La Cina è una delle potenze emergenti nello scacchiere mondiale e i suoi movimenti sono interessanti da osservare, poiché spesso precorrono i tempi e forniscono una prospettiva differente da quella occidentale. In questi scritto si affronta il rapporto tra Cina e Africa, con un excursus sui punti di contatto in epoca moderna e l’analisi delle principali iniziative sul continente. Le conclusioni sono affidate ad una riflessione sulla portata di questa strategia e alle prospettive future.

 

Mentre a Roma si discute, sull’altra sponda del Mediterraneo, passando dal Corno d’Africa, per arrivare in Asia orientale, fino alle porte di Pechino, continua a perfezionarsi in maniera rigorosa la strategia cinese, derivata da un esteso programma di cooperazione, il Forum on China-Africa Cooperation, sul quale ritengo sia possibile e utile riassumere alcuni dati e considerazioni per fornire al lettore una chiave di lettura e sollecitare ulteriori riflessioni sulle dinamiche che ne conseguono.

Le relazioni tra Repubblica Popolare Cinese e continente africano in epoca moderna e postmoderna trovano il punto di origine nei primi anni sessanta, sia per ragioni politiche sia per interessi economici comuni. In quegli anni si delimitano i principi che rendono stabile e alimentano la collaborazione sino-africana. È il premier cinese Zhou Enlai a comprendere le potenzialità di questo rapporto, intuizione seguita anche da Deng Xiaoping, ma destinata a prendere forma in maniera concreta solo nei primi anni novanta. Nel maggio 1996, infatti, uno dei maggiori esponenti della nuova classe dirigente del Partito Comunista Cinese, il premier Jiang Zemin, procederà con la ridefinizione di una nuova sinergia. Questa si tradurrà nella costituzione del Forum di cooperazione – ottobre 2000 – attraverso la First Ministerial Conference per la definizione di obiettivi comuni ed i primi piani di investimento, alla quale presero parte le rappresentanze di quarantaquattro Stati africani, diciassette organizzazioni internazionali ed esponenti del mondo imprenditoriale.

Oggi la Cina è il maggiore partner economico dell’Africa e, più precisamente, di cinquantatré stati africani con i quali, attraverso relazioni bilaterali, meccanismi di consultazione istituzionale e commerciale costruiti nell’arco di sei anni, ha varato un imponente programma di investimenti intensivi. Le stime ci dicono che entro il 2025 si arriverà a circa 440 miliardi di dollari impiegati in cinque settori strategici: bancario, agricolo, infrastrutture, telecomunicazioni, edilizia.

L’atterraggio del dragone rosso – così come lo definisce l’interessante report “Dance of the lions and dragons” (giugno 2017) della società McKinsey & Company – ha significato l’arrivo di diecimila aziende cinesi su territorio africano per attuare gli obiettivi dell’accordo, favorire la creazione di lavoro e lo sviluppo di competenze manageriali, d’impresa e know-how. In termini occupazionali, il 90% dei dipendenti delle aziende che operano sul territorio africano è stato assunto in loco e si stimano circa trecentomila posti di lavoro in più al 2017. Pilastro essenziale di questo progetto è quello delle infrastrutture, sia per quanto riguarda il trasporto di persone e merci sia sul piano energetico. Basti pensare all’imponente lavoro portato a termine negli anni tra il 2012 ed il 2016 per la costruzione delle nuove linee ferroviarie Gibuti-Addis Abeba (750km) e Mombasa-Nairobi (485km), all’interno della più vasta programmazione di grandi opere infrastrutturali, per la quale furono stanziati nel periodo di riferimento ben 30 miliardi di dollari – secondo quanto riportato dal dossier del 2016 di The Infrastructure Consortium for Africa. Si tratta dei primi interventi sulle linee ferroviarie dalla fine dell’800 e basta dare uno sguardo al numero di linee presenti in tutto il continente per avere chiaro lo scenario: quattordici linee ferroviarie di cui nove dismesse e cinque in funzione. Gli interventi di realizzazione ex novo e di elettrificazione, cofinanziati dai fondi cinesi, hanno contribuito di fatto all’avvicinamento dei tempi di percorrenza agli standard europei, ivi riducendo l’arretratezza che influisce inevitabilmente sullo sviluppo e sulle relazioni commerciali. Inoltre, è prevista l’integrazione del sistema ferroviario con una rete autostradale che si estende complessivamente per diecimila chilometri.

