S. Khan, Jinnah’s two Nation theory, www.nation.com.pk.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).