Il fallimento della controffensiva occidentale (con conseguente scaricamento delle responsabilità tra NATO e Kiev) e la conquista russa di Marinka (fondamentale centro fortificato dell’oblast di Donetsk, utilizzato dalle truppe ucraine per bombardare la stessa Donetsk) impongono una riflessione sull’evoluzione del conflitto in questa “linea di faglia” dell’Europa orientale che non può prescindere dall’approccio clausewitziano alla teoria bellica.

Nei Principi fondamentali della guerra, vero e proprio manifesto direttivo per l’esercito prussiano, la cui rilevanza storica è paragonabile solo al Libretto rosso di Mao Tse Tung per l’esercito popolare cinese, Federico II il Grande (celebrato anche dalla cinematografia nazionalsocialista nella Germania degli anni ’30 e ’40 del secolo scorso) affermava che la politica e l’esercito, fondamento della preservazione della gloria dello Stato, devono sempre operare in modo congiunto per determinare gli obiettivi di una campagna militare. Questo perché, a suo modo di vedere, prima di lanciarsi in un’avventura bellica, è sempre necessario conoscere il terreno di confronto, forza ed alleanze dell’eventuale avversario, in modo da determinarne tempi e mezzi necessari[1].

Inutile ribadire l’influenza esercitata dall’opera di Federico di Prussia sulla stesura, mai terminata, del Vom Kriege di Carl von Clausewitz. Il teorico e militare prussiano, infatti, al pari del sovrano, sottolinea sia il fondamentale nesso tra guerra e politica, sia il fatto che la guerra, sorta di duello ingigantito, si presenta sempre come un atto di violenza volto a ridurre l’avversario al proprio volere. Di conseguenza la forza è il mezzo; mentre la riduzione del nemico alla propria volontà è il fine.

Ciò consente una prima approssimazione al tema di questo contributo: il rapporto tra la dottrina militare russa e la teoria clausewitziana. Lo stesso von Clausewitz afferma che “disarmare il nemico è lo scopo dell’azione bellica[2]: ovvero, portarlo ad una condizione in cui la prosecuzione della belligeranza lo conduca a condizioni sempre più svantaggiose: disarmo totale o minaccia che ciò avvenga in tempi rapidi. Solo nel momento in cui non vi possa più essere una reale modifica dell’equilibrio sul campo di battaglia, la pace può essere giustificabile.

Ora, l’intervento diretto russo all’interno del conflitto civile ucraino aveva come obiettivo primario il “disarmo del nemico”: renderlo incapace di offendere e assoggettarlo al proprio volere. Per fare ciò, gli strateghi russi hanno seguito per filo e per segno quello schema clausewitziano che prevede: 1) conquista di una o più province del territorio nemico; 2) ricerca di un negoziato; 3) la preparazione alla difesa in caso il tentativo negoziale fallisca.

A questo proposito, nei citati Principi fondamentali della guerra, Federico il Grande evidenzia come la guerra sia sempre una concatenazione di azioni offensive e difensive basate su piani differenti. L’azione difensiva, in questo senso, deve essere sempre rivolta al logoramento dell’avversario, all’inibizione della sua volontà di offendere – potrebbero essere emblematiche alcune pratiche messe in atto dai militari russi in Ucraina, come quelle “cervellotiche” trappole esplosive che hanno reso vani, snervanti ed a notevole rischio perdite, i tentativi di bonificare i campi minati – ed alla preparazione del terreno per l’offensiva.

