Mentre a Città del Capo va avanti l’Africa Oil Week, il dibattito africano sui combustibili fossili è quanto mai acceso. A scaldare l’opinione pubblica sono stati due avvenimenti: lo scandalo dei combustibili altamente tossici importati dalla svizzera ed il vertice dellOPEC ad Algeri.

A partire dal 31 Ottobre scorso, in occasione della ventitreesima Settimana del Petrolio Africano (Africa Oil Week), le maggiori autorità africane del settore petrolifero e i rappresentanti di molti colossi internazionali si sono riuniti presso l’ International Convention Center a Città del Capo per promuovere l’investimento in combustibili fossili sul continente. Il vertice, che si tiene annualmente dal 1994, non poteva cadere in un momento di maggiore agitazione dell’opinione pubblica e dei media sul futuro energetico dell’Africa, e in particolare sull’uso e la qualità di gas e petrolio.

Tutto è cominciato lo scorso 16 Settembre, quando la ong svizzera Public Eye ha reso pubblici i risultati di uno studio sui carburanti utilizzati in Africa, con un certo sgomento dell’opinione pubblica africana e internazionale. Per comprendere a fondo la vicenda, bisogna tener presente che, sebbene l’Africa sia mediamente ricca di greggio — estrae, infatti, il 9% della quota mondiale — , essa raffina meno della metà delle risorse che estrae, e tende a importare i prodotti finiti da altri paesi. Questa situazione, già poco vantaggiosa per le economie dei paesi africani ricchi di petrolio, è diventata persino tragica quando Public Eye ha svelato i suoi dati. Infatti, secondo lo studio condotto per tre anni e su otto diversi paesi, alcune compagnie petrolifere svizzere avrebbero approfittato dei bassi standard ambientali vigenti nei paesi africani per esportare carburanti fino a 378 volte più inquinanti di quelli diffusi in Europa. A produrre questo risultato è la maggiore ricchezza di solfati dei carburanti che, raffinati nella cosiddetta ARA zone (Amsterdam, Rotterdam, Anversa), sono poi importati in tutto il continente africano da compagnie svizzere.

Poche settimane dopo l’esplosione dello scandalo, un secondo importante avvenimento ha attizzato il fuoco del dibattito: la riunione informale dei paesi OPEC tenutasi ad Algeri dal 26 al 24 Settembre. In un momento così delicato per il settore petrolifero africano, l’organizzazione non è stata in grado di confermarsi come punto di riferimento; piuttosto, è emerso il difficile conflitto di interessi che oppone i paesi più forti a quelli più deboli, specialmente quelli africani. Se, infatti, paesi come l’Arabia Saudita e l’Iran stanno ripetutamente violando i limiti di produzione imposti dall’OPEC, i paesi africani ricchi di greggio, le cui economie dipendono in maniera significativa dalle industrie petrolifere, vedono nella riduzione dei prezzi del petrolio un grave pericolo. La stessa caduta dei prezzi del petrolio scoraggia gli investimenti in impianti di lavorazione del greggio, sulla cui necessità insistono ormai tutti gli esperti e gli osservatori. Il caso della Nigeria è eloquente. Il bilancio statale nigeriano dipende al 70% dalle settore petrolifero, nondimeno la Nigeria reimporta sotto forma di carburanti due terzi del greggio che produce; il paese avrebbe bisogno di investimenti  in nuovi impianti di raffinazione per poter trarre il massimo beneficio dai suoi giacimenti. Sembra dunque che l’obiettivo dichiarato dell’OPEC, coordinare gli interessi dei paesi membri su un certo livello di prezzi, sia sempre meno realistico e realizzabile.

Alla luce di questi fatti, l’Africa Oil Week sembrava l’occasione perfetta per far venire al pettine i nodi dell’assenza di regolamentazione e della mancanza di investimenti. Per quanto riguarda la mancanza di investimenti, la conferenza ha dato modo di osservare come il calo di investimenti delle industrie continentali non abbia fatto che aprire ulteriore spazio a multinazionali come Exxon, Eni, BP. La soluzione al problema investimenti, dunque, per quanto possa non piacere, sembra abbastanza semplice. Meno si è parlato della necessità di nuovi e più rigidi standard ambientali. Il problema dell’inquinamento dell’aria affligge in maniera grave molte città africane. La maggior parte dell’inquinamento è provocato dalle automobili, che sono però meno presenti che in Europa. Eppure, essendo i carburanti enormemente più tossici, le emissioni tossiche sono enormemente maggiori. L’inquinamento dell’aria ha conseguenze reali e gravi sulla qualità della vita delle popolazioni interessate; ad esempio, ad Accra (Ghana) i problemi respiratori sono una delle ragioni fondamentali per cui le persone vengono ricoverate. Le conseguenze previste per la salute degli africani, se questa situazione non dovesse modificarsi, sono a dir poco drammatiche.

Proprio per queste ragioni, la ong Public Eye ha lanciato una petizione per emendare la costituzione svizzera alla luce dello UN Guiding Principles on Business and Human Rights, una manovra che, con tutti i suoi limiti più evidenti, vorrebbe obbligare le multinazionali con sede in Svizzera a esportare rispettando per ogni paese gli stessi standard ambientali. Ovviamente, se anche il progetto andasse in porto, il suo valore sarebbe quasi solo simbolico. È evidente che, finché i paesi interessati non fisseranno propri standard ambientali, qualunque iniziativa unilaterale non potrà che essere inefficace.

L’Africa, nella sua enormità, nella sua varietà, mostra nella maggior parte dei suoi territori un grande potenziale energetico, sia per quanto riguarda i combustibili fossili che per quanto riguarda fonti di energia alternative. Resta solo da capire se e quando questo potenziale sarà messo a frutto.


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