La geopolitica è una scienza controversa. Anche se è troppo presto per parlare di una rinascita duratura, anche se l’istituzionalizzazione universitaria si fa sempre attendere (al di fuori di qualche cattedra o centro di ricerca isolati), siamo in presenza di un vero movimento di fondo.

L’incertezza epistemologica e teorica permane. Non si conosce molto bene cos’è la geopolitica. In ogni caso, le sue molteplici definizioni sono o vaghe ed equivoche o contraddittorie. Al di là di questa incertezza, resta il bisogno, vagamente percepito, di una spiegazione globale. Il progresso delle scienze sociali ha come inevitabile controparte, la loro specializzazione, la loro atomizzazione: ogni specialista ne sa sempre di più, ma su un ambito sempre più ristretto. La geopolitica può essere vista come un tentativo di suggerire dei grandi quadri di riferimento che, in mancanza di una grande solidità teorica, hanno il merito di rendere intellegibile la massa dei fenomeni contemporanei e di definire degli orientamenti, positivi o negativi. Essa riprende, insomma, il programma che fu della sociologia ai suoi inizi. Nessuna obiezione potrà mai prevalere contro questa volontà di ordine e di comprensione globale dei fenomeni sociali.

Il XIX secolo è stato quello dello scientismo: la scienza trionfante pretendeva di poter spiegare tutto. Si è allora visto il proliferare di sistemi di spiegazione altrettanto dogmatici e deterministi uno dopo l’altro. Tra questi determinismi, tre hanno conosciuto, nel XX secolo, una fortuna particolare: il determinismo razziale, teorizzato da autori come Vacher de Lapouge, Chamberlain…e ripreso a sua volta dal nazional-socialismo tedesco; il determinismo economico, portato alla perfezione da Marx e dai suoi innumerevoli successori; il determinismo fisico o ambientale, teorizzato da diversi pensatori riuniti sotto la qualifica globale di geopolitica.

A priori, questi differenti determinismi sono esclusivi l’uno dell’altro, poiché ciascuno pretende di possedere la chiave del comportamento degli attori internazionali. Nella pratica, essi hanno spesso trovato degli accomodamenti. Il determinismo razziale si è così combinato col determinismo fisico, se non nei lavori di Haushofer, almeno nella vulgata che il regime nazional-socialista ne ha estratto: il popolo più dotato dalla natura ha la vocazione ad occupare tutto lo spazio designato dalla geografia. I collegamenti tra il determinismo economico ed il determinismo fisico sono più difficili da stabilire. A prima vista, i due sistemi di spiegazione sembrano incompatibili e hanno avuto tendenza a definirsi come nemici: la geopolitica tedesca è stata una reazione contro il pericolo bolscevico e la geopolitica è stata ufficialmente condannata nella Russia sovietica, per ragioni allo stesso tempo teoriche (il rifiuto di tutti i determinismi eccetto quello economico) e storiche (il confronto tra i due totalitarismi comunista e nazional-socialista).

Tuttavia, è possibile scoprire una matrice di ragionamento simile: senza negare la molteplicità dei fattori che intervengono nella vita sociale, tanto il marxismo quanto la geopolitica pretendono di collocare al centro dell’analisi un fattore determinante. E allo stesso modo in cui esiste un marxismo primario, dogmatico, ed un marxismo “evoluto”, che non fa più intervenire il determinismo economico se non « in ultima istanza », la geopolitica si declina su una gamma estremamente diversificata, che va dalla spiegazione tramite i soli dati geografici alla considerazione di tutti i dati dell’ambiente fisico o umano. D’altronde, qualche celebre autore marxista si è pericolosamente avvicinato alle acque torbide della geopolitica, basti pensare alle famose tesi di Karl Wittfogel circa il dispotismo idraulico[i].

Questa visione sarà giudicata semplicista dai geopolitici contemporanei, che si sforzano di promuovere una geopolitica complessa, lontana da ogni determinismo, impegnandosi a rendere conto della globalità di un sistema. Questa tendenza è stata in particolare illustrata in Francia, in maniera differente, da Yves Lacoste e la scuola di Erodoto, che ha resuscitato la disciplina dopo una lunga eclissi, e da François Thual la cui copiosa opera sulle costruzioni identitarie ed il desiderio di territorio ha suscitato una certa eco. Ma ci si scontra allora con l’obiezione centrale che era già quella che Fernand Braudel indirizzava alla geografia: «Se non vi è più un determinismo, non c’è più la geografia»[ii]. Discorso eccessivo, ispirato dal ricordo di dispute corporative risalenti, se non al diluvio universale, almeno ai vellutati alterchi tra Lucien Fevbre e la scuola di geografia umana di Vidal de la Blache e di Emmanuel de Martonne[iii]. Ma non è illecito trasporre l’obiezione alla figlia legittima, o adulterina, della geografia: se non c’è più determinismo, non c’è più geopolitica. In che cosa, in effetti, essa si distinguerebbe dalla geografia intelligentemente praticata? E se essa tiene in conto la globalità dei fattori, perché bisogna darle un titolo che inizia per geo-, e dunque rimandante ad un preciso ordine di fattori? Altrettante questioni che rinviano all’indeterminazione del campo e dello stato della geopolitica.