Ancora, Clausewitz, riprendendo il sovrano prussiano, afferma che “volendo abbattere il nemico bisogna commisurare lo sforzo alle sue capacità di resistenza[3]. Cosa che, naturalmente, impone di valutare i mezzi disponibili e la forza di volontà propria e dell’avversario. Questo perché la guerra è dominata da una sorta di trinità: il cieco istinto naturale, che corrisponde alla sua natura popolare; l’attività libera dell’uomo, attinente all’aspetto del comando; il puro intelletto, scopo politico concernente l’attività di governo e la “schmittiana” decisione nello “stato d’emergenza”. La trinità politico-bellica, a sua volta, porta alla luce le quattro parti costitutive che compongono l’atmosfera entro cui si muove la guerra: il pericolo, lo sprezzo fisico, l’incertezza e il caso. E l’intera opera clausewitziana è rivolta all’educazione del decisore in questa precisa atmosfera: o meglio, alla sua autoeducazione, fornendogli solo delle direttive generali ed un patrimonio di idee e concetti operativi (tratti dall’esperienza e vagliati da una critica figlia della dialettica hegeliana) dal quale il suo spirito possa arricchirsi. 

Tale “trinità”, inoltre, dimostra il fatto che la teoria diviene sempre e comunque infinitamente più complessa non appena si giunge al contatto proprio con il campo spirituale. La guerra, infatti, è “un’arte” che si lega ad una “materia viva”, l’uomo. Afferma von Clausewitz: “l’attività bellica non si applica alla pura materia ma anche e sempre alla forza spirituale che anima questa materia [la rende viva] ed è impossibile scindere l’una dall’altra[4].

Un simile approccio è stato riproposto da uno dei padri della geopolitica: Karl Haushofer. Questi, nel tentativo di dare una definizione ad una “scienza antimoderna” (inevitabilmente inesatta) che superasse l’angusto ambito del determinismo geografico (nel quale spesso operano gli autori odierni), dichiarò: “La geopolitica sa perfettamente che vi saranno sempre grandi spiriti che non si accontentano della mediocrità; sa che è necessario che avvengano sempre delle rotture, nuove fecondazioni e nuove formazioni. In ragione dell’arbitrio che caratterizza l’azione politica umana, la geopolitica non potrà fare dichiarazioni precise se non nel 25% dei casi, all’incirca. Non è già un buon risultato se, in un’evoluzione in cui tutto deve essere lasciato all’arbitrio umano ed agli umori delle masse, almeno un quarto dei casi, accessibili alla previsione ed alla ragione attiva, viene previsto dalla geopolitica?[5].

Ciò, di conseguenza, vale anche per lo sforzo bellico, dove c’è sempre una componente d’azzardo dettata dal fatto che, nonostante lo sviluppo enorme degli apparati di spionaggio e/o monitoraggio (rilevazioni satellitari incluse), e la loro efficienza, non si possono mai avere informazioni certe al 100% sulle reali capacità dell’avversario. A questo proposito, ad esempio, non si può escludere che i Russi abbiano inizialmente compiuto valutazioni errate sulla capacità di resistenza ucraina (da considerare che senza il massiccio intervento di sostegno occidentale, Kiev sarebbe comunque crollata dopo alcuni mesi); così come appare evidente l’errore di valutazione dei vertici militari ucraini, forse imbeccati da altrettanto erronee valutazioni della NATO, al momento del lancio della cosiddetta “controffensiva”. Ciò dimostra che, a prescindere dal dato tecnologico, l’elemento predominante nel conflitto rimane il rischio; e le qualità d’animo predominanti in una situazione di rischio sono, tornando a Clausewitz, il coraggio e la risolutezza, da intendersi come atto dell’intelligenza che diventa conscia della necessità del rischio e determina il “trionfo della volontà”. Se la guerra modifica continuamente la sua natura, lo spirito umano deve essere capace di adattarvisi con la stessa rapidità. Lo schmittiano “decisore”, onde evitare di terminare in un vicolo cieco, deve fare in modo che la sua decisione si componga di più atti, affinché il “precedente” possa divenire, in tutte le sue manifestazioni, metro e misura per l’azione successiva. In altri termini, deve essere capace di imparare e comprendere dai propri errori per evolversi e poterli utilizzare contro l’avversario. In questo la Russia (la cui dottrina militare non contiene una modalità univoca di conduzione delle operazioni militari), a differenza del suo avversario diretto odierno, ha sviluppato la capacità di “cucire” le azioni di combattimento a seconda delle necessità specifiche del momento (dote già dimostrata nel corso del secondo conflitto ceceno ed in Georgia nel 2008), sfruttando, oltre alla superiore potenza di fuoco, l’istinto di adattamento più elementi convenzionali ed asimmetrici; fattore indispensabile, questo, se si considera che le forze russe non hanno più quel vantaggio numerico – in termini di capitale umano spendibile nel conflitto – che potevano avere in epoca sovietica. Tale fattore, dopo quasi due anni di guerra convenzionale, è a tutto svantaggio del lato ucraino, il cui bacino (dal quale attingere per sostenere lo sforzo bellico) risulta sempre più ristretto e non sostituibile, nemmeno col massiccio ricorso a forze mercenarie. Nel prossimo futuro ciò porterà o ad un diretto intervento della NATO nel conflitto o, più probabilmente, al progressivo abbandono della “causa ucraina”, con conseguente ricerca di una soluzione negoziale.

