Tiberio Graziani: Prof. Thual, vuole descriverci le motivazioni che l’hanno spinta ad interessarsi ad una disciplina come la geopolitica? Com’è nato il suo interesse per tale disciplina?

François Thual: Il mio interesse si è forgiato attraverso una duplice esperienza, quella dei miei studi superiori, dove ho avuto la fortuna di avere, come professori in sociologia ed in storia delle relazioni internazionali, Raymond Aron e Jean-Baptiste Duroselle, e quella della mia esperienza familiare. La mia famiglia è stata molto segnata dalle due guerre mondiali; io stesso mi sono trovato orfano nel 1945 e sono stato adottato. Mio padre era funzionario civile alla Marina Nazionale, mia madre alsaziana. La mia infanzia è stata cullata dai racconti che riguardano le due guerre mondiali. Aggiungo che, per la storia tragica delle mie due famiglie, ho avuto zii che hanno servito e sono morti in vari eserciti; non soltanto nell’esercito francese, ma anche in quello italiano nel 1917 e in quello tedesco nel 1918, giacché mia madre era alsaziana. Questo ha formato, direi, l’orizzonte insuperabile della mia coscienza personale, che a poco a poco, con il mio impegno professionale nell’ambito del Ministero della Difesa durato trentasette anni, si è trasformato, attraverso un’alchimia interna, in un interesse per la comprensione dei meccanismi che regolano le relazioni tra le società.

T.G.: Il fatto di essere nato in Francia – cioè in una nazione che, oltre ad essere stata una delle Potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, ha avuto la possibilità di dotarsi di armi nucleari al fine di sottolineare la propria indipendenza dagli USA – ha influenzato il suo punto di vista, i suoi studi?

F. T.: Per continuare quello che le ho appena detto, sono stato allevato con l’idea che tra il 1870 e il 1945 la Francia aveva perso 2,5 milioni della sua popolazione, in tre guerre: la guerra del 1870, la prima e la seconda guerra mondiale. La mia adolescenza è stata contemporanea alla realizzazione della “force de frappe”, che mi è sembrata un elemento importante per la sopravvivenza della Francia di fronte alla straordinaria minaccia che il mondo sovietico faceva pesare, all’epoca, sull’Europa occidentale. Riguardo agli Stati Uniti, mio padre mi diceva sempre che non bisognava mai dimenticare che gli Americani ci avevano salvato tre volte: nel 1917, nel 1945 e durante la Guerra Fredda. Ma questa amicizia per l’America non dovrebbe impedire la volontà di restare indipendenti. Bisogna anche ricordare che alla generazione dei miei genitori, la quale aveva conosciuto la disfatta del 1940, la sconfitta di  Dien Bîen Phu e la fine dell’impero coloniale, il fatto di diventare una potenza nucleare appariva come una catarsi purificatrice; ciò, oggi, può sembrare desueto, vecchiotto, oppure superato o fuori luogo, ma nella Francia di quell’epoca era un sentimento abbastanza naturale. Ricordo di essere cresciuto in un ambiente modesto, ma l’attaccamento alla patria faceva parte dei valori che si praticavano. Mio padre era di centrosinistra, ma la domenica si cantava la Marsigliese.

T.G.: Sessanta anni fa, due anni appena dopo la fine della seconda guerra mondiale, il geopolitico italiano Ernesto Massi scriveva: «La geopolitica è prassi prima di essere dottrina; i popoli che la praticano non la studiano; però quelli che la studiano potrebbero essere indotti a praticarla: è perciò logico che i popoli che la praticano impediscano agli altri di studiarla» (Processo alla geopolitica, “L’ora d’Italia”, 8 giugno 1947). Ritiene ancora valida questa osservazione?

F.T.: La geopolitica è in effetti, secondo me, una prassi prima di essere una dottrina; è semplicemente la codificazione delle possibilità che gli Stati hanno di dispiegarsi sulla scena internazionale, alla luce del loro passato e della loro geografia. Peraltro, per rispondere alla fine della vostra domanda, io non vedo in che cosa i popoli che praticano la geopolitica, che hanno centri di studio, possano impedire agli altri di studiarla. Oggi, con le nuove tecniche di comunicazione, non c’è più nessuna barriera possibile per quanto riguarda la diffusione delle conoscenze.

T.G.: Tenendo conto del fatto che la conoscenza del proprio territorio e la sovranità su di esso è una condizione elementare per manifestare la propria libertà, ritiene che lo studio della geopolitica sia importante per la formazione civile dei cittadini, al pari dello studio della Costituzione?