Una geopolitica mal conosciuta

Il fondamento geografico della politica e della strategia è noto da sempre, era già affermato da Sun Zi nel IV secolo a.C. e ritroviamo il tema sia coi teorici politici, con la giustificazione delle guerre di conquista, che con i geografi militari[iv]. Ma è nel XX secolo che la geopolitica si costituisce realmente: lo svedese Kjellen le dà il nome nel 1916 e diversi geografi forniscono, indipendentemente ma quasi simultaneamente, i suoi testi fondatori: Mackinder[v], con la sua celebre conferenza del 1904 sul cardine geografico della storia[vi]; Ratzel, con la sua Politische Geographie[vii], in attesa degli sviluppi tra le due guerre che culmineranno in Germania con la scuola del generale-dottore Karl Haushofer[viii], e nel mondo anglosassone, sempre con Mackinder, che fa il bilancio della prima guerra mondiale nel Democratic Ideals and Reality (1922), e poi abbozza le prospettive del secondo dopo guerra col suo non meno famoso articolo «The round world and the inning of the peace» (1943)[ix]. Gli Stati Uniti danno il cambio alla declinante Gran Bretagna (tanto sul piano pratico quanto su quello teorico) col più importante dei successori di Mackinder, Nicholas J. Spykman, professore a Yale, che pone il programma di azione globale degli Stati Uniti di fronte l’asse tedesco-nipponico in America’s Strategy in World Politics (1942)  prima di abbozzarne uno equivalente di fronte l’Unione Sovietica nell’opera postuma ed incompiuta The Geography of the Peace (1943)[x].

Seguirà poi un lungo periodo di discredito della geopolitica, dovuto tanto dal fatto della sua collusione con l’espansionismo hitleriano e giapponese, che dal surclassamento del fattore territoriale da parte del fattore economico durante i trente glorieuses (periodo tra il 1945 ed il 1973 caratterizzato da forte crescita economica per molti paesi sviluppati dell’OCSE, NdT). La ricca scuola americana si interrompe bruscamente alla fine degli anni ‘40[xi]. In Francia, il bigino del contrammiraglio Pierre Célérier, Géopolitique et géostrategie (1955, III ed. 1969) resterà per lungo tempo l’unico riferimento. Solamente a partire dagli anni ’80 inizierà un ritorno di consenso, grazie in particolare all’azione di geografi provenienti dall’estrema sinistra che toglieranno alla geopolitica la sua macchia originale: Peter Taylor e la sua rivista Political Geography in Gran Bretagna, Yves Lacoste e la sua rivista Hérodote in Francia. Questi sono i riferimenti di un quadro largamente accettato, ma sommario e, per dirla tutta, caricaturale. In realtà, il bilancio della geopolitica non è solo quello della passività dei geopolitici, è innanzitutto la constatazione della nostra immensa ignoranza, sia da un punto di vista storico che epistemologico.

Per una storia della geopolitica

Su un piano storico, le abituali presentazioni della geopolitica cadono nel frequente equivoco consistente nel ridurre una corrente di pensiero a qualche nome altisonante o, ancora, a ridurre pensieri complessi in qualche formula sonora, ma mal compresa e subito trasformata in caricatura. L’Heartland di Mackinder, le pan-regioni di Haushofer, il Rimland di Spykman…

Non è il caso di meravigliarsi, poiché la geopolitica si vuole operativa: non è una scienza pura, essa deve sfociare in un programma d’azione.

Si potrebbe applicarle la formula di Raymond Aron relativa al marxismo: «La dottrina contiene una teoria e fonda una propaganda». Ovviamente, sono gli aspetti semplificati della dottrina o anche la caricatura della propaganda che richiamano l’attenzione. Ma non è stato forse Mackinder a dare un incoraggiamento a questa deriva con la sua celebre formula: «Colui che domina la Heartland, controlla la Word Island, colui che domina la World Island, controlla il mondo»? Frase insensata e viziata nel suo enunciato stesso, con lo slittamento perverso tra to rule e to controle, ma che ha avuto una sorprendente fortuna. Ratzel non è stato forse all’origine dei peggiori eccessi hitleriani, col suo famoso Lebensraum, tradotto generalmente in spazio vitale? Tuttavia, André-Louis Sanguin ha mostrato, ma senza troppa eco, che Ratzel pensava piuttosto ad uno spazio di vita senza la connotazione razzista ed aggressiva che i suoi successori gli attribuirono. È dovere degli storici andare al di là dei luoghi comuni per ristabilire il contesto storico e la diversità di una corrente di pensiero. La geopolitica non fu unitaria: il solo scontro teorico tra la scuola anglosassone e la scuola tedesca basta a mostrarlo e perfino all’interno di queste scuole, si potevano trovare diverse sfumature (Mackinder vs Fairgrieve et Amery ; Haushofer vs Niedermayer…). Non lo è oggi: la geopolitica francese contemporanea offre un ventaglio ideologico completo, da Aymeric Chauprade a Yves Lacoste, passando per François Thual ed il generale Gallois.

