L’approssimarsi delle elezioni legislative tenutesi lo scorso 7 marzo ha  fatto riemergere i conflitti latenti nel Paese: la questione curda, la necessità di una riconciliazione tra sunniti e sciiti, il tema del federalismo e la distribuzione delle risorse del paese, il problema delle ingerenze straniere. Questi temi sono alla base dell’attuale crisi irachena che rischia di far precipitare Baghdad in una spirale di violenza, come quella che fece seguito alle elezioni del 2005. Numerosi attentati hanno colpito in questi giorni diverse città dell’Iraq, tra cui la stessa capitale, Bassora, Mosul e Hilla. Il bilancio finale degli attacchi che hanno colpito check point, luoghi di lavoro, moschee sciite e mercati è stato di oltre cento vittime.

La crisi politica irachena ha avuto inizio ancora prima delle elezioni con l’annuncio dell’esclusione di 511 candidati dalle liste elettorali a seguito della cosiddetta campagna di “debaathificazione”. Lo scopo dichiarato di tale campagna era quello di escludere dal sistema politico coloro che erano compromessi con il vecchio regime di Saddam Hussein, ma i provvedimenti di espulsione dalle liste hanno colpito in gran parte esponenti sunniti (spesso legati molto debolmente al partito Baath), ed in particolare esponenti candidati della coalizione Iraqiya, guidata da Allawi.

La campagna di “debaathificazione”(1) attuata da al-Maliki gli ha alienato, però, molte simpatie negli ambienti sunniti, oltre a quelle degli Stati Uniti. Il timore di Washington era che l’esclusione dei sunniti  potesse consegnare il Paese in mano alle frange sciite vicine all’Iran. Dal canto loro, i leader islamici iraniani hanno accusato il governo americano di tentare di riportare al potere “i suoi vecchi alleati iracheni dell’era di Saddam”.

Questa situazione ha favorito Allawi nella sfida elettorale, ma non gli consentirà di formare, senza difficoltà, un nuovo governo. Infatti, l’alleanza stretta di recente da al-Maliki con l’Alleanza nazionale irachena (INA, partito sciita, che comprende anche il leader nazionalista Muqtada al Sadr) mette la coalizione di al-Maliki in posizione di superiorità rispetto al partito di Allawi.

Allawi e al-Maliki, entrambi sciiti, avevano presentato la propria coalizione come un movimento nazionalista e laico, con l’obiettivo di superare le divisioni confessionali che, invece, in questa nuova fase si stanno riacutizzando.

La campagna di debaathificazione ha vanificato le speranze di una riconciliazione nazionale, ma la contrapposizione non sembra avere una matrice religiosa, piuttosto risulta un’opposizione fra sostenitori di uno Stato iracheno unitario e centralizzato, e sostenitori di uno stato federale, tra i difensori di uno Stato laico e difensori di uno religioso, e tra correnti vicine agli Stati Uniti e correnti favorevoli all’influenza iraniana.

A causa dell’importanza geopolitica e strategica dell’Iraq nella regione, le recenti elezioni hanno suscitato maggiore interesse all’estero, più che all’interno del paese. Le principali forze politiche irachene sono, infatti, abbondantemente finanziate da potenze straniere (2): oltre che dagli Stati Uniti e dall’Iran, sostegno finanziario e di altro genere proviene dai paesi del Golfo, in particolare dall’Arabia Saudita e dal Kuwait, ed altre forme di sostegno più indiretto provengono dalla Siria.

Gli Stati Uniti stanno cercando di disimpegnarsi e di riportare a casa le loro truppe, ma ciò sarà possibile a patto di lasciarsi alle spalle un Iraq stabile, e possibilmente senza farlo cadere tra le braccia dell’Iran. Nell’eventualità di un inasprimento della situazione politica e di sicurezza dell’Iraq, non è detto che gli americani continueranno a portare avanti senza modifiche la loro politica di disimpegno, del resto sono gli Stati Uniti stessi a ribadire che gli interessi di Washington nel paese sono interessi a lungo termine.

L’influenza di Arabia Saudita ed Iran

Nella formazione dei partiti e delle alleanze, oggi, in Iraq giocano un ruolo sempre più influente due storici nemici: l’Iran e l’Arabia Saudita. Attraverso l’arma del denaro ed il fattore religioso, ciascuna delle due parti cerca di creare una base di propri sostenitori ed alleati. A conferma di ciò, vi è il pellegrinaggio, sia a Teheran che a Rihad, di numerosi politici iracheni dei vari schieramenti che hanno preso parte alle elezioni.