F.T.: Penso che lo studio della geopolitica e quello della Costituzione non appartengano alla stessa sfera. Lo studio della Costituzione mira a completare la formazione del cittadino, la geopolitica invece fa parte della cultura generale. Lo studio della Costituzione corrisponde a ciò che noi chiamiamo, in Francia, istruzione civica, mentre la geopolitica appartiene al dominio della cultura.

T.G.: Lei ha avuto l’indubbio merito di aver posto all’attenzione del dibattito sulla geopolitica almeno tre concetti: l’elemento identitario, il “desiderio di territorio” e la frammentazione del pianeta, e di averli applicati, nei suoi saggi e studi, quali utili strumenti per la comprensione delle dinamiche geopolitiche del nostro tempo. Il suo apporto teorico e metodologico alla geopolitica, inoltre, ha permesso l’avanzamento di tale disciplina sul versante dell’importanza della religione, superando le esemplificazioni di Samuel Huntington sullo scontro di civiltà. Quali sono gli assi attuali della sua ricerca?

F.T.: Attualmente, sono particolarmente interessato al ruolo svolto dal risentimento nella formazione del sentimento nazionale; come ha scritto di recente Marc Ferro: «Il ruolo del desiderio di vendetta è qualcosa di molto importante nelle relazioni tra i popoli». Per la maggior parte, le identità nazionali si sono formate, nel XIX e nel XX secolo, contro un vicino, contro un occupante, contro un colonizzatore; una volta realizzato il sogno di liberazione, resta tuttavia un risentimento; e questo, secondo me, continua a incidere pesantemente nell’avvenire. Penso in particolare alla Cina, che non è pronta a dimenticare il secolo d’umiliazione subito, tra il 1848 e il 1949, a causa delle potenze occidentali. A questo proposito, i paesi che denominiamo come emergenti sono quelli che hanno avuto una storia segnata da un’umiliazione; bisogna essere molto coscienti del fatto che ciò seguiterà per lungo tempo a condizionare tanto la geopolitica delle grandi e delle piccole nazioni quanto la coscienza delle loro strategie geopolitiche. Ho evocato il caso della Cina, ma posso aggiungere, tra le Potenze emergenti, i casi dell’Africa del Sud e dell’India. Il risentimento è uno degli elementi del genoma identitario dei popoli; generalmente esso si nutre contro i vicini e, malgrado tutti gli sforzi della diplomazia internazionale e la volontà di pace di tutti noi, resta nell’inconscio dei popoli. Ecco dunque, pressappoco, l’asse delle mie attuali ricerche, giacché, come ha detto Goethe, «Nella vita si scrive sempre un solo libro»; ed io continuo a pormi la questione del carburante identitario nei conflitti, e la descrizione di questo carburante negli spazi territoriali.

T.G.: A differenza di molti geopolitici contemporanei, Lei ha sempre tenuto a sottolineare, in particolare nelle introduzioni ai suoi numerosi saggi, l’importanza delle strette relazioni che intercorrono tra l’aspetto applicativo e quello teorico dei concetti e degli strumenti investigativi dell’analisi geopolitica. Nello scorrere le sue considerazioni in merito a tali rapporti, si ha l’impressione che il suo pensiero, da un iniziale ostracismo nel considerare la geopolitica come una scienza (una branca delle scienze politiche), sia evoluto verso una definizione, per così dire, più scientifica della stessa. Entro quali limiti si può sostenere che geopolitica sia una scienza?