Da cui la necessità di superare le figure emblematiche per ritrovare una quantità di autori, di riviste, di scuole nazionali cadute nell’oblio o marginalizzate dall’ostacolo ideologico. Nonostante la sovrabbondanza della letteratura sulla geopolitica, non si dispone di alcuna seria storiografia che permetta di avere un’idea del suo reale sviluppo. Il lavoro di censimento degli autori e delle scuole è certamente da fare. È condizione necessaria per una sorta di “pesatura globale” della geopolitica. Non si può in questa sede dare che qualche linea guida[xii].

La Francia, tradizionalmente reticente riguardo il determinismo geografico (preferendo il possibilismo teorizzato da Vidal de La Blache)[xiii], non ha fornito un contributo di prim’ordine alla geopolitica. Si è piuttosto posta in contrappunto al pensiero tedesco, con La France de l’Est di Vidal  de la Blache (1917), pubblicato in piena guerra per giustificare la rivendicazione di Alsazia e Lorena, o con Geopolitique (1936) di Jacques Ancel, che è una reazione di fronte alla crescita del pericolo nazional-socialista. Ma essa ha anche dato qualche prova di geopolitica di valore, ad esempio quella dell’ammiraglio Castex che, nel tomo V delle sue Théories Stratégiques – «la Terre contre la Mer» in De Gengis Khan à Stalin (1935)[xiv], ha proposto una visione dialettica dello scontro tra potenza marittima e potenza continentale, ben più ricca dell’unilateralismo anglosassone ereditato da Seeley (storico britannico oggi troppo dimenticato) e da Mahan. Ma si trovano anche delle vere e proprie scuole di geopolitica in Italia, attorno alla problematica mediterranea, dall’inizio del XX secolo fino all’interessante libricino dell’ammiraglio Di Giamberardino, Mediterraneo centro strategico del mondo (1942)[xv]; in Giappone con la Chiseigaku, rimasta più o meno sconosciuta a causa della lingua mentre ha conosciuto un forte sviluppo negli anni ‘30[xvi]; in America Latina, con una letteratura di una profusione sconcertante, capeggiata da qualche autore di alto valore, troppo poco conosciuto: il brasiliano Mario Travassos, maresciallo, il cui libro Projecao continental do Brasil (1931, 1938) è stato direttamente all’origine delle ulteriori politiche di colonizzazione dell’Amazzonia. Ha aperto una via che è stata seguita dai generali Golbery (Geopolitica do Brasil, 1952, 1967) e Meira Mattos (Projecai mundial do Brasil, 1960) e dal professor Theresinha de Castro. La scuola argentina è stata fondata dall’ammiraglio Segundo Storni, col suo libro Intereses Argentinos en el mar (1916) ed è continuata, con dei rischi, fino ai giorni nostri, ad esempio attraverso la rivista Estrategia du géneral Guglialmelli[xvii]. Il Cile, anch’esso, ha sviluppato una sua propria scuola: il generale Augusto Pinochet Ugarte è l’autore di un lodevole manuale di geopolitica (Geopolitica, 1964), sebbene egli sia noto per altre ragioni. Non c’è alcun paese dell’America Latina che sia sfuggito a questa infatuazione, compresa l’isolata Bolivia che ha sviluppato una produzione indigena, guidata da Alipio Valencia Vega[xviii]. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Tutto questo immenso corpus dovrà essere almeno trascurato prima di pretendere di dare un giudizio unico, ossia poco argomentato.

Una geopolitica mal definita

Ma il lavoro di censimento degli autori, di identificazione dei loro discorsi, non è che un aspetto del problema. Niente storia senza teoria, si dice spesso. E quanto maggiormente trova applicazione questa massima in geopolitica! In effetti, la questione centrale è sapere di cosa si parla: tutta la geografia politica è geopolitica? Oppure, al contrario, occorre limitare l’etichetta ai soli autori che ne fanno appello, riducendo così di molto (e abusivamente) il campo d’investigazione? Come sempre, la verità sta probabilmente nel mezzo, ma dove? La geopolitica non ha praticamente mai ricevuto una considerazione universitaria, così da non essere che una discendente più o meno illegittima della geografia. In ogni caso, essa non è una disciplina istituzionalizzata.

