Il 7 novembre 1985 a Ginevra Ronald Reagan e Michail Gorbaciov enunciarono il concetto di Guerra Nucleare Non Intenzionale, ossia l’inizio di ostilità causate da un errore tecnico o umano. Il trattato INF, Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty, venne siglato a Washington l’8 dicembre 1987 a seguito del vertice di Reykjavík. tenutosi tra i due Capi di Stato di USA e URSS. Il trattato, eliminò dallo scacchiere europeo i Pershing II e BGM-109G statunitensi e gli SS-20 e SS-4 russi. Il ridotto tempo di volo che impiegavano questi razzi a raggiungere l’obiettivo riduceva la capacità di analisi, preavviso e reazione dell’avversario, dovendo anche prevedere che poteva trattarsi di un falso segnale o di un errore umano. Dunque non lasciava spazio a trattative con l’avversario, ma solo alla ineluttabile ritorsione armata.

La storia ci ha consegnato alcuni episodi fondamentali relativi a tale probabile accadimento.

 Il 3 giugno 1980 al Comando Generale della Difesa degli Stati Uniti, il NORAD, il computer principale rilevò il lancio multiplo di missili balistici intercontinentali dall’Unione Sovietica. Gli analisti valutarono l’accaduto, ma in attesa del responso vennero posti in stato di allarme 100 bombardieri strategici B-52, tutti armati con bombe nucleari. Gli uomini del NORAD ebbero bisogno di quindici minuti per scoprire l’errore e lo stato di allarme rientrò. Un episodio identico si ripeté il 6 giugno, e gli strateghi statunitensi posero nuovamente in allerta i bombardieri; successivamente i tecnici stabilirono che il computer aveva subito una disfunzione e produceva autonomamente cifre che rappresentavano il numero dei missili intercettati.

Se in una simile condizione ci si fosse trovati in Europa, dove un euromissile sovietico od americano impiegava anche solo dodici minuti dal lancio per colpire un obiettivo, la guerra nucleare sarebbe iniziata per errore.

Il 26 settembre del 1983, nel bunker della centrale di allarme missilistica di Serpukhov 15, vicino a Mosca, il computer notificò il lancio di 5 ICBM statunitensi. L’ufficiale di guardia aveva a disposizione 10 minuti per valutare la gravità della minaccia, dopo di che gli correva l’obbligo di avvisare il suo superiore, il quale avrebbe poi informato il Segretario Generale del PCUS. Quest’ultimo, basandosi su quelle informazioni, non potendo disporre di altre, e con l’esigenza assoluta di salvaguardare la sua Nazione secondo la dottrina della Mutual Assured Destruction, non avrebbe potuto far altro che ordinare la ritorsione nucleare su vasta scala contro gli Stati Uniti. L’ufficiale valutò la minaccia come non attendibile, sulla base dell’esiguo numero di missili in aria e sui segnali che erano stati inviati dai satelliti Kosmos-382, denominati “Oko”, ossia occhio. Questi erano la frettolosa risposta sovietica alla corsa al nucleare americana e pertanto difettosi e scarsamente affidabili; inoltre i dati elaborati da un computer vetusto come l’M10, con la ridicola capacità di 10 milioni di operazioni al secondo, fornivano risultati non in linea con quanto osservato sugli schermi radar, sui quali non era evidenziata nessuna traccia. In seguito, si stabili che l’M10, a causa di una disfunzione, si posizionò autonomamente in modalità di attacco ed inviò anche falsi segnali dai satelliti.

Il 2 novembre 1983 la NATO simulò una escalation globale, il cui nome in codice era Able Archer 83. L’esercitazione includeva anche un nuovo codice di criptazione delle comunicazioni, l’assoluto silenzio radio e la cooperazione dei governi membri della NATO, in particolare Regno Unito e Germania. Nel corso degli otto giorni di addestramento congiunto con gli alleati, gli USA innalzarono lo stato di allerta nelle basi militari e nelle centrali missilistiche, fino al livello d’allarme DEFCON 1. Il centro di comando e controllo del Supreme Headquarters Allied Powers Europe venne ubicato a Casteau, a nord della città di Monsé. Gli analisti sovietici la valutarono come una esercitazione; ma i servizi di intelligence russi si attendevano come strategia di attacco degli statunitensi proprio un dispiegamento imponente di forze a livello addestrativo, atte però a celare l’inizio di attività ostili. La convinzione dei sovietici che si trattasse del preludio di un attacco nucleare era rafforzato dalla loro stessa strategia per una aggressione globale alla NATO, che sarebbe stata identicamente dissimulata in false manovre addestrative. I russi dunque allertarono le loro forze nucleari in Polonia e Cecoslovacchia e posero tutte le unità aeree nella Germania dell’Est e nella stessa Polonia in stato di massima prontezza operativa. La simulazione terminò con un giorno d’anticipo, l’11 novembre, e questo persuase il governo dell’URSS che si trattava solo di una realistica esercitazione.

La seguente è una delle ipotesi sull’affondamento del battello sovietico K-141, probabilmente la meno plausibile, ma abbastanza esplicativa nel contesto di una valutazione non corretta atta ad ingenerare una risposta nucleare. Il Kursk interruppe i contatti radio alle ore 10.30 del 12 agosto 2000, dopo che erano state captate due forti esplosioni. Secondo la ricostruzione, il K-141 era tallonato dai sommergibili statunitensi Toledo e Memphis, i quali erano in missione ELINT per la raccolta dati sui nuovi siluri che armavano il Kursk. Il comandante del Memphis si avvicinò eccessivamente al K-141, fino ad impattare. Valutando l’errore di manovra come un attacco, l’ufficiale al comando russo diede immediatamente l’ordine di caricare i tubi di lancio con i siluri e di aprire i portelli esterni. Il Toledo rilevò i transienti provocati dal rumore dei portelli che si stavano aprendo e, per difendere il Memphis danneggiato, lanciò per primo un MK-48 che affondò il Kursk. Questa ipotesi, presentata in un documentario franco-canadese e catalogata come credibile dal Ministero della Difesa britannico, si risolse pacificamente perché i due Presidenti ebbero il tempo necessario ad un chiarimento.

Il 1° ottobre 1962, quattro sommergibili d’attacco “hunter/killer” sovietici salparono da Sayda Guba nei pressi di Murmansk, base navale strategica della Flotta Rossa del Nord. Erano il B4, B36, B59 ed il B130, inquadrati nella 69a Brigata Sottomarina. Il codice di riferimento NATO: Foxtrot. La missione loro assegnata consisteva nello scortare il convoglio russo diretto a Cuba; una volta nell’isola, avrebbero dovuto attraccare nel porto di Mariel. Il 15 ottobre, gli “hunter/killer” ricevettero un cambio di ordini: dovevano stazionare nel Mare dei Sargassi e navigare in stato di combattimento. I quattro Foxtrot furono rilevati più volte dal sistema di difesa integrato antisommergibile americano; nel pomeriggio del 22 ottobre il Direttore della CIA, John Mc Cone, informò il Presidente Kennedy che i quattro Foxtrot erano in posizione al largo di Cuba. Nella stessa giornata, il capo delle operazioni navali, l’Ammiraglio Anderson, avvisò i comandanti delle unità di superficie su un possibile attacco sovietico contro le forze schierate a garanzia del rispetto della quarantena. Il 24 ottobre, alle ore 10,00 del mattino, McNamara ragguagliò il National Security Council sui quattro hunter/killer, specificando che si approssimavano alla linea di interdizione. In questa occasione suggerì di tenerli sotto costante pressione, ma il Presidente Kennedy disse che per nessun motivo le unità americane avrebbero dovuto aprire il fuoco per prime. In contrapposizione arrivò la risposta di Krusciov, il quale minacciò di attaccare chiunque avesse tentato di fermare il convoglio diretto a Cuba. La contromossa fu quella di rendere operativa la quarantena; erano le 10,00, ora della costa est.  Sul finire del 25 ottobre uno dei Foxtrot  divenne il segreto protagonista della crisi di Cuba: il B59 fu rilevato ad est delle isole Bermuda. Erano le 18,11 e venne designato come contatto 19: C19. Il 26 ottobre, il CVBG della portaerei Randolph, identificativo ottico CV15, con i suoi otto Destroyer entrò nella zona di pattugliamento assegnatagli; la stessa del B59. Alle ore 19,15 GMT, un aereo da ricognizione denominato “Woodpecker 5”, lanciato dalla Randolph, riportò un contatto MAD alle coordinate 20°65’47’’W. Sulla scena apparve il secondo protagonista della vicenda: il Destroyer USS Cony, identificativo ottico DD508. Nella tarda serata del 26 ottobre questa unità venne incaricata dalla Randolph di verificare la natura del contatto indicato dal ricognitore. Il giorno successivo, il contatto fu rilevato a 380 miglia nautiche a sud-est delle Bermuda e confermato anche dal CVBG della portaerei Essex, in navigazione a 170 miglia nautiche dal punto del contatto sonar. Dalla CV15 fu ordinato il decollo immediato di velivoli ASW S2F ed elicotteri Sea King. Il C19 venne rilevato senza alcun dubbio residuo. Il Cony attivò il sonar di ricerca in modalità attiva, rivelandosi  all’avversario, ma al contempo comunicando al B59 di essere stato oramai scoperto. L’azione intimidatoria intrapresa dal DD508 non ottenne l’effetto desiderato: il Foxtrot rimase in normale navigazione. Erano le 17,29, ora locale dell’area di pattugliamento, quando il Comandante del Cony, indispettito dalla noncuranza palesata dal B59, decise di passare ad azioni più coercitive: bersagliò il Foxtrot con bombe di profondità ma con carica da addestramento, ossia solo produttrici di esplosioni e non in grado di arrecare danni. Anche questo dato si evinse dal Deck Log Book, in data 27 ottobre 1962, Huchthause a pagina 169. Evidentemente il Comandante del Cony aveva perso il contatto con la realtà, accecato dal desiderio di vincere quella che era diventata la sua guerra personale con il nemico nella profondità oceanica. Un ordine discutibile, emanato con la leggera convinzione che i Russi avrebbero avuto la capacità di discernere la deterrenza dall’offesa, dunque determinarlo come un ulteriore avviso ad arrendersi piuttosto che ad un attacco reale. Il comandante Savickij lo capì, ma non poteva certo prevedere sin dove l’aggressore si sarebbe spinto, anche in considerazione del costante incremento dell’atteggiamento ostile del Destroyer. Savickij, ormai depresso, frustrato e furioso, diede l’ordine estremo: approntare tubo di lancio con siluro a testata nucleare. Il protocollo per l’impiego di armi nucleari prevedeva che il comandante, il secondo e l’ufficiale politico fossero d’accordo sull’ineluttabile quanto fatale ricorso al lancio. Lo zampolit Maslenikov sostenne il collerico Savickij, ma l’ufficiale in seconda Vasilij Arkhipov pronunciò un perentorio e distonico “Niet”. Evidentemente era l’unico ancora presente a se stesso, in simbiosi con la ragione ed osservante alle regole d’ingaggio; infatti non avevano riportato danni e nulla provava che si trovassero in guerra. L’olocausto nucleare fu scongiurato con una semplice sillaba. Alle ore 20,52 del 27 ottobre, oramai ridotto al minimo dell’operatività, il B59 emerse dalle profondità. A bordo del Cony era imbarcato un marinaio che conosceva il russo; tramite segnali luminosi chiese al C19 di quale unità si trattasse, in quanto non riportava sullo scafo il numero di identificazione ottica, evidentemente raschiato via. La risposta fu secca e scostante, una semplice “X”. Il DD508 offrì assistenza tecnica e sanitaria, ma Savickij rifiutò. Tra le ore 22,00 e le 7,00 del giorno successivo, il B59 fu raggiunto e circondato da altre unità di superficie: il Beale, il Lowry ed il Murray. Il modo in cui il C19 sfuggì agli americani è leggenda. Di ufficiale è riportato un Navy Message inviato al COMASWFORLANT dal Destroyer Barry il 30 ottobre 1962 alle ore 2,06 GMT, dopo aver perso il contatto con il C19. Diceva laconicamente: “went deep”.

Ai possibili errori di valutazione, si aggiungono gli incidenti. Ne accadde uno anche in Italia, quando dei fulmini caddero su uno dei silos dislocati in Puglia, dove erano posizionati i missili Jupiter, il vero oggetto del contendere della crisi cubana. La carica elettrica innescò il processo di lancio, ma il disastro venne miracolosamente evitato dalla pronta reazione dei militari.

Gli Stati Uniti avevano mostrato di non voler confermare gli accordi siglati con la Russia già da diversi anni e da altrettante Amministrazioni; in particolare quando decisero di uscire unilateralmente dal trattato ABM del maggio 1972, per limitare le difese antimissile. Di fatto l’abbandono dell’INF non sorprende più di tanto, soprattutto nel nuovo contesto geopolitico. I motivi per i quali il trattato è stato obliato dagli USA si trovano nel nuovo sistema d’arma SSC-8, che il Cremlino ha in fase di test già dal 2000. Il nuovo vettore è derivato dal missile navale Kalibir, lanciato nella campagna di Siria contro postazioni del DAESH da unità di superficie e sommerse russe. L’oggetto del contendere è nella sua gittata: per il Cremlino è 450 chilometri, per la NATO è superiore ai 500 chilometri, ossia nel raggio di azione vietato dall’INF, che bandiva i vettori da 500 a 5.500 chilometri. Come sempre accade in queste dispute, la controparte, oltre a negare qualsiasi addebito, sostiene che è il contendente il primo colpevole. In questo caso è il sistema d’arma Aegis Ashore, la versione terrestre del sistema antibalistico imbarcato sulle unità di superficie della US Navy.  Esso è stato originariamente progettato come apparato difensivo, ma nei suoi moduli di lancio verticali MK 41, al posto dei missili anti missile SM-3, potrebbe essere alloggiato il temibile Tomahawk TLAM-N, ossia un Cruise con testata nucleare, che presto verrà imbarcato sulle unità da guerra statunitensi. L’Aegis Ashore è dislocato nella base di Deveselu in Romania, con 24 lanciatori; ne sarà dotata anche l’installazione di Redzikowo in Polonia. La scelta delle due nazioni dell’ex Patto di Varsavia non è una provocazione gratuita: gli SM-3 sono più precisi se lanciati verso un vettore in fase ascendente, quando i reattori per la spinta verticale sono alla massima potenza e lasciano una scia termica facilmente tracciabile dal sistema antibalistico. L’Aegis è inquadrato nella dottrina National Missile Defence e successivamente nella Ballistic Missile Defence, un ambizioso programma atto a rendere invulnerabili gli asset strategici della NATO e le grandi città statunitensi. Si tratta di un indirizzo strategico perseguito da Reagan fino a Trump, ossia lo scudo antimissile che passa dai vettori Patriot al THAAD all’Iron Dome sino all’Aegis in funzione antiiraniana e antinordcoreana, ma ora principalmente in funzione antirussa. L’SSC-8, noto come Kalibir, ha una velocità di crociera stimata a circa 900 chilometri orari, ma la sua peculiarità è quella di raggiungere, in fase finale di avvicinamento all’obiettivo, la velocità di 3000 chilometri orari a 20 metri dal suolo, questo vuol dire sotto la soglia di rilevamento dei radar ostili di ricerca e tracciamento. Come il Tomahawk, anche il Kalibir può essere lanciato da rampe convertite: in questo caso sono quelle autocarrate del sistema Iskander. Fondamentalmente i due sistemi d’arma sono estremamente pericolosi, in quanto possono raggiungere l’obiettivo in un lasso di tempo che non consente una adeguata analisi, esattamente come accadeva in passato.

Da sempre gli Stati Uniti desiderano l’estensione dell’accordo alla Cina, la quale ha più volte declinato l’invito. Quest’ultima ha un considerevole numero di vettori regionali puntati verso le basi statunitensi nel Pacifico, nell’isola di Guam, nel Giappone e naturalmente, contro i gruppi da battaglia navali in navigazione nei mari cinesi. Pertanto, l’uscita dal trattato potrebbe valere la necessità di sviluppare liberamente nuovi sistemi d’arma in contrapposizione a quelli cinesi. In particolare il DF-26 con un raggio di 3500 chilometri e il DF-17 con 2000 chilometri. Sembrano essere molto precisi e dotati di un veicolo di rientro ipersonico facilmente manovrabile e simile ad un aliante. Questi possono essere inquadrati nel concetto Global Strike. Altra ipotesi sostenibile è che gli Stati Uniti vogliano coinvolgere la Russia nella rinuncia a schierare questi missili e limitarne lo sviluppo; ma questa tattica si ritorcerebbe contro le nazioni NATO, le quali si dovrebbero adeguare a questo nuovo ordine. Perciò gli U.S.A. tentano di rafforzare l’opzione nucleare contro le ogive cinesi antinave con gli ICBM e gli SLBM lanciati dai sommergibili classe Ohio, ma soprattutto con i Tomahawk SLCM, ossia i Cruise con testate di guerra atomica espulsi dalle unità sommerse. Il diniego cinese ad aderire ad un eventuale nuovo INF è comunque un risultato conseguito dall’Amministrazione statunitense, la quale si trova libera di mettere a punto nuove armi nucleari atte a mantenere la supremazia sui due avversari e a limitarne così la supremazia regionale. La decisione statunitense di abbandonare l’INF potrebbe anche essere un tentativo di dissuadere la Russia dall’appoggiare Maduro nella crisi venezuelana. Caracas ha da sempre ospitato sistemi d’arma del Cremlino sul suo territorio, non ultimi i due Tupolev TU-160, che si sono addestrati nel dicembre scorso nei cieli venezuelani. I due bombardieri strategici sono in grado di trasportare missili nucleari, ma la prova di forza si è concretizzata nell’area scelta per la missione di addestramento: i Caraibi, troppo vicini al confine con gli Stati Uniti. Dunque il Venezuela altro non è che una base di deterrenza russa, come Cuba negli anni Sessanta. Il contrasto fra Occidente ed Oriente nella questione venezuelana si estende non solo ad un cambiamento di politica interna, ma ad una nuova crisi, simile a quella degli euromissili, e alla fine del trattato New START in scadenza nel 2021. Ciò si traduce nell’implementazione del nucleare anche verso le testate a potenza ridotta, quelle utilizzabili in crisi regionali. È un concetto sostenuto dagli Stati Uniti, i quali però al momento hanno un formidabile nemico da contrastare: il vettore Sarmat con il modulo di rientro manovrabile ipersonico Avangard dotato di una testata di guerra pari ad un megatone, che picchia verso il suolo dallo spazio suborbitale a Mach 27. Contro questo sistema d’arma non esiste difesa se non la ritorsione nucleare. Per questa ragione la NATO sta spostando i suoi confini sempre più ad est con le basi IRBM e BMD in Polonia e nei paesi baltici.

Negli anni trascorsi dalla crisi di Cuba, la sicurezza dei sistemi d’arma come l’implementazione tecnica dei computer e sensori, l’addestramento degli addetti agli armamenti, l’attenzione sul fattore umano a livello psicofisico sono stati migliorati e diminuiscono sensibilmente la probabilità di errore, ma purtroppo non lo escludono completamente. Il collasso del trattato INF riporta l’Europa al pericolo di essere terreno di scontro nucleare regionale.


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