L’Arabia (come anche i paesi arabi del Golfo) ha apertamente, e paradossalmente, sostenuto la lista laica Iraqiya guidata da Allawi (3) e ha anche ospitato alcuni leader iracheni che si ispirano a una versione dello sciismo non meno intransigente rispetto al wahhabbismo saudita. L’influenza saudita ha accumulato, però, un ritardo di almeno sei anni rispetto a quella iraniana, e si basa su forze che non possiedono milizie e che non hanno una presenza tangibile nelle istituzioni dello Stato.

Mentre, l’influenza di Teheran in Iraq si è tradotta in uno sforzo di influenzare la competizione politica attraverso partiti iracheni di ispirazione settaria che erano stati fondati a Teheran, e che avevano stabilito la loro sede nella capitale iraniana. Tali partiti avevano costituito delle milizie con il sostegno iraniano, le quali erano divenute la spina dorsale delle forze di sicurezza e dell’esercito iracheni (4).

Sicuramente, i leader islamici iraniani desideravano una vittoria degli sciiti dell’Iraq alle scorse elezioni, ma ancora più importante del fattore sciita è la posizione nei confronti degli Stati Uniti. Infatti, nonostante Teheran venga accusata di tentare di instaurare un regime sciita in Iraq, la sua priorità è l’opposizione all’influenza statunitense.

Questa è una delle ragioni che spiegano gli stretti legami che il regime islamico iraniano ha con il presidente del Venezuela Hugo Chavez, con il presidente boliviano Evo Morales e con altri leader nazionali che si oppongono all’unipolarismo Usa.

Il fattore “anti-americanista” si è tradotto nel sostegno di Teheran a gruppi sciiti guidati da radicali come Muqtada al-Sadr, piuttosto che ai gruppi sciiti laici e filo-americani come quello guidato da Iyad Allawi.

Un’altra importante questione che mette in luce quanto per Teheran, in realtà, la questione religiosa non sia particolarmente rilevante , riguarda i rapporti tra la guida irachena sciita a Najaf, l’Ayatollah Ali al-Sistani (verso il quale i leader iraniani nutrono grande rispetto e stima), e gli ayatollah a Qom e Teheran.

Le differenze tra gli Ayatollah iracheni e iraniani sono molto profonde: Sistani rifiuta di sostenere il concetto del velayat-e faqih (5), su cui si regge il sistema di governo iraniano dal 1979, definito dai leader iraniani come l’unico sistema possibile per uno Stato sciita. Chiunque non sostenga questa nozione è stato tacciato di non essere un vero sciita, addirittura un infedele.

L’Ayatollah al-Sistani rappresenta il clerico della città santa di Najaf, il luogo più importante dello sciismo. La sua figura di uomo di religione è sempre più popolare, egli viene visto come il simbolo dello sciismo.

In questo momento, gli oppositori dei “conservatori” delle Repubblica islamica dell’Iran sono soltanto i “riformisti”; essi possono, quindi, contare sempre sull’appoggio della popolazione religiosa, ma in un eventuale scontro con Sistani si potrebbero trovare in grande difficoltà. Lo scontro con l’Ayatollah al-Sistani, probabilmente, rischierebbe di rovesciare la situazione a favore degli sciiti iracheni, l’Iran uscirebbe di scena, e si aprirebbero nuovi scenari. Ma per il momento, questa, sembra essere l’ipotesi meno plausibile.


La sempre più aspra contesa irano-saudita, e il fatto che i due Paesi si trovano su fronti contrapposti, si ripercuoteranno inevitabilmente sulla situazione irachena e la complicheranno ulteriormente, piuttosto che favorirne un ricomponimento sulla base dell’unità nazionale e un’identità irachena indipendente.

Il prolungato stallo politico potrebbe portare all’insorgere di ulteriore violenza e instabilità, addirittura ad una “libanizzazione” del paese, ovvero una paralisi che potrebbe essere generata dalla crescita della frammentazione.

* Chiara Cherchi è dottoressa in Scienze politiche

Note:

1 Il processo di debaathificazione fu avviato dagli stessi americani all’indomani dell’invasione dell’Iraq. In un secondo momento Washington cambiò la propria strategia, allorché si rese conto che continuando a emarginare i sunniti rischiava di consegnare il paese nelle mani dell’Iran;

2 In assenza di un sostegno finanziario ai partiti da parte dello Stato, a causa del fatto che non esiste una legge che regoli la materia, l’ombra di gravi sospetti pesa sulle fonti di finanziamento dei partiti. Numerosi indizi e segnali indicano che tali finanziamenti provengono da paesi che hanno interessi (contrapposti) in Iraq;

3 Allawi nelle recenti elezioni ha ottenuto una risicata maggioranza, alcuni seggi in più della Coalizione dello Stato di Diritto del premier uscente Nuri al Maliki;

4 www.medarabnews.com;

5 In base a questo principio, la leadership politica spetta, in assenza di un imam ispirato divinamente, al faqih, cioè a colui che è esperto nella giurisprudenza islamica.

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