Potrebbe allora essere un campo d’investigazione? Sembra difficile disporre sotto la sua bandiera tutti i geografi (o altri) che si sono interessati ai rapporti tra lo spazio e la potenza, e di cui alcuni hanno categoricamente ricusato il concetto stesso di geopolitica.

Un metodo, forse? Saül B. Cohen, uno dei rari geopolitici americani degli anni ’60, ha censito non meno di sei metodi geopolitici[xix], confermando da allora la convinzione di Haushofer, il quale si era sempre rifiutato di scrivere un trattato di geopolitica: non vi è un metodo geopolitico in sé[xx]. La geopolitica fa uso di diversi metodi che utilizzano le scienze sociali e in particolare la geografia.

La soluzione più agevole non sarebbe allora di dire che la geopolitica non fu che un momento, poco glorioso, della geografia che si sarebbe compromessa col fascismo? Mackinder e Spykman non hanno mai rivendicato la denominazione e sarebbe per un abuso di linguaggio che li si qualificherebbe come geopolitici. Purtroppo, l’ostinazione di Yves Lacoste a rivendicare oggi l’appellativo geopolitica (e non è il solo) è sufficiente a rovinare questa soluzione troppo semplice. La geopolitica c’è sempre, il suo ritorno in auge da una ventina d’anni in numerosi paesi è un fatto incontestabile e ha anche generato una disciplina sorella (o filiale) quale la geostrategia, avente un certo sviluppo negli Stati Uniti con, tra gli altri, Colin Gray (ora in Gran Bretagna)[xxi], Zbigniew Brzezinski (che si inscrive molto di più, tanto per il suo approccio globale quanto per il suo dogmatismo, nella tradizione geopolitica che in quella della geostrategia a cui fa appello)[xxii].

Nel passaggio, si noterà che se lo sviluppo della geostrategia è recente a partire dal suo inizio ad opera del geografo americano John B. Cressey nel 1944, egli stesso ha ripreso senza saperlo un concetto preesistente a quello di geopolitica: la parola geostrategia è stata in effetti coniata da un autore italiano, il generale Giacomo Durando[xxiii], e dal 1846 è sopravvissuta nell’aera mediterranea: la si ritrova in spagnolo negli ’90 dell’Ottocento col colonnello Castaňos y Montijanos, poi nel 1932 in portoghese con un geografo militare di prim’ordine, il colonnello Miranda Cabral. Stessa constatazione per la geoeconomia, recentemente di moda con Edward Luttwak negli Stati Uniti, Pascal Lorot[xxiv] in Francia; tutti ignorano che essi non fanno che riprendere un concetto creato nel 1930 da un autore greco, Konstantin Sfryis (Geoikonomia tai ikonomia). Semplici esempi del lavoro che resta da fare per stabilire la genealogia intellettuale, condizione indispensabile per tutta la concezione comprensiva, come dirà Max Weber.

Ciò significa che ogni tentativo di definizione della geopolitica sarebbe, per il momento, prematuro. La parola si avvicina più a delle pre-nozioni care sia alla sociologia durkheimiana che ai concetti ereditati dalla filosofia, racchiusi in un intreccio rigoroso di definizioni, relazioni e derivazioni.

Scienza globale  scienza parziale?

L’inventore del termine, lo svedese Rudolf Kjellén, difende l’idea di una scienza totale dello Stato organico di cui la geopolitica non dev’essere che una componente. A fianco della geopolitica, prevedeva una scienza per la sfera demografica: la demo-politica; una scienza incentrata sulla struttura sociale: la socio-politica; una scienza incentrata sulle strutture economiche: l’eco-politica; ed infine una scienza politica in senso stretto, che egli curiosamente aveva inizialmente denominato politica di regime e che i suoi successori hanno più elegantemente ribattezzato krato-politica[xxv]. La geopolitica non era dunque che un elemento di una scienza molto più vasta.

Perché dunque la parte si è sostituita al tutto? È uno dei grandi problemi della storia delle idee contemporanee e non si può ancora, in assenza di sufficienti biografie e monografie nazionali o di categoria, che azzardare delle ipotesi incerte. Il progetto di una scienza totale dello Stato era troppo ambizioso, soprattutto quando Kjellén ne scriveva, non avendo alcuna possibilità di realizzazione. Successivamente, quando i progressi dell’epistemologia e della ricerca avrebbero potuto renderlo più credibile, la concezione organicista su cui si basava era passata di moda e lo Stato non era più necessariamente il perno dell’analisi globale: all’indomani dello Seconda Guerra Mondiale, la priorità era piuttosto data ai fattori economici da quel momento in poi percepiti come centrali, le questioni dei sociologi vertevano più che altro sull’eventuale declino delle ideologie (questione posta da Edward Shils dal 1956)[xxvi] e, più in generale, della politica.

Il problema di una scienza totale non si poneva quindi più negli stessi termini.

