La Voce della Russia”, emittente statale russa che trasmette all’estero in varie lingue, ha intervistato il direttore di “Eurasia”, Tiberio Graziani, durante la sua permanenza a Mosca per partecipare al Forum Internazionale “La produzione di droga in Afghanistan: una sfida per la comunità internazionale”.

Una prima parte dell’intervista è stata trasmessa il 17 giugno e può essere riascoltata o letta cliccando qui.

Una seconda parte è stata mandata in onda il 22 giugno. La registrazione integrale può essere ascoltata cliccando qui.

Segue la trascrizione.


Conduttrice: Da Mosca, “La Voce della Russia”.

Continuiamo le trasmissione con una rassegna stampa un po’ speciale a cura di Aleksander Prokhorov. Sul cosiddetto “arco di instabilità” e sui retroscena della crisi in Kirghisia egli ha deciso di sfogliare parecchi giornali e di far seguire ad alcune riflessioni una intervista fatta al dottor Tiberio Graziani, direttore della rivista di geopolitica “Eurasia”, in occasione della sua presenza a Mosca per la Conferenza internazionale sulla droga afghana, come sfida alla comunita’ mondiale.


Aleksandr Prochorov: Diciamo subito che la stampa anglo-americana, compatta ma con sfumature diverse, attacca ovviamente la Russia. Il primato va al New York Post che titola “Cinici e macellai. Chi sta dietro la crisi in Kirghisia”. Dinanzi a tanta grettezza giurassica, dialettico si presenta il The New York Times che sotto un titolo interlocutorio come “La Kirghisia è importante per le potenze mondiali, ma ciò non le sarà d’aiuto” scrive: “In verità la Kirghisia è allo sfascio, quanto meno lo è una sua parte e noi ne siamo responsabili in quanto abbiamo organizzato un tiro alla fune in salsa geopolitica”. Parole queste che ispirate ad un vago desiderio di analisi rappresentano per il suo autore, Alexander Cooley, una autocitazione tratta dal saggio “Manas” da lui dedicato alle basi militari. “Nel tentativo di mantenere queste leve di pressione abbiamo sostenuto il regime al potere destabilizzandone le istituzioni. Noi siamo una parte di questa dinamica”. Su questo solco è di gran lunga più esplicita l’edizione americana indipendente Pacific Free Press che nell’articolo “Estranei in Kirghisia. Gli istigatori stranieri in Kirghisia” sostiene che gli Stati Uniti con l’ausilio dei servizi segreti e di organizzazioni come la Freedom House “si sono dati fare per creare le premesse di una guerra civile, decisa a tavolino”.

“In Kirghisia osserviamo un duplicato democratico-rivoluzionario delle guerre segrete americane in cui la manipolazione delle voci deve portare allo scontro. Lo si vede con particolare evidenza nei conflitti interetnici nel sud del paese ove certe differenzazioni nazionali e culturali vengono amplificate da forze oscure che sparano raffiche da auto in corsa senza targa o da giovanotti e vecchine che gridano o mormorano, le parole giuste nel posto adeguato”.

“E la Russia lo sa bene – prosegue l’edizione americana – lo sa molto meglio di quanto si riesca ad immaginare, in quanto negli ultimi 30 anni è stata anch’essa bersaglio di analoghe organizzazioni nell’ambito di una guerra psicologica non dichiarata. È stata questa guerra a distruggere l’Unione Sovietica e praticamente quasi tutti i paesi sorti sulle sue ceneri con orgoglio e presunzione. Tutta questa attività occulta rappresenta un colpo basso. Ora questi paesi fanno il gioco degli americani e dei britannici benché si possa dubitare della loro fedelta’ a Bush o a Obama…”

“La guerra segreta scatenata in Kirghisia – prosegue la Pacific Free Press – si scontra con l’immagine che di se gli Stati Uniti hanno voluto presentare al mondo. È appunto per questo che la gente normale fa fatica a credere che l’America possa star dietro a piani così abietti, benché non abbia fatto altro negli ultimi trenta anni. Questa la natura de “La grande menzogna”, fondamento della politica interna ed estera degli Stati Uniti, presa a prestito dai nazisti che ne furono gli artefici. Da qui il paradigma ” se le accuse rivolte agli americani sono troppo assurde per essere credute vuol dire che non corrispondono alla realtà”.

In effetti troppo assurde, benché qui abbiamo a che fare non con la teoria delle congiure, ma della cruda e allarmante realtà – dice il dottor Tiberio Graziani.

A suo avviso i tragici avvenimenti in Kirghisia, regione al centro dell’Asia, transito cruciale per la droga afghana, e unico paese al mondo dove coesistono a breve distanza distanza l’una dall’altra una base militare russa e una americana, un paese che avrebbe avuto 2000 morti e un milione di profughi, vanno analizzati non in modo isolato, ma nel piu’ ampio contesto di quei piani americani per creare in Eurasia, centro della scacchiera mondiale, (secondo Brzezinski) un “arco di instabilita’ e una situazione di caos”. Secondo Graziani, l’Eurasia oggi attraversa un particolare momento storico che necessita di una riflessione seria e improcastinabile.


