Il 14 febbraio 1945, a bordo dell’incrociatore USS Quincy, il Presdidente statunitense Franklin D. Roosevelt e Re Abd al-Aziz Ibn Saud siglarono un patto articolato in quattro punti:

  • la stabilità dell’Arabia Saudita è e sarà un interesse vitale per gli Stati Uniti;
  • l’Arabia Saudita godrà di un ruolo egemone nella regione;
  • si favorirà lo sviluppo di un partenariato economico-commerciale tra i due Paesi;
  • l’Arabia Saudita provvederà a garantire l’approvvigionamento energetico nordamericano[1].

Da quel momento in poi la difesa del Regno mediorientale è stata di fatto commissionata agli Stati Uniti. I due Paesi, in virtù di tale accordo e del ruolo geopolitico riservato alla monarchia wahhabita, superarono facilmente anche la crisi petrolifera del 1973, messa in atto con colpevole ritardo e visibile riluttanza da Re Faysal[2] a seguito del conflitto arabo-israeliano.

Senza andare troppo lontano negli anni, gli stessi sauditi finanziarono totalmente l’Operazione Desert Storm, con la quale una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti effettuò la prima aggressione all’Iraq dopo che questo aveva occupato il Kuwait come “contropartita” per gli sforzi (malripagati dalle “monarchie del Golfo”) sostenuti nella guerra contro la Repubblica Islamica dell’Iran.

I rapporti tra Arabia Saudita e Stati Uniti si sono ulteriormente intensificati in tempi recenti. Già sotto l’amministrazione Obama, i due Paesi si erano accordati per la fornitura in armi e sistemi di difesa per oltre 115 miliardi di dollari. A dimostrazione della sostanziale continuità tra l’amministrazione precedente e quella attuale, Donald J. Trump ha siglato con Riad un accordo per la vendita di armi del valore di 350 miliardi di dollari nei prossimi 10 anni. A ciò si aggiunga il mai interrotto (nonostante le ripetute mozioni del Congresso) sostegno logistico nordamericano alla brutale aggressione saudita allo Yemen

Allo stesso tempo, tuttavia, quella che sembrava essere un’alleanza più che solida ha iniziato a mostrare anche delle sostanziali ambiguità. Nello specifico, gli Stati Uniti, dal momento in cui sono riusciti a garantirsi una seppur effimera indipendenza energetica grazie al sistema della fratturazione idraulica, sembrano più interessati alla mera esportazione dei prodotti del proprio comparto bellico-industriale che alla stabilità ed integrità del Regno, teoricamente garantita dall’accordo del 1945.

A dimostrazione di ciò basterà osservare l’esito dell’attacco portato al cuore della produzione petrolifera saudita da parte dei ribelli yemeniti di Ansarullah.

Già da tempo Washington, Riad e Tel Aviv stanno cercando di dimostrare il sostegno iraniano alla resistenza yemenita. Non ci si può dimenticare della sceneggiata dell’ex ambasciatrice statunitense presso l’ONU Nikki Haley, quando presentò un rottame ferroso come “prova inconfutabile” della fornitura iraniana di missili balistici ai cosiddetti “Houthi”. Tuttavia, a tal proposito, è bene ricordare che, pur utilizzando tecnologia iraniana, i droni ed i missili utilizzati dalla resistenza yemenita vengono assemblati e fabbricati nello stesso Yemen, un Paese sottoposto ad embargo che, di conseguenza, non può in alcun modo importare armamenti. D’altronde lo stesso ayatollah Ali Khamenei dichiarò espressamente che sarebbe stato ben lieto di aiutare direttamente lo Yemen contro l’aggressione saudita, ma che ciò era impossibile a causa dall’assedio cui il Paese è sottoposto ormai da anni.

Preso atto della sostanziale inconsistenza delle prove volte a dimostrare il diretto coinvolgimento iraniano nell’attacco, si rende necessario sottolineare alcuni aspetti sfuggiti a larga parte degli analisti: 1) il fatto che (forse volutamente) gli Stati Uniti abbiano sottovalutato la tecnologia in possesso alla resistenza yemenita; 2) il fatto che, al momento, non vi sia alcuna indicazione sull’attivazione della difesa antiaerea o che questa abbia cercato di abbattere i droni utilizzati per l’attacco; 3) il fatto che i radar non siano stati in grado neanche di individuare da dove sia provenuto il suddetto attacco[3].

