La Palestina, in data 29 novembre 2012, ha assunto lo status di Stato osservatore nelle Nazioni Unite (1). In una sessione storica dell’ONU, esattamente 65 anni dopo il piano per la spartizione della Palestina, l’Assemblea Generale ha votato a grande maggioranza per riconoscere la Palestina come Stato non membro. A favore del sì hanno votato 138 Paesi, 41 astenuti e 9 contrari tra cui alcuni dei soliti noti: Israele, Stati Uniti d’America, Canada, Repubblica Ceca (unico Stato europeo contrario), Isole Marshall, Palau, Nauru e Micronesia. Il voto è caduto oltretutto in una giornata particolare, in quanto il 29 novembre è la giornata per la solidarietà del popolo palestinese, una ricorrenza che richiama il 29 novembre 1947 quando venne varata la risoluzione che avrebbe dovuto creare i due Stati ma che invece aprì le porte alla nascita dello Stato d’Israele. (2)

Sono passati 37 anni da quando per la prima volta venne rivendicato il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese in seno all’ONU da parte di Yasser Arafat che portò nel 1974 sotto i riflettori della politica internazionale la questione palestinese.

Dopo l’annuncio del voto, Israele per ritorsione ha trattenuto le tasse destinate all’ANP in base agli accordi di Parigi e ha comunicato che intende costruire migliaia di nuovi insediamenti a Est di Gerusalemme e in Cisgiordania, ostacolando così il processo di pace (3). Il congelamento di ogni attività edilizia dentro le colonie esistenti o la costruzione di nuove, era l’unica precondizione posta dal Presidente palestinese per tornare al negoziato di pace.

Ogni mese, sulla base dei Protocolli stabiliti a Parigi nel 1994, Tel Aviv trasferisce decine di milioni di euro derivanti dalle tasse destinate ai mercati palestinesi e fatte passare dai porti israeliani.(4) Gli annunci del governo Netanyahu sono stati duramente criticati sia dall’Unione Europea sia dalla Casa Bianca che tuttavia non hanno intenzione di approvare delle sanzioni concrete contro Israele.

Sembra come se Tel Aviv si voglia beffeggiare della decisione di ben 138 Stati che hanno approvato l’ingresso della Palestina nell’ONU e abbia deciso di prendere dei provvedimenti come ritorsione; i nuovi insediamenti sono crimini di guerra, da aggiungere alla lista delle infrazioni commesse dal 1967 ad oggi. Abu Mazen ha detto infatti: “Il riconoscimento dell’Onu ha trasformato la Palestina in uno Stato sotto occupazione e costringerà il mondo a ritenere Israele responsabile dei crimini commessi fino ad oggi”. La nozione di Stato sotto occupazione  “sfida la tesi israeliana secondo cui si tratta di un territorio conteso”.

La decisione dell’ONU riconferma il diritto storico dei Palestinesi a governarsi in un proprio Stato indipendente, preambolo alla soluzione dei due Stati, ed è forse questo che preoccupa maggiormente Israele. Con questo riconoscimento l’Autorità palestinese ha deciso di portare la sua lotta in difesa di un proprio Stato su un altro livello che ridà a questa lotta dignità e legittimità agli occhi della comunità internazionale.

Abu Mazen ha dichiarato: “La riconciliazione nazionale è necessaria per raggiungere la liberazione dall’occupazione israeliana e nei prossimi giorni verranno fatti passi per la riunificazione di tutte le altre fazioni palestinesi”:

Il clima seguito alla votazione rimane teso e bellicoso, senza contare che si è arrivati all’Onu con un conflitto terminato da poco. Le ricostruzioni fanno partire l’escalation della tensione dal 14 novembre, quando un razzo israeliano ha colpito a Gaza l’autovettura di Ahmed Jabari provocandone la morte. Jabari era il leader carismatico delle brigate Ezzddin al Qassam e braccio armato di Hamas. Con la sua uccisione, la forze israeliane hanno dato via all’operazione “Pilastro di difesa” o anche denominata “Colonna di fumo”. (5)

L’ammissione della Palestina nell’Onu sembra un bagliore di speranza nella polveriera del Medioriente. Prima della votazione all’ONU, si è giunti quasi alla guerra nella Striscia di Gaza che è stata sotto attacco da parte degli Israeliani. Quando Israele decide di attaccare non è mai per caso. Formalmente Tel Aviv ha sostenuto che la loro non è stata un’aggressione, ma una riposta ai razzi Faijr-5 palestinesi che hanno colpito i territori israeliani.