Anche la politica energetica non è da meno. Prendendo come riferimento analogamente il periodo 2012-2016, il programma di opere è stato supportato da una dotazione di 23 miliardi di dollari per il finanziamento di dighe, parchi solari, trentaquattro centrali elettriche e circa mille mini centrali idroelettriche. Anche i numeri raggiunti in produzione di energia sono notevoli, ad esempio: la Diga del fiume Congo ha la capacità di produrre trentanovemila megawatt all’anno, mentre il parco solare Jasper ne genera centottantamila, sufficienti ad alimentare oltre centomila abitazioni.

Per completezza di ragionamento, in formulazione compendiaria, è imprescindibile fornire al lettore elementi ulteriori, alcuni passaggi preliminari senza i quali la disquisizione condotta sin qui risulterebbe incoerente rispetto al ragionamento che si intende concludere.

Il partenariato sino-africano, com’è ovvio, non si articola solo su un sistema complesso di scambi commerciali, è altresì esteso a settori diversi di interesse reciproco: sanità, istruzione, sviluppo sociale, cooperazione militare, cultura, formazione professionale. L’approccio cinese sul continente si colloca nella più ampia strategia globale della “One Belt, One Road”, annunciato nel settembre 2013 da Xi Jinping, durante il discorso alla Nazarbayev University in Kazakistan, con l’obiettivo di consolidare parallelamente la cintura terrestre e la rotta marittima per la Nuova Via della Seta. Il progetto è decisamente ambizioso e peculiare per la sua tendenza globalizzante, che ricalca il segmento del “socialismo dalle caratteristiche cinesi”, quello della Cina “sovrana e decidente”.

In questa prospettiva è opportuno di citare uno degli aspetti più inediti realizzati a supporto di una visione più ampia da parte di Pechino. L’apertura della base militare cinese presso Gibuti, nel novembre 2017 è la prima fuori i confini nazionali – posizionata sul Corno d’Africa, tra il Mar Rosso e il Golfo di Aden, in una posizione strategica d’accesso al Canale di Suez. Il medesimo porto presidia una delle rotte internazionali più importanti del mondo, attraversata da un flusso di ventimila navi ogni anno, snodo di primo piano nella rotta marittima e nella rete di rifornimento della Nuova Via della Seta. Da qui la Cina si è assicurata un punto d’appoggio fondamentale dal quale – grazie ad un investimento pari a circa 600 milioni di dollari per il potenziamento dell’hub portuale – contribuirà a garantire la stabilità geopolitica della regione ed il contrasto alla pirateria a largo della Somalia e nel Golfo di Aden. Il ruolo assunto nel corso del tempo in quest’area (con cinquantadue missioni diplomatiche e tremila soldati nel continente) ha affermato contestualmente la capacità di accesso e di proiezione delle forze navali cinesi nell’Oceano Indiano, a tutela di propri interessi sul continente e di diritti sulle rotte interazionali.

La piattaforma del Forum ha instaurato una cooperazione allargata e paritaria, almeno da quello che emerge dalla documentazione resa pubblica a margine delle sedute, tale da favorire l’interscambio di persone e competenze. Ciò vale anche per settori non sempre nell’interesse primario della cooperazione internazionale come, ad esempio, l’istruzione, con il finanziamento di oltre trentamila borse di studio indirizzate a studenti africani che vogliono studiare in Cina, oppure nel campo della formazione tecnica e professionale rivolta ad oltre trecentomila persone, incentivando scambi interculturali, oppure ancora in particolari ambiti produttivi dell’agro-tecnica, con squadre specializzate per favorire le competenze necessarie alla gestione agricola.