Geopolitica e geografia

Lasciando da parte la questione di una scienza globale, ritroviamo quella iniziale: perché la geopolitica piuttosto che la demo-politica o l’eco-politica? La risposta sembra legata all’orientamento ed all’istituzionalizzazione della scienza geografica in seno al mondo universitario. L’università non crea necessariamente le grandi correnti di pensiero nel mondo contemporaneo, ma dona loro una legittimità scientifica e le fissa per una lunga durata[xxvii].

La geografia, alla fine del XIX secolo, era una disciplina in pieno sviluppo, ben radicata nell’università ed i grandi fondatori della geopolitica (che avessero o meno rivendicato l’appellativo) erano spesso geografi (Ratzel in Germania, Mckinder in Gran Bretagna, Kiellén in Svezia). Essi hanno fornito un importante contributo poiché la loro disciplina li preparava, meglio delle altre, a questa comprensione dei grandi problemi mondiali.

L’economia, ugualmente in pieno sviluppo e completamente istituzionalizzata all’interno dell’insegnamento superiore, era piuttosto centrata sull’impresa (con l’analisi marginalista di Alfred Marshall), dunque meno sensibile a ciò che noi chiamiamo oggi la teoria macro-economica. La scienza storica, allora dominata dalla scuola positivista, era soprattutto interessata all’oggettività delle fonti e ripugnava le sintesi troppo inglobanti, che giudicava non scientifiche. Quanto alla demografia o alla scienza politica, la loro istituzionalizzazione era ancora embrionale e la seconda era piuttosto rivolta verso i problemi interni agli Stati. Non si interessava molto delle relazioni internazionali, che rimarranno ad appannaggio dei giuristi fino agli anni ’30 e ‘40[xxviii].

Ma questo relativo progresso della geopolitica, se ha consentito lo slancio iniziale nei primi decenni del XX secolo, le si è ritorto contro quando essa stessa ha preteso di acquisire una legittimità accademica. I geografi non hanno accettato di vedersi soppiantati da geopolitici più vicini al potere politico, ma meno sensibili alle sfide di obiettività e di indipendenza dell’analisi. Per la corporazione dei geografi universitari, la geopolitica era una dottrina al servizio di un intento politico, più che una teoria suscettibile di fondare un campo accademico del sapere. Tale resistenza corporativista è stata coronata da successo: la geopolitica non ha mai acquisito un vero e proprio status accademico. Anche nella Germania nazista, Haushofer ha ottenuto dei mezzi sostanziali, una grande notorietà, ma la corporazione dei geografi non si è mai schierata sotto la sua bandiera. Le cattedre di geopolitica sono state create, quando ve ne sono state (in particolare in America latina), piuttosto nell’ottica delle scuole di guerra, ovvero dell’insegnamento militare superiore.

Geopolitica e politica

Quest’ambiguità non ha solamente giocato contro la geopolitica nelle sue relazioni con l’università. Troppo poco scientifica agli occhi degli universitari, essa lo è stata invece troppo agli occhi del potere politico, che non se ne è mai servito se non quando corrispondesse alle sue proprie concezioni. È oggi noto che Haushofer non è mai stato l’ispiratore del programma hitleriano e che le sue relazioni con la gerarchia nazista sono state quantomeno complicate: carico di onori e di sussidi da una parte, è stato marginalizzato dall’altra, quando la sua rivendicazione del Tirolo popolato da germanofoni andava incontro all’alleanza con l’Italia fascista o quando la sua arringa per un blocco continentale germano-sovietico urtava con l’ossessione anti-bolscevica di Hitler[xxix].

Questa ambiguità si ritrova in tutte le scuole di geopolitica. La Chiseigaku (termine giapponese per geopolitica) ha teorizzato l’idea di sfera di co-prosperità, ma questa è stata concepita prima negli ambienti militari e la Chiseigaku non è intervenuta che a posteriori. Inoltre, se essa ha messo ben in luce le conseguenze diplomatiche e strategiche di questa politica, incontrando il punto di vista della marina, non è però mai riuscita a farle accettare all’esercito, che è rimasto fino in fondo dominante nell’apparto militare giapponese. Ne è risultata una sottostima del rischio di guerra e, una volta iniziata, una sottostima dello scenario Pacifico (ciò che gli occidentali chiamano guerra del Pacifico era per i giapponesi la guerra della Grande Asia) che si è rivelato fatale[xxx].

Non si può citare che un solo caso realmente convincente di visione geopolitica  avente fondato una politica coerente: è quello della colonizzazione dell’Amazzonia, esito diretto dei lavori della scuola del generale Travassos e dei successori, ma, occorre sottolinearlo, questa scuola era quasi esclusivamente militare ed i geografi civili, tranne qualche eccezione (il professor Therezhina de Castro), sono rimastoi molto in disparte.