Si potrebbe anche credere che gli Israeliani abbiano reagito ad un attacco palestinese. Se anche fosse così la rappresaglia è stata del tutto sproporzionata, infatti è stata condannata a livello internazionale, per i Palestinesi il numero delle vittime è stato 170 (il numero varia a seconda delle fonti) inclusi bambini e donne, invece per gli Israeliani 5.

La popolazione palestinese non solo ora, ma da anni viene massacrata dagli Israeliani,1200 morti a Gaza solo nel 2009, più altri 2000 in Cisgiordania, a fronte di 15 morti israeliani provocati in otto anni dai razzi di Hamas. Israele è quasi impenetrabile dai razzi di Hamas in quanto è dotata del sistema di difesa quasi perfetto ossia Iron Dome, il che spiega come la maggior parte dei razzi palestinesi sono stati intercettati, circa 60 sono arrivati vicino ai centri abitati.

In realtà le motivazioni alla base dell’attacco sono molteplici. Quelle più ovvie sono: l’avvicinarsi delle elezioni parlamentari israeliane quindi Benjamin Netanyahu ha cercato di garantirsi la propria vittoria elettorale alla Knesset attraverso l’attacco a Gaza, inoltre sicuramente con l’aggressione hanno cercato di dissuadere i Palestinesi di proseguire con la strada del riconoscimento all’ONU. L’entrata della Palestina anche solo da Stato osservatore apre le porte dei trattati e organizzazioni internazionali, tra cui la Corte Penale Internazionale, a cui la Palestina potrebbe ricorrere contro Israele per i crimini di guerra commessi.

Oltre a questi motivi di carattere politico, ne vediamo altri di carattere militare e strategico ossia: Tel Aviv vuole porre fine al consolidamento delle forze della resistenza a Gaza, eliminando i leader militari e politici ribelli (infatti hanno ucciso Ahmed Jaabari), distruzione del materiale missilistico che la Resistenza ha accumulato dall’Operazione Piombo Fuso e testare i governi appena usciti dalla “ primavera araba”, per assicurarsi della validità della loro transizione.

Se dovessimo considerare gli avvenimenti nel contesto geopolitico della regione, il quadro si complica alquanto. Gli eventi di Gaza sono legati alla Siria e alle manovre regionali degli Stati Uniti contro l’Iran e il suo sistema di alleanze regionale.

Iran, Siria ed Hezbollah hanno aiutato la Resistenza Palestinese, infatti il razzo Faijr-5 è di fabbricazione iraniana ed è stato fornito da Teheran. Ritorna dunque in gioco l’incubo numero uno del Premier Israeliano Netanyahu, quell’Iran contro il quale Israele avrebbe già pronto un piano d’attacco che rimane in sospeso per il tergiversare americano. Appare pertanto logico che il vero bersaglio di questa aggressione a Gaza fosse il legame sempre più forte tra gruppi della resistenza palestinese e l’Iran, nonché quello di testare la capacità di reazione dei Paesi dell’area e soprattutto di Teheran, con cui gli Israeliani conducono da anni una “ guerra sporca”, tramite attacchi informatici, uccisione di scienziati ecc., il tutto per bloccare il programma nucleare iraniano.

L’Iran si accredita come difensore della causa palestinese e lascia intendere che nel caso di un attacco a Teheran, sia da Gaza, dove operano gruppi filo-iraniani, che dal Libano, dove è attivo Hezbollah partirebbe una prima importante risposta. Gli Israeliani prima di cominciare la vera e proprio operazione contro Gaza, hanno bombardato il 23 ottobre la fabbrica di armi “Yarmouk”, situata nella capitale del Sudan Khartoum, convinti che lì fossero assemblati i razzi Faijr-5 di provenienza iraniana, con l’obiettivo di smantellare le armi destinate a Gaza.