Tiberio Graziani: Questa rivista ha questo titolo particolare, “Eurasia”, perché ci troviamo in un momento storico specifico, in cui una grande potenza geopolitica come quella degli Stati Uniti non soltanto è entrata nella periferia della massa continentale eurasiatica, a partire dal 1945, in Europa e in Giappone ed in parte anche del Sudest asiatico – ma è ormai quasi entrata anche nel cuore del continente.

A parlare di “archi di crisi” è stato Brzezinski, uno degli attuali consiglieri di Obama, in passato braccio destro di Carter, ideatore della “trappola afghana” per l’URSS: nel 1979, cinque o sei mesi prima dell’ingresso delle truppe sovietiche a sostegno del governo afghano, Carter aveva firmato delle direttive segrete (basate su considerazioni di Brzezinski) per operazioni coperte della CIA nel paese. Questo è stato confermato da Brzezinski stesso, alcuni anni fa, in un’intervista con la stampa francese, e a documentarlo ci sono anche un paio di missive di Brzezinski al presidente Carter – una in particolare in cui scrive: “Abbiamo dato il suo Vietnam ai Sovietici”.


AP: Si è trattato di una specie di tentativo di rivincita.


TG: Il tutto rientra in una strategia d’espansione militare che gli Stati Uniti hanno messo in atto dal ’45 in poi. Con la Crisi di Suez del 1956, gli USA entrano a pieno titolo nelle questioni mediterraneo e vicino-orientali. Nuovo impulso questa strategia l’ha ricevuto dal crollo dell’Unione Sovietica, che era uno degli argini che sbarravano la strada verso il cuore della massa continentale eurasiatica. Cuore che hanno infatti raggiunto attraverso i suddetti “archi di crisi”. La penetrazione dell’Asia Centrale mira a condizionare la Russia e, oggi, anche la Cina e l’India. Si tratta dunque d’un attacco che viene portato avanti da lungo tempo dagli USA, nazione bioceanica. Uno degli artefici della politica estera statunitense, Kissinger, ha più volte sottolineato quest’aspetto degli USA, definendoli “una grande isola al largo del continente eurasiatico”. In quest’espressione di Kissinger si può leggere tutta la concezione della geopolitica statunitense: quella di una potenza marittima che ha bisogno di spazi commerciali ed economici, non tanto per governarli quanto per alimentare la propria società capitalista e neoliberista.


AP: Una differenza con l’Unione Sovietica, in cui il centro interveniva parecchio per gestire le periferie.


TG: Esattamente. L’URSS, come anche la nuova Russia di Putin e Medvedev, ha una prospettiva di tipo continentale: tende a governare lo spazio in cui è sovrana o su cui ha influenza (il “vicino estero”). Si cerca un rapporto di condominio positivo, non di creare delle tensioni. Un tipo di geopolitica peculiare dei popoli eurasiatici.

Le entità geopolitiche più durature sono stati gli imperi, abituati ad amministrare popolazioni di diversa cultura, religione ed etnia. La geopolitica continentale mira a governare le terre e le genti su cui è sovrana.

Invece gli USA, che si considerano un’isola, imitano la Gran Bretagna: mantengono il predominio utilizzando i contrasti tra gli altri paesi, destabilizzando il mondo. Ecco perché quella degli USA si può definire “la geopolitica della frammentazione degli spazi” o, meglio ancora, “la geopolitica del caos”.


AP: La loro strategia è di creare un caos controllato.


TG: Sì, gli Stati Uniti cercano di gestire il caos. In termini più diplomatici l’hanno affermato anche alcuni esperti di geostrategia statunitensi, come ad esempio Luttwak. Costui ha parlato spesso di “gestione delle crisi”; ma non al fine di stabilizzare un territorio, bensì in coerenza con gl’interessi statunitensi. E quindi, la crisi si “gestisce” per non superarla, almeno finché lo spazio interessato non sia caduto sotto la sovranità statunitense. Va però detto che agli Stati Uniti non interessa avere sovranità fuori dal loro territorio, perché in quel caso sarebbero chiamati responsabilmente a governarlo ed amministrarlo. Dal 1945, quando sono diventati a tutti gli effetti un attore globale, gli Stati Uniti non hanno mai gestito e amministrato quei paesi in cui sono entrati: li hanno ridotti ad una condizione di paesi vassalli, o nel peggiore dei casi, li hanno considerati dei semplici “spazi geostrategici”, incuranti delle popolazioni locali e dell’impatto del perdurare di tensioni pluriennali (l’abbiamo visto in Vietnam, lo stiamo vedendo oggi in Afghanistan e Iraq). I vecchi limitati “archi di crisi”, che si risolvevano in una frontiera problematica, oggi si sono espansi a dismisura.

Uno dei fenomeni utilizzati in questa strategia di destabilizzazione dell’Asia Centrale è la droga afghana.

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