Questo esempio brasiliano è tanto più significativo giacché i suoi autori hanno tentato un reale sforzo teorico; il generale Golbery do Couto e Silva ha realmente tentato di definire la geopolitica e la geostrategia[xxxi]. Ma essi non avuto un’eco al di fuori dell’America latina e, col tempo, è lecito domandarsi se essi non abbiano sviluppato ciò che potremmo chiamare una strategia di sostituzione: non potendo disporre di mezzi moderni della potenza (la tecnica e l’economia), essi hanno ripiegato sul solo fattore di cui il loro paese disponesse in abbondanza: lo spazio. Non erano i soli a procedere così. Si potrebbero citare numerosi geopolitici «del povero»: le teorie sul triangolo strategico portoghese a cardine dei mondi europeo, atlantico e mediterraneo o punto di collegamento tra gli spazi nord-atlantico, sud-americano, europeo e africano procedono con le stesse mosse[xxxii].

Qui la questione diviene più globale e nessun discorso geopolitico può sfuggirvi: si può fissare la potenza, concetto per definizione dinamico, su di un centro statico? Era già l’ostacolo con cui si scontrava Mackinder con la sua zona perno, la sua Heartland che egli pretendeva di fissare, nel 1904, negli andamenti eurasiatici, nelle zone di contatto tra il mondo nomade ed il mondo sedentario. Il problema è che si trattava di una zona desertica e ghiacciata, quasi inabitabile e di un interesse strategico discutibile, se non per il ricordo delle invasioni mongole o timuridi. Se ne aveva d’altronde ben conoscenza e, nel suo ultimo grande scritto, il famoso articolo del 1943, ha posto Hearthland verso l’ovest, per farla così coincidere coi confini della Russia sovietica. Questo leggero spostamento significava che alla logica geografica del 1904, egli sostituiva un’altra logica strategica, più mobile. Il problema si accentua ancora coi suoi successori, quando questi pretendono di conciliare l’analisi geopolitica e l’analisi culturalista, nonostante siano, se non inconciliabili, almeno largamente contrapposte. La prima vuol definire delle costanti mentre la seconda sottolinea la variabilità dei comportamenti e delle situazioni. La razionalità geopolitica si rivela problematica.

Bisogna incolpare il retaggio del fissismo geografico che Spykman riprenderà ancora durante la seconda guerra mondiale quando abbozzerà la prospettiva di un cambiamento di alleanze per far fronte ad un eventuale egemonia sovietica dopo-guerra: «I regimi cambiano, le dittature passano, ma le montagne sono sempre al loro posto». Concezione riducente la quale non tiene conto del fatto che il rapporto allo spazio si modifica in funzione dei mezzi disponibili, come aveva già intuito il geografo militare russo Yazikov negli ’30 dell’Ottocento, intuizione sviluppata un secolo più tardi dall’ammiraglio Castex.

Geopolitica e determinismo

Ciò non vuol dire che la geopolitica non sia che una razionalizzazione dello spirito di conquista e condannata al dogmatismo: se i padri fondatori hanno concepito una geopolitica alquanto olimpica, che ragiona sulla scala dei continenti, degli oceani e alla fine del mondo, senza molto riguardo per la complessità del reale, le tendenze attuali si mostrano più sensibili alle particolarità del terreno, alle relazioni tra territorio e cultura, alle differenze di scala… Soprattutto, mentre si ragionava prima di tutto in vista della crescita dello spazio, la lezione principale del XX secolo è stata che occorreva pensare in termini di organizzazione piuttosto che di estensione.

Tutt’al più è lecito pensare che la geopolitica sia un pensiero determinista, anche se Yves Lacoste rifiuta decisamente tale idea. Essa stabilisce una relazione privilegiata tra lo spazio e la politica. Anche in riferimento al suo stesso nome, la geopolitica pone al centro della sua analisi il fattore spaziale e gli conferisce un’influenza privilegiata, certamente multiforme, in concorrenza con o parzialmente annichilita da altri fattori, ma che genera ugualmente, «in ultima istanza» se si vuole, se non delle relazioni meccaniche, almeno delle costanti. Da qui, il sottotitolo del trattato di Aymeric Chauprade, Geopolitique (2001), in cui si trova un’allusione alle «ferree leggi della geopolitica». Rifiutare questo legame significa svuotare la geopolitica di tutto il suo contenuto specifico per farne una scienza globale, come afferma Marcel Mauss: «Chiamo sociologia ogni scienza matura». Le definizioni vengono così relativizzate e ridotte ad un semplice marchio che ciascuno può scegliere a suo modo, soluzione un po’ troppo semplice.