Tornando al piano teorico, al pari dell’approccio di Haushofer alla geopolitica, il valore del pensiero di von Clausewitz (e ciò rende ancora attuale la sua opera, nonostante l’evidente evoluzione dei metodi di combattimento) risiede nella rivendicazione del carattere politico e spirituale dell’attività bellica e nella polemica contro i tentativi di sottoporla agli schemi razionalistici dei modelli derivati dalla cosiddetta “età dei lumi”. Cosa nella quale, invece, ha primeggiato un altro teorico militare di spicco del XIX, che servì sia Napoleone sia lo Zar ed è studiato a West Point: il francese Antoine-Henri Jomini, con la sua enfasi sui caratteri “geometrici” (linee strategiche, basi, punti chiave, quadrilateri difensivi) e logistici del conflitto.

Dunque, se la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, idea che portò Engels e Lenin ad apprezzare notevolmente l’opera clausewitziana ed a facilitarne la diffusione nelle scuole militari sovietiche, la politica è l’ambito dell’intelligenza dello Stato considerato “persona politico-spirituale collettiva” (Friedrich Ratzel). E ancora, se la guerra non è mai attività autonoma rispetto alla politica, appare evidente che uno Stato a-politico (ad esempio, l’Italia, dove la politica è ridotta ai minimi termini, alla mera gestione degli affari interni) non può “muovere guerra”, ma semplicemente accodarsi e/o partecipare, sempre in “minimi termini”, allo sforzo bellico altrui.

Questo aspetto impone anche un altro tipo di ragionamento, che differenzia gli approcci “occidentali” al conflitto e quelli più propriamente “orientali”. Nel caso “occidentale”, infatti, a partire almeno dalla Prima Guerra Mondiale (ma lo stesso discorso può valere per la guerra civile nordamericana), siamo di fronte ad un’interpretazione del conflitto in chiave squisitamente economica, in cui il flusso di denaro si sovrappone al flusso di sangue: lo scontro militare, anche se presentato in chiave esistenziale e/o escatologico-messianica (il “bene” contro il “male assoluto”) deve essere sempre valutato in termini di opportunità, costi e bonifici puramente materiali. Ne è un esempio, nel caso dell’attuale conflitto a Gaza, lo sfruttamento delle risorse gassifere del mare adiacente alla Striscia o la trasformazione della stessa Striscia in polo di attrazione turistica, una volta eliminato il “problema palestinese”. Quello “orientale” rimane invece, fin dai tempi di Sun Tzu, un approccio quasi esclusivamente politico: l’azione bellica, se inevitabile, deve produrre in primo luogo vantaggi ed esiti tangibili sul piano politico.