Com’è noto ai più, il governo di Pechino ha anche un interesse specifico nello sfruttamento di risorse naturali, tema al quanto delicato soprattutto per alcuni elementi. Ad ogni modo, gli accordi conclusi e i dati sulle esportazioni verso oriente fanno fede in tal senso. La reciprocità di questi interessi è descritta dall’80% delle esportazioni che riguardano petrolio, metalli e risorse minerarie e dal 90% delle importazioni verso l’Africa rappresentato da tessuti, mezzi, prodotti industriali. Vi è poi il tema, ancora abbastanza controverso, delle Rare Earth Element, sul quale Pechino si è conquistata da metà anni ’80 ai giorni nostri, fino al 90% del mercato – in buona sostanza il monopolio – e che si interseca con un segmento del rapporto che stiamo descrivendo. Da profano della materia, credo sia sufficiente riportare la descrizione data da Zanichelli, secondo cui “con il termine terre rare si indica il gruppo di diciassette elementi contenuti nella tavola periodica costituiti da scandio, ittrio, lantanio e da tutti gli elementi che costituiscono la famiglia dei lantanidi”. Questi elementi hanno la particolarità di essere contenuti in bassa concentrazione nei loro depositi, il che li rende difficili e costosi da estrarre; vengono utilizzati in settori di primaria importanza come l’industria aerospaziale, il settore della difesa, per la produzione di energia nucleare e di dispositivi elettronici. La Cina ha già da tempo rapporti intensi con i principali Stati africani maggiormente dotati di giacimenti. Tra le operazioni più note degli ultimi anni spicca l’acquisto di una fornitura da una miniera situata in Congo: 2,65 miliardi di dollari per cinquantatré tonnellate di cobalto in tre anni. Ma ben più alto è stato ed è il prezzo per lo sfruttamento di questo mercato, calcolabile in diritti ed in umanità perduta, certamente non in dollari.

Lo scritto sin qui elaborato, la ricerca e lo studio dei dossier, la selezione di progetti ed informazioni sopra riportate, concorrono nel descrivere in maniera qualificante e riepilogativa, per quanto consentito dalla loro complessità, le azioni della Belt and Road Initiative.

La Cina ha lanciato una grande sfida alla quale corrisponde un altrettanto grande capacità di sviluppare programmazione a lungo termine. È la chiave interpretativa di tutta la nostra riflessione che riguarda, invece, la capacità dei Paesi occidentali di elaborare visioni ambiziose sul lungo periodo. Prendendo a riferimento l’Italia o, meglio ancora, l’Europa, non servirà particolare impegno per comprendere tutta la nostra inadeguatezza a confronto con il modello cinese. È difficile pensare di poter competere con una programmazione di due, cinque, dieci anni al massimo rispetto ad una programmazione di venti, cinquanta, cento anni. Certamente il limite non risiede solo nell’estensione temporale delle predette programmazioni. Non vi è dubbio che l’osservatore attento avrà puntualmente riscontrato la sostanziale differenza che intercorre tra l’approccio appena descritto – multilaterale, paritario, reciproco, diversificato, lungimirante – e quello già sperimentato con il continente africano – regionale, assistenziale, periodico, inefficace. La partnership sino-africana non è certo esente da criticità, in ordine all’effettivo superamento della vulnerabilità economica, alle eventuali distorsioni socio-economiche sottese a così intensi processi di urbanizzazione standardizzati oppure ancora alle difficoltà derivanti dai debiti contratti dagli Stati del continente. Vero è che, di norma, sono necessari decenni per avere chiaro il ritorno di investimenti di questo livello, ma in linee generali potrebbe essere di ausilio nel comprendere il significato e la portata delle strategie di cooperazione istituzionale e negoziali con l’Africa.

La piattaforma sviluppata attraverso il Forum rappresenta un modello di riferimento per implementare le connessioni commerciali e le infrastrutture strategiche di interesse europeo, aprendo ad una cooperazione più ampia e superando la percezione del continente africano come fonte privilegiata di instabilità.

Sono spunti interessanti che pongono alcune questioni, certamente anche di natura politica, sull’idea europea di cooperazione interazionale in termini istituzionali, economici, diplomatici. Lo scenario descritto e la riflessione seguita richiama naturalmente a sé un’ambizione – questa sì lungimirante – ad oggi percepita come inverosimile o, addirittura, destabilizzante: il progetto di unificazione europea, gli Stati Uniti d’Europa. Si tratta di uno scenario distante, per alcuni archiviato tra le teorizzazioni del passato, per altri tra le ipotesi di evoluzione nel futuro dell’Unione Europea. Ma è proprio la Cina, con tutte le sue differenze culturali, giuridiche, economiche e con tutte le resistenze che è stata in grado di lasciarsi alle spalle, a farsi interprete di un messaggio per il futuro: visione, ambizione e coraggio.


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Studente di Giurisprudenza presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro. Ha ricoperto il ruolo di Portavoce Nazionale delle Consulte Studentesche (2016).