La geopolitica oggi

La geopolitica è tornata in forze negli stati Uniti dopo una completa dissoluzione iniziata a partire dalla fine degli anni ’40. Serve, secondo Zbigniew Brzezinski, ad affermare la fondatezza della supremazia degli Stati Uniti a livello mondiale, o secondo Samuel Huntington, ad accreditare l’idea di uno «scontro delle civiltà», discorso oggi dominante, anche se la globalizzazione suscita delle tesi antagoniste. In Europa occidentale, partito da Francia e Gran Bretagna, il movimento ha raggiunto gli altri paesi europei negli anni ’90: troviamo un rivista Geopolitika in Grecia[xxxiii], vari lavori di geopolitica in Italia (dalla rivista Limes alle opere del generale Carlo Jean)[xxxiv]. Sulle rovine della scomparsa Unione Sovietica, la Russia cerca una nuova via: l’eurasismo di Alexandre Douguine gliene suggerisce una, che riprende le tematiche geopolitiche più tradizionali. Anche se è troppo presto per parlare di una rinascita duratura, anche se l’istituzionalizzazione universitaria si fa sempre attendere (al di fuori di qualche cattedra o centri di ricerca isolati), siamo in presenza di un vero e proprio movimento di fondo.

Il giudizio che si può dare sul suddetto movimento varia in funzione delle inclinazioni ideologiche e scientifiche. Alcuni deploreranno il ritorno dei vecchi demoni o almeno il ritorno a delle spiegazioni monocausali che non dovrebbero più aver validità, mentre tutte le scienze tentano di dimostrare la complessità del reale. Altri sottolineano la mutazione di questa nuova geopolitica, che è per quella vecchia ciò la scuola degli Annali è stata per la storiografia positivista. I paradigmi sono cambiati, la visione olimpica dei grandi fondatori ha ceduto il posto a degli approcci più acuti, meno centrati sui soli aspetti fisici per prendere in considerazione la globalità della posizione strutturale degli attori; col rischio di riscontrarsi con lo scoglio precedentemente segnalato: perché qualificare come geopolitica una spiegazione globale? È sufficiente il riferimento alla scena mondiale per giustificare tale definizione? Paul Kennedy è uno storico o un geopolitico quando analizza il declino inevitabile delle grandi potenze? Samuel Huntington ha abbandonato la scienza politica per ricongiungersi al campo della geopolitica per parlare dello scontro di civiltà?

L’incertezza epistemologica e teorica permane. Non si sa troppo bene cosa sia la geopolitica. In ogni caso, le sue molteplici definizioni sono o vaghe ed equivoche, o contraddittorie. Yves Lacoste, colui che ha spinto più lontano la riflessione geopolitica in Francia a partire dal suo celebre saggio La géographie ça sert d’abord à faire la guerre (1976), sembra aver rinunciato all’idea di un trattato di geopolitica che tenterebbe di fissare una materia indubbiamente inafferrabile.

Al di là di tale incertezza, rimane il bisogno, vagamente percepito, di una spiegazione globale. Il progresso delle scienze sociali ha per inevitabile controparte la loro specializzazione, la loro atomizzazione: ogni specialista ne sa sempre di più, ma in un dominio sempre più ristretto. La geopolitica può essere compresa come un tentativo di sottrarsi alla ferrea legge della deflagrazione del sapere, per suggerire dei grandi quadri di riferimento che, in mancanza di una grande solidità teorica, hanno il merito di rendere intellegibile la massa dei fenomeni contemporanei e di definire degli orientamenti, positivi o negativi. Nessuna obiezione potrà mai prevalere contro questa volontà di ordine e di comprensione globale dei fenomeni sociali.

Dr. Hervé Coutau-Bégarie, Strategic Impact n°2, 2006.

• Questo articolo deriva da due studi preliminari, «Bilancio della geopolitica», in Geopolitica e conflitti nel XX secolo, atti del XXVII Colloquio Internazionale di Storia Militare, Atene, 2001, e «L’avventura della geopolitica», Relazioni internazionali n°109, giugno 2002, in attesa di una molto improbabile sintesi.

Traduzione di Matteo Sardini


[i] Karl Wittfogel, Le despotisme oriental, Minuit, 1960.

[ii] Fernand Braudel, Une leçon d’histoire, Arthaud, 1985.

[iii] Cf. H. Coutau-Bégarie, Le phénomène Nouvelle histoire : Grandeur et décadence de l’École des Annales, Économica, 2e éd., 1989.

[iv] Cf. H. Coutau-Bégarie, Traité de stratégie, ISC-Économica, 4e éd., 2003.

[v] In Mackinder, W.H.Parker, Mackinder : Geography as an aid to statecraft, Oxford, Clarendon Press, 1982 et Brian W. BLOUET, Halford Mackinder : A Biography, College Station (Texas), A & M Univ. Press, 1987.

[vi] Halford J. Mackinder , « Le pivot géographique de l’histoire », Stratégique n°55, 1992-3, pp. 11-29.

[vii] Friedrich Ratzel, Géographie politique, Genève, Éd. régionales européennes, 1988 (traduzione abbreviata; manca in particolare il testo circa «il mare come fonte di grandezza dei popoli»).