Anche la Hezbollah libanese ha appoggiato la Palestina, utilizzando una speciale unità dedicata all’armamento dei Palestinesi, riforniva la Striscia di Gaza con alcuni dei propri razzi a lunga gittata. (6)

Tutto questo è avvenuto mentre Arabia Saudita, Qatar e Turchia hanno invece armato le milizie antigovernative siriane. Sembra quasi ironico che due Paesi come Arabia Saudita e Qatar vogliano deporre il tiranno Assad e garantire la democrazia. Il Qatar è soprattutto una grande base militare americana, la più grande esistente fuori dagli Stati Uniti. Ed inoltre è il regno di un piccolo satrapo di stampo feudale e teocratico. Quanto ai diritti umani e civili si può immaginare. La situazione dell’Arabia Saudita non è diversa, si tratta di una monarchia, e il rispetto dei diritti umani è considerata molto al di sotto degli standard occidentali, non parlando dei diritti delle donne.

Questi due Paesi entrambi con “alti standard di democrazia” sono i più grandi alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente. Sorge spontanea una domanda come possono costoro dare lezioni di democrazia alla Siria e Assad ?

Assistiamo ad una partita a scacchi geopolitica, dove da un lato siedono i cosiddetti moderati che sono identificati con i dittatori del deserto feudale Gulf Cooperation Council (GCC),la Giordania e la Turchia, dall’altro lato della scacchiera si contrappone il Blocco della Resistenza composto da Iran, Siria ed Hezbollah, il cosiddetto fronte del rifiuto palestinese, e sempre più l’Iraq. Particolare è la posizione dell’Egitto con Morsi, che sta mantenendo formalmente una posizione neutrale.

Dopo il cambio di regime in Tunisia, Egitto e Yemen, ma ai quali di certo non è corrisposto il miglioramento delle condizioni di vita delle rispettive popolazioni e non vi è stata alcuna svolta democratica, dopo la devastazione compiuta dalla Nato in Libia, ecco che la geopolitica del caos si è imbattuta in Siria in un muro per ora invalicabile.

La grande operazione mediatico-militare nota come Primavera Araba, che da due anni ha spazzato via vecchi regimi e determinato l’ascesa di nuovi attori politici, messo in crisi dinastie e fatto esplodere tutte le contraddizioni che animano la regione più instabile del globo, è costretta ad operare in Siria un brusco ripiegamento di rotta, soprattutto per il fatto che Cina e Russia hanno posto il veto all’Onu per un intervento militare. La Siria viene considerata dagli Americani come la pedina del domino, che doveva cadere e non è caduta.

Tutto quello che era possibile tentare per disarticolare l’unità interna del Paese e destabilizzare il quadro politico è stato tentato, ma invano. In tutti i modi hanno cercato di smembrare la Siria, finanziando a piede libero l’esercito siriano libero contro l’esercito regolare siriano.(7) Una grande importanza hanno rivestito i media che hanno dipinto la situazione come se in Siria si stesse combattendo un’altra guerra tra buoni e cattivi, tra pacifici manifestanti, armati fino ai denti dai Sauditi e dagli Americani, e i feroci militari fedeli ad Assad. Se ne accorto anche lo stesso Assad della campagna mediatica messa in piedi per distorcere le informazioni riguardo alla reale situazione siriana, infatti ha detto: “Sul terreno siamo noi i più forti (…) C’è un attacco dei media contro di noi e loro possono essere più forti nella blogosfera, ma noi vogliamo vincere(…) sul terreno e nella blogosfera”.(8)

C’è tutto quest’accanimento e complottismo perché la Siria di Assad ha un ruolo fondamentale nella regione, dato che la Repubblica siriana, se ha sempre appoggiato la causa palestinese e anche Hamas, non ha mai avuto neanche particolari pregiudizi nei confronti degli Sciiti, al punto di fungere da tramite tra Hezbollah ed Iran.

Non a caso la Siria è forse stato il Paese che con maggiore coerenza si è opposto alla prepotenza sionista, tanto che a giudizio di Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, il fondamento del regime siriano è la lotta contro Israele, nonché il sostegno alla resistenza in Libano e in Iraq contro gli Stati Uniti. È importante ricordare come il sostegno fornito da Siria, Hezbollah ed Iran sia un tabù tra i sostenitori delle forze antigovernative in Siria, che sostengono che l’aiuto è stato fornito per ”ripulire” Assad e i suoi sostenitori.