F.T.: Non c’è stata nessuna evoluzione del mio punto di vista. Considero la geopolitica una scienza umana, ma nel senso francese di “scienze umane”, e non le assegno una connotazione “scientifica”; per me è una scienza delle società, in particolare delle loro relazioni. La geopolitica è un metodo che deve insegnare a leggere ogni conflitto che sorge. Ci si devono porre le seguenti domande: «Chi vuole che cosa?», «Perché?», «Quando?», «Dove?», «Con chi?», «Contro chi? ». Questo metodo geopolitico deve essere applicato con una estrema misura e con grande prudenza, perché esso non cessa d’essere contestato nelle sue fondamenta dalla pluralità dei fattori che intervengono, ed anche dall’imponderabile. Nei corsi che tengo agli ufficiali all’École Supérieure de Guerre, ricordo sempre gli avvenimenti minori che avrebbero potuto avere conseguenze maggiori. Così, che sarebbe successo se Lenin fosse rimasto schiacciato da un tram mentre Alfred Jarry gli insegnava ad andare in bicicletta a Montparnasse? La rivoluzione russa sarebbe sicuramente scoppiata, dinanzi alla degradazione del Paese. D’altra parte, che cosa sarebbe accaduto se Bismarck fosse annegato a Biarritz, nel 1867? L’unità tedesca si sarebbe fatta lo stesso, ma ci sarebbe stata la guerra del 1870? E che cosa sarebbe successo se il Generale de Gaulle fosse arrivato a Bordeaux dopo i Tedeschi, per imbarcarsi per l’Inghilterra? O se fosse stato abbattuto nelle due missioni di collegamento con l’esercito britannico, nel giugno del 1940? La resistenza francese si sarebbe sviluppata diversamente; quindi la geopolitica deve restare prudente, non deve essere profetica, non ci sono leggi; è per questo che mi oppongo decisamente a considerarla come una scienza. Bene, la geopolitica può ricordare un procedimento scientifico, giacché essa implica un gran rigore e l’assenza di giudizi di valori, come ha detto Spinoza: «Non si tratta di ridere né di piangere, ma di comprendere».

T.G.: Quale consiglio darebbe a un giovane europeo che oggi si avvicina alla geopolitica?

F.T.: Il consiglio che darei a un giovane europeo è quello di rendersi conto quanto sia difficile per una generazione capire quelli che l’hanno preceduto. Comprendere la geopolitica passa attraverso la risalita nel passato, la comprensione neutra delle strutture mentali collettive e di quelle delle élites che hanno diretto i paesi e i popoli. A titolo d’esempio, la colonizzazione italiana ha obbedito ad un certo numero di regole geopolitiche. Non serve ai geopolitici sapere se fosse un bene o un male per l’Italia colonizzare una parte dell’Africa; si tratta invece di comprendere perché ciò sia avvenuto in quel momento, e quali siano stati gli assi naturali di questa espansione, essa stessa legata ad un certo sentimento di ambizione ed umiliazione che aveva seguito l’unità nazionale dopo il 1919. La cosa più importante è imparare a vedere il mondo non con le lenti della propria epoca, ma con le lenti di quelli che hanno fatto la geopolitica precedentemente e di cui la geopolitica attuale è soltanto l’eredità da decriptare. Non è così facile come si può immaginare. La visione che i Cinesi del XIX secolo avevano del mondo ci può aiutare a comprendere perché questa massa di 400 milioni di uomini si sia lasciata conquistare da qualche nave, venuta dall’altra parte del mondo, che essi avrebbero potuto facilmente rigettare in mare. La vera domanda, per riprendere un’analisi celebre, è: che differenza passa tra conoscere e comprendere? Ora, comprendere è la base della geopolitica per un giovane europeo. Io ho due figli di 35 anni, e quando vedo i miei nipoti mi chiedo come spiegherò loro quello che a me spiegava mio nonno sull’arrivo dei Tedeschi in Alsazia nel 1870 o dei Francesi alla fine del 1918. La barriera intellettuale tra le generazioni è maggiore di quella comportamentale; è qualcosa che è difficile da comprendere, perché le mentalità collettive continuano a trasportare pregiudizi, rancori, false percezioni e false concezioni. A un giovane europeo consiglio una cura di ascesi geopolitica, che consiste nell’abbandonare i pregiudizi …

T.G.: Prof. Thual, nel suo saggio La Planète émiettée Lei ha ricordato, come elemento dirompente per le unità geopolitiche sopranazionali, il principio di autodeterminazione dei popoli a disporre di se stessi del presidente americano Wilson. Secondo Lei, tale principio è stato strumentalizzato dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti d’America nello scorso secolo ai danni dell’Europa e del Vicino e Medio Oriente? È stato, in altre parole, un elemento costitutivo delle prassi geopolitiche di queste due nazioni, ai fini della propria affermazione a livello mondiale? E se sì, quali sono state le modalità e i tempi?