Oggi, qual è il vantaggio politico primario nel caso specifico della Russia? Senza considerare il piano delle relazioni internazionali e la modifica del loro assetto americanocentrico, la risposta è abbastanza semplice: la difesa della sovranità e dell’integrità del territorio nazionale. Le forze armate russe – come riporta anche il più importante centro di studi strategici dell’atlantismo (la Rand Corp) – sono strutturate in primo luogo per difendere il territorio russo[6]. Anche l’attacco, in questo senso, diviene sempre parte di una più complessa strategia difensiva.  Lo era ai tempi di Pietro il Grande e Caterina II che consideravano l’espansione dei confini imperiali come necessaria alla salvaguardia del nucleo interno dello Stato russo; era così in epoca sovietica, quando Stalin optò per la formazione di una cornice di Stati satellite in prossimità dei confini occidentali dell’URSS; è così oggi, in un momento in cui questa “cornice” (e con essa l’Unione Sovietica) è crollata a seguito della fine della Guerra Fredda, lasciando la Russia scoperta e facilmente attaccabile su più fronti. Puramente difensivo fu anche il confronto contro Napoleone, al quale von Clausewitz partecipò attivamente, lasciando la Prussia (costretta da Napoleone a partecipare alla campagna di Russia) ed arruolandosi nell’esercito zarista; von Clausewitz combatté in quella battaglia di Borodino, magistralmente descritta da Tolstoj in Guerra e pace, che, pur non impedendo l’ingresso a Mosca del sovrano francese, ne decimò l’esercito e rese vana ogni sua speranza di vittoria completa.

Pur apprezzando le doti militari e strategiche del Bonaparte (capace, ancor più di Federico il Grande, di trasformare la guerra da gioco di scacchi tra dinastie aristocratiche a causa popolare che sollecita l’impegno attivo delle masse), von Clausewitz ne rifiutava il messaggio antitradizionale di fondo, legato all’ideologia liberale prodotta delle Rivoluzione francese. Cosa che portò lo stesso Napoleone a partorire il primo testo sionista nella storia europea, anch’esso non privo di quegli specifici interessi geopolitici che successivamente indurranno i Britannici a sostenere la medesima causa: il “Proclama alla Nazione ebraica”[7]. Il Proclama, che non fu mai pubblicato a causa del fallimento della campagna nel Levante, diceva: “Bonaparte, comandante in campo degli eserciti della Repubblica francese in Africa e Asia, ai legittimi eredi della Palestina, gli israeliti […] La Grande Nazione [la Francia], che non traffica in uomini e Paesi […] non vi chiama a conquistare la vostra eredità. No, vi chiede solo di prendere ciò che ha già conquistato. E, con il suo sostegno e la sua autorizzazione di rimanere padroni di questa terra[8].

Ai valori della Rivoluzione francese ed agli ideali dell’illuminismo e della massoneria si ispirava anche il colonnello russo Pavel Ivanovic Pestel, esponente di spicco di quei moti decabristi il cui obiettivo politico, oltre all’instaurazione di un governo repubblicano in Russia, era la creazione di uno Stato ebraico nel Levante ottomano[9].


NOTE

[1]Federico il Grande, I principi fondamentali della guerra, Tumminelli Editore, Roma 1940, p. 22.

[2]C. von Clausewitz, Pensieri sulla guerra, Oaks Editore, Milano 2022, p. 8.

[3]Ibidem, p. 23.

[4]Ibidem, p. 59.

[5]K. Haushofer, Che cos’è la geopolitica?, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”. Vol. LI, n. 3/2018.

[6]Si veda S. Boston – D. Massicot, The Russian way of warfare, www.rand.org.

[7]S. Azzali, Theodor Herzl e il Sultano, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, Vol. LXXIII, n. 1/2024.

[8]J. Attali, Le juifs, le monde et l’argent, Fayard, Parigi 2002, p. 333.

[9]Theodor Herzl e il Sultano, ivi cit.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).