Stanno cercando di cambiare il regime di Siria perché, se Assad dovesse cadere, il regime nuovo non potrebbe fare a meno dell’aiuto americano, e in questa maniera gli USA stabilirebbero un nuovo ordine nella regione, basato sulla divisione etnica e religiosa. Di questo sono ben consapevoli sia i Russi sia i Cinesi per questo tentano di evitare un ingresso diretto della NATO. Infatti non è un caso che gli Americani sostengono la necessità di inviare soldati in Siria, per impadronirsi delle armi chimiche prima che cadano in mano ad Hezbollah, e non è neppure casuale che i cosiddetti ribelli siriani compiano numerose azioni che di base favoriscono gli Israeliani, danneggiando strutture militari che possono solo servire contro nemici esterni.

L’Occidente con Israele e le Monarchie Sauditi cercano di destabilizzare l’area a favore delle forze occidentali, tutto ciò per ora gli è difficile perché occorrerebbe un cambio di regime in Iran, che non sembra possibile in quanto la Repubblica Islamica nonostante le contraddizioni interne è ben stabile dal punto di vista politico, che portasse anche all’isolamento del Hezbollah. È difficile immaginare in Iran un sovvertimento di regime come avvenuto negli altri Paesi della “Primavera Araba”.

Per questo risulta di fondamentale importanza la caduta di Bashar al-Assad e cambio del regime in Siria. La partita geopolitica non deve essere persa in Siria , in quanto l’obiettivo è spezzare il blocco della Resistenza, e far sì che la politica sionista abbia la meglio e che vinca la geopolitica americana in Medio Oriente. Prima è il turno della Siria poi degli altri tasselli del domino, incluso l’Iran. Per questo anche il futuro della Palestina dipende da come si evolverà la situazione in Medio Oriente, in particolare i conflitti che vedono contrapporsi Damasco a Doha, e Teheran a Tel Aviv.

Quello che stanno cercando di fare gli Americani e gli Israeliani è di staccare Hamas dal blocco della Resistenza e iniziare una guerra civile musulmana. Stanno utilizzando la strategia del divide et impera, infatti significativa è stata la visita dell’emiro del Qatar a Gaza, un tentativo di corruzione basato sui petrodollari, e in questa maniera vogliono presentare l’Iran e i suoi alleati come ripiegati nell’alleanza sciita per dominare i Sunniti. Così Iran, Hezbollah, Iraq con l’amministrazione Nuri al-Maliki, e Assad (un alawita sempre indicato come sciita dagli Occidentali) vengono ritratti come i nuovi oppressori dei Sunniti, che vengono rappresentati dalla Turchia e dall’Egitto coi Fratelli Musulmani.

Inutile sottolineare che sia Turchia sia Egitto si stanno avvicinando pericolosamente agli Stati Uniti e ad Israele.

L’Egitto in particolare si trova in una posizione spinosa. Washington cerca di utilizzare il Cairo per controllare Hamas, infatti è il Cairo che ha stabilito il cessate il fuoco tra Israeliani e Palestinesi, però Morsi durante l’aggressione israeliana ha continuato il blocco di Gaza. L’Egitto tenta di muoversi su più fronti, sia di compiacere Stati Uniti ed Israele, sia aprendo alla Palestina. Morsi, oltre ad essere Presidente dell’Egitto, è membro dei Fratelli musulmani, da cui deriva Hamas, che speravano nel momento di crisi avrebbero avuto più aiuto dai Fratelli Musulmani. Così non è stato in quanto all’Egitto interessa la pace con Israele. Le priorità strategiche del Cairo –preservare un buon rapporto con Israele, evitare che la questione palestinese diventi una questione egiziana per via della Striscia di Gaza-sono state preservate. Gli incontri tra Egitto, USA ed Israele, indicano una tendenza di avvicinamento egiziano all’Occidente.

Il mantenimento dell’equilibrio geopolitico in Medio Oriente dipende dalla capacità d’organizzazione