[viii] Cf. i lavori di Michel Korinman, Continents perdus: Les précurseurs de la géopolitique allemande, Économica, 1991 e Quand l’Allemagne pensait le monde: Grandeur et décadence d’une géopolitique, Fayard, 1989.

[ix] Halford J. Mackinder, « Une vision globale du monde pour le conquête de la paix », Stratégique n°57, 19951, pp. 7-20.

[x] Non esiste ancora una biografia intellettuale di Nicholas Spykman.

[xi] In francese, il riferimento più affidabile e più completo sulla geopolitica negli Stati Uniti è l’articolo di un ricercatore italiano, Marco Antonsich, «De la Geopolitik à la Geopolitics : Transformation historique d’une doctrine de puissance», Stratégique n°60, 1995-4, pp.53-87.

[xii] Segnaliamo ugualmente due articoli fondamentali: Ladis K.D. Kristof, « The Origins and Evolution of Geopolitics », Journal of Conflict Resolution, 1960 e Marco Antonsich, « Itinerari di geopolitica contemporanea », Quaderni del dottorato di riserca in geografia politica, 1995.

[xiii] Rieditato con una ricca prefazione di Béatrice Giblin, La Découverte, 198…

[xiv] Amiral Castex, Théories Stratégiques, edizione completa, ISC-Économica, 1997, 7 volumi.

[xv] Ezio Ferrante, « Domenico Bonamico et la naissance de la pensée géopolitique navale italienne » e Marco Antonsich, « La géopolitique méditeranéenne de l’Italie fasciste » in H. Coutau-Bégarie, La pensée géopolitique navale: L’évolution de la pensée navale V, ISC-Économica, 1995, pp.151-162 et 163-190.

[xvi] Kyoichi Tashikawa, « La politique de la sphère de co-prospérité de la grande Asie orientale au Japon », Stratégique n°81, 2001-1, pp. 155-165.

[xvii] H. Coutau-Bégarie, « Géopolitique théorique et géopolitique appliquée en Amérique latine », Hérodote n°57, avril-juin 1990, pp. 160-179.

[xviii] Panorama bibliografico molto completo in John Child, « Geopolitical Thinking in Latin America », Latin American Research Review, 1976, pp.84-111.

[xix] Saül B. Cohen, Geography and Politics in a World Divided, Londres, Methuen, 2e ed, 1973.

[xx] Tra i saggi di riflessione su questo punto, François Thual, Méthodes de la géopolitique, Ellipses, 1996.

[xxi] Che ha dato lo slancio iniziale col suo libello Geopolitics of Nuclear Era, New York, Crane Russak, 1977.

[xxii] Zbigniew Brzezinski, Le grand échiquier, Bayard, 1998.

[xxiii] Ferruccio Botti, « Le concept de géostratégie et son application à la nation italienne dans les théories du général Durando (1846) », Stratégique n° 58, 1995-2, pp.121-137.

[xxiv] Pascal Lorot (dir.), Introduction à la géoéconomie, Économica, 1998.

[xxv] Cf. Lars Wedin, « Kjellèn. La naissance de la géopolitique et la pensée navale suédoise », in H. Coutau-Bégarie, La pensée géopolitique navale : L’évolution de la pensée navale V, ISCÉconomica, 1995, pp.227-244.

[xxvi] Cf. Pierre Birnbaum, La fin du politique, Seuil, 1980.

[xxvii] Si pensi semplicemente al trionfo della sociologia durkhemiana sui suoi rivali, come la psicologia sociale di Théodule Ribot o Gustave Le Bon o la sociologia di Le Play e Worms, che hanno avuto una grande influenza nella loro epoca, ma che non avuto una posterità.

[xxviii] Il libro fondatore è quello di Hans J. Morgenthau, Politics among Nations, 1948. prima di lui, Spykman aveva apportato un contributo importante con International politics, 1933.

[xxix] Cf. le prefazioni di Hans Adolf Jacobsen e Jean Klein à Karl Haushofer, De la géopolitique, Fayard, 1987.

[xxx] Cf. H.P. Willmott, La guerre du Pacifique 1941-1945, Altrimenti, coll. Atlas des guerres, 2001.

[xxxi] Cf. Golbery do Couto e Silva, Geopolitica do Brasil & Conjuntura politica nacional o poder executivo, Rio de Janeiro, Libraria Jose Olympio, 3e ed., 1980.

[xxxii] Cf. H. Coutau-Bégarie, Traité de stratégie, op.cit., pp.751-754.

[xxxiii] Ioannis Loucas ha scritto un saggio di geopolitica (1999), purtroppo riservato agli eruditi (molto rari) capaci di leggere il greco moderno.

[xxxiv] Not. C. Jean, Geopolitica, Rome, Laterza, 1995. Cf. M. Antonsich, Geografia politica e Geopolitica in Italia dal 1945 ad oggi, Trieste, Quaderni di ricerca del dottorato in Geografia Politica, 1996.




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