Appare quanto meno curioso che la tecnologia avanzata acquisita dai sauditi e le basi nordamericane nella regione non siano riuscite ad individuare la minaccia oltre che a fermarla.

Dunque, si impongono due considerazioni divergenti ma non necessariamente antitetiche: o i sistemi di difesa aerei forniti al Regno sono totalmente inefficaci (ipotesi da non sottovalutare); o vi è la precisa volontà a determinare l’incidente che possa scatenare un conflitto di vaste proporzioni nella regione facendone ricadere la colpa direttamente sull’Iran. E non sorprende che tale incidente si sia verificato nel momento in cui il “falco” sionista John Bolton è stato sostituito nel ruolo di Consigliere nazionale alla sicurezza dal “falco” ultrasionista Charles Kupperman.

Preso atto della propria declinante potenza, gli Stati Uniti, recentemente, hanno cercato di avere la meglio con la strategia nei confronti delle sfide multipolari. Il sistema della minaccia e del terrorismo economico cui fa seguito l’apertura al negoziato da posizioni di vantaggio ha sortito i suoi effetti con l’economicamente fragile Corea del Nord. Ma, allo stesso tempo, ha fallito e sta fallendo con Paesi che ancora controllano le proprie ingenti risorse come Venezuela ed Iran.

La cosiddetta “strategia della massima tensione”, in particolar modo, anche per il sostegno garantito da Russia e Cina, non è riuscita ad oggi a mettere in ginocchio la Repubblica Islamica. Ed in questo particolare caso, gli Stati Uniti, dopo l’abbandono unilaterale dell’accordo sul nucleare, si sono ritrovati nella scomoda posizione di avere solo due opzioni: un nuovo negoziato che ad oggi sembra ancora lontano (soluzione gradita); un conflitto aperto che non possono affatto permettersi e che parte dei vertici politici e militari non desiderano (dunque, soluzione sgradita). Senza considerare che una simile eventualità potrebbe avere degli effetti disastrosi su scala globale. Basti osservare l’effetto che gli attacchi alle infrastrutture petrolifere saudite hanno sortito sul prezzo del carburante.

Ma se conflitto deve essere è preferibile che questo venga “appaltato” a terzi (Israele e Arabia Saudita) garantendogli, al contempo, il pieno sostegno nordamericano. E così si spiegano le recenti esternazioni trumpiste circa l’idea di un trattato di mutua difesa israelo-statunitense[4].

C’è un altro aspetto da considerare. L’azione della resistenza yemenita non ha colpito solo i pozzi petroliferi, ma anche la più grande operazione finanziaria del Regno: la privatizzazione dell’ARAMCO. La quotazione in borsa della compagnia petrolifera nazionale servirebbe alla dinastia Saud per finanziare il progetto VISION 2030 per l’ammodernamento del Paese svincolandolo dalla dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi[5]. Ora, con la minaccia ossessiva del conflitto e la necessità impellente di nuove spese per la difesa, tale progetto sembrerebbe a rischio. Nonostante la retorica ufficiale, esso non è affatto gradito a Washington, che preferirebbe mantenere il Paese mediorientale allo stato di colonia semifeudale. E ciò ben spiegherebbe la cecità dei radar nordamericani al momento dell’attacco.

Ancora una volta Washington, consolidando una prassi ormai frequente sotto l’amministrazione Trump, cerca di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo e sulla pelle di quelli che sulla carta dovrebbero essere i suoi alleati. Infatti sono questi ultimi a dover rendere l’America nuovamente grande, acquistando armamenti per affrontare minacce e crisi che l’America stessa ha prodotto.


NOTE

[1] M. al-Rasheed, Storia dell’Arabia Saudita, Bompiani, Bologna 2004, p. 98.

[2] Ibidem, p. 178.

[3] Quien atacò las refinerìas de Arabia Saudita?, Especializados en conflitos belicos www.topeteglz.org

[4] Trump a Netanyahu, Trattato mutua difesa, www.ansa.it.

[5] Bombe su ARAMCO e sul progetto di modernizzare l’Arabia Saudita, www.euronews.com.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).