F. T.: Vorrei precisare che la Gran Bretagna si è ingegnata all’inizio del XIX secolo a frammentare lo spazio ispanoamericano come quello degli Stati Uniti; ma riguardo al Brasile, Londra ha giocato la carta dell’unità di questo Paese, per cercare di mantenerlo sotto la sua influenza, giacché il Portogallo era un suo cliente. Quanto agli Stati Uniti, essi volevano frammentare l’America del Sud per la stessa ragione dei Britannici. Questa strategia la si ritrova nei Balcani alla fine del XIX secolo, nella liquidazione della prima guerra mondiale in Medio Oriente, dove sono state create numerose entità in seno al mondo arabo. Ciò vuol dire che anche la Francia si è dedicata allo sport della dissezione. Quindi non sono stati soltanto gli Inglesi e gli Americani a parcellizzare il pianeta, ma tutte le grandi potenze, una volta o l’altra. Il fenomeno è ricomparso durante la decolonizzazione dell’Africa. Così, la Francia ha fatto esplodere l’Africa occidentale e equatoriale francesi, che erano due entità regionali, in molti Paesi indipendenti, nonostante la volontà di alcune élites di quei Paesi. Il frazionamento geopolitico, come tecnica per mantenere un’influenza, non è privilegio degli anglosassoni. Potremmo prendere esempi da altri parti del mondo. Riguardo agli Stati Uniti d’America, bisogna sottolineare che in questo inizio di XXI secolo essi spingono i Paesi dell’America del Sud piuttosto all’integrazione regionale che non allo scontro fra loro. In maniera analoga, bisogna riconoscere oggettivamente che al momento dell’indipendenza di alcune regioni africane, precisamente dell’Africa Orientale o degli Emirati del Golfo Persico o ancora della Federazione delle Antille, Londra ha giocato la carta del raggruppamento. Ma, di fronte all’incapacità dei protagonisti a mettersi d’accordo nei Caraibi, nel Golfo o in Africa Orientale, in quel momento Londra ha lasciato giocare a proprio vantaggio la frammentazione.

T.G.: In che misura il principio di autodeterminazione, e dunque il principio di nazionalità, è all’origine dell’identitarismo etnico che affligge il nostro pianeta?

F.T.: Il principio di autodeterminazione non è legato all’identitarismo, ma è una tappa nello sviluppo della democrazia mondiale a partire dell’inizio del XIX secolo. Questo principio del rispetto dei popoli è evidentemente legato alla nozione di identità, ma esso è spesso scivolato in un identitarismo fatale. Il suo motore di origine è una visione etica della politica internazionale e mondiale.

T.G.: Ritiene che l’attuale movimento indigenista indioamericano possa, nel breve periodo, rappresentare un fattore di instabilità per il subcontinente americano?

F.T.: La mia risposta è no, salvo in un caso abbastanza preciso che è quello della Bolivia, poiché da un lato c’è la montagna indiana sovrappopolata e miserabile, e dall’altra la pianura più europeizzata e ricca. I ricchi non vogliono pagare per i poveri, è spesso una della ragioni della frammentazione del pianeta, come si è visto nel rifiuto della Giamaica di costituire una Federazione delle Antille, perché a quell’epoca essa era ricca di bauxite; oppure come lo si è visto con gli Emirati del Bahrein, del Qatar e del Kuwait, che rifiutarono di rientrare nella Federazione inglese per mantenere le proprie risorse. Ancora, un caso interessante è fornito dalla Malesia, dove il sultanato del Brunei rifiutava di integrarsi nella grande Federazione della Malesia, come Singapore, d’altronde. Per tornare agli Indios dell’America del Sud, essi sono troppo sparpagliati perché possano creare degli Stati, eccetto che nel caso della Bolivia, che potrebbe spaccarsi in due. Di contro, sul piano della politica interna il “risveglio dell’Indio” è un fattore determinante che non ha finito di conoscere echi politici e geopolitici.

T.G.: Nell’ambito dei conflitti etnici, quali sono i caratteri che connotano e differenziano l’indigenismo indioamericano, i “tribalismi” balcanico e africano?

F.T.: Quel che c’è di interessante nell’indigenismo indoamericano è che si tratta di una decolonizzazione nella decolonizzazione. Gli stati dell’America Latina si sono decolonizzati da 200 anni; orbene, è soltanto adesso che insorge questo risveglio identitario indio, che presenterà caratteristiche importanti, soprattutto in ragione della sovrappopolazione delle regioni dell’America Centrale. In queste regioni il cattolicesimo ha mascherato la realtà dell’organizzazione delle rispettive società, che è profondamente razziale. Lo stato sociale in gran parte nei Paesi dell’America Latina si legge nel colore della pelle. Le élites uscite dalla colonizzazione ispano-portoghese sono bianche. L’America del Sud ha praticato un’apartheid senza dirlo e ciò fa si che oggi il movimento indio non sia soltanto etnofolclorista, ma sia l’espressione di una “lotta di classe” esasperata dalla pressione demografica.

T.G.: La riorganizzazione dell’Europa su basi unitarie sembra essere un punto di partenza per la costituzione di una unità geopolitica. L’U.E., come sappiamo, è uno dei cardini del cosiddetto sistema occidentale. Insieme a USA e Giappone costituisce quella che Lei ha denominato Triade. Constatiamo anche che l’Occidente, in quanto sistema, è egemonizzato dagli USA, i quali, ovviamente, perseguono scopi “nazionali”, spesso in antitesi con gli interessi geopolitici europei, in particolare nell’area vicino-orientale e nei rapporti con la Russia. L’Europa, che si trova tra il Mediterraneo e la Russia, dovrà dunque scegliere se essere una periferia del sistema occidentale americanocentrico (dunque un imperialismo di secondo livello, un subimperialismo) o un attore geopolitico globale. Qual è la sua analisi a riguardo?

F.T.: L’Europa, secondo me, non sarà mai un’entità geopolitica capace di essere un attore globale. La ragione è semplicissima: essa è composta di grandi paesi che continuano, al di là dei bei discorsi, a perseguire obiettivi particolari. La base dell’Europa, negli anni ‘50, era la paura dell’Unione Sovietica e la paura del ritorno del militarismo tedesco. Sparite oggi queste due minacce, l’Europa è diventata un club di ricchi che accoglie dei meno ricchi, o dei poveri, per farli lavorare; penso a Stati balcanici come la Bulgaria e la Romania. A partire da ciò, come si può fare un’unità? Non si tratta di una semplice questione di supernazionalità. È il problema di un’addizione di Paesi che continuano a perseguire i propri obiettivi di espansione economica e geopolitica. Non ci sarà nessun subimperialismo europeo, per la semplice ragione che ci sono quattro o cinque minimperialismi che sopravvivono in seno all’Europa; l’Italia, la Francia, l’Inghilterra, la Germania e la Spagna continuano a perseguire scopi non più di acquisizione territoriale, ma di influenza politica ed economica. In questo senso, l’Europa sembra condannata a restare un insieme proteiforme e pluripolare.

T.G.: In un contesto mondializzato come l’attuale, ritiene che la semplice riorganizzazione “regionale” del pianeta, peraltro su basi esclusivamente economiche, che impongono oltretutto il sistema economico occidentale libelcapitalistico, possa contenere ulteriori spinte disgregatrici del Pianeta e limitare le tensioni tra nazione e nazione, depotenziare il “desiderio di territorio” e la pulsione identitaria?

F.T.: Mi sembra che ci sia uno scollegamento tra le organizzazioni regionali del pianeta, fondate su criteri economici, e la persistenza delle tensioni identitarie. Un esempio interessante è quello della ASEAN, che raggruppa un Paese cattolico, le Filippine, due Paesi musulmani e alcuni Paesi buddhisti e che, soprattutto ingloba nazioni che non hanno smesso da secoli di combattersi, come la Thailandia e la Birmania, la Thailandia e il Vietnam, la Cambogia e la Thailandia o, più recentemente, la Malesia e l’Indonesia. La prospettiva di sviluppo economico modifica le modalità del desiderio di territorio, ma sopprime la libido territoriale? Io non lo credo, ne modifica la temporalità e le modalità di azione quotidiana. Le organizzazioni regionali hanno una virtù “antinfiammatoria”, ma non hanno la capacità di sradicare i tumori identitari! La mia proposta si indirizza essenzialmente a paesi non europei, benché a guardarci da vicino nessuno sembri essere al riparo da un ritorno del “desiderio di territorio”. L’Unione Europea, che ha più di 50 anni, potrebbe impedire la frantumazione del Belgio, la separazione della Scozia dal Regno Unito e della Catalogna dal Regno di Spagna? La questione è da seguire, ma gli antinfiammatori non hanno guarito mai nessuna malattia

T.G.: I raggruppamenti regionali rappresentano una forma di subimperialismo, nel senso dato da lei a questo concetto nel saggio Contrôler et contrer (p. 33)?

F.T.: Generalmente no, perché, come abbiamo appena detto, essi raggruppano Paesi con interessi contrastanti. Un caso semplicemente da sottolineare, giacché è talmente evidente da passare inosservato. La Associazione degli Stati dell’Asia Sudorientale non è di fatto una colonia della Cina? Non voglio essere un provocatore dicendo ciò, ma voglio soltanto dire che le economie di questi Paesi sono tutte controllate dalle diaspore cinesi. Allora è una forma di subimperialismo o il prodotto del caso, o della necessità? Constato semplicemente questo fatto.

T.G.: Nella prefazione a La Planète émiettée, l’Ammiraglio Pierre Lacoste ha sostenuto, a ragione, che il suo saggio ha l’indubbio merito di offrire una lettura “altra” dei processi di modializzazione. La geopolitica, dunque, quale materia multidisciplinare, si rivela un ottimo strumento per meglio definire le dinamiche di questi processi. Quali sono le relazione che intercorrono tra mondializzazione (globalizzazione) e analisi geopolitica?

F.T.: La mondializzazione apre ai processi economici, finanziari, così come ai problemi di opinione pubblica, dei media e dell’informazione. Pertanto le onde della mondializzazione possono sommergere gli scogli che formano i blocchi identitari. Non penso che le identità debbano dissolversi nella mondializzazione, e non sono lontano dal pensare che la mondializzazione favorisca al contrario la salita degli identitarismi, per reazione. Ad ogni modo ciò è vero per gli identitarismi a carattere religioso, come l’islamismo.

T.G.: L’Ammiraglio Pierre Lacoste, sempre nella già citata prefazione, ha sottolineato il suo impiego di formule prese in prestito dalla scienza medica (manipolazioni genetiche, microchirurgia spaziale, per descrivere la frammentazione del pianeta; convulsioni, trombosi, collassi, per rappresentare le dinamiche che affliggono le nazioni contemporanee). Le chiedo, dunque, sulla base dei dati desunti dalla sua “diagnosi”: qual è la “prognosi” e quali le terapie per il nostro pianeta?

F.T.: Se desidera che io rimanga nel dominio dell’analogia medica, le dirò che la diagnosi e la prognosi di sopravvivenza della specie umana mi sembrano essere le seguenti: obesità demografica determinata dalle stesse migrazioni, fonte di nuove implacabili tensioni identitarie, specialmente in Asia; militarizzazione continua del pianeta, incapacità di superare i traumi della gioventù, da cui un bell’avvenire per le crisi identitarie. Aumento del fossato tra i ricchi potenti, i mediamente ricchi e i poveri, senza parlare dei molto poveri. Rafforzamento delle ineguaglianze, esse stesse consolidate dal possesso, e dal non possesso, di tecnologie moderne nei differenti domini. L’avvenire è oscuro, lo è sempre stato; non sono le grandi ed encomiabili correnti di pensiero, come i diritti dell’uomo o il diritto d’ingerenza, a cambiare qualcosa, quando questi cataclismi si infrangeranno sul pianeta. Tuttavia, le convinzioni filosofiche mi inducono a continuare ad avere una visione positiva dell’evoluzione della società mondiale. Ma ciò rischia di avvenire tra molti secoli, se nel frattempo la razza umana non sarà scomparsa. Per quanto riguarda le terapie, ne vedo soltanto due: democratizzazione con mezzi omeopatici e psicoterapia di gruppo. I fatti identitari non sono definitivi. Ricordo la mia gioventù, l’odio che regnava in Francia contro la Germania; quando oggi ne parlo ai miei nipoti, loro non possono comprendere questo vissuto; vale a dire che ci sono comunque progressi tra i popoli, ma in generale la gente progredisce meglio quando può mangiare e possiede un minimo di beni. Lo sviluppo economico che rischia di essere ostacolato e messo in corto circuito dall’esplosione demografica, anche se questa è destinata a rallentare, non è portatore di buone notizie per la geopolitica. In questo senso, la vostra rivista, che ringrazio per avermi intervistato e per avere promosso la pubblicazione del mio libro, ha un bel futuro, poiché, per finire con una nota realistica, non dimentichiamo mai che il mondo è pieno di conflitti in gestazione. Questo non ci appare ovvio nella nostra Europa così pacifica (per il momento), ma osservi l’Africa, osservi l’Asia, osservi il Sudamerica ed anche l’America settentrionale, con i conflitti che potrebbero emergere tra i latinos e gli altri americani. Quando ho scritto La planète émiettée, ho fatto una traduzione spaziale, geografica, dei conflitti identitari. Ho cercato di essere il più possibile obiettivo e quest’obiettività mi riconduce ogni giorno ad una visione non molto ottimista del futuro immediato; ma restano i piaceri dello spirito, in particolare dello spirito geopolitico.

estratto da François Thual, Il mondo fatto a pezzi, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008, pp. 130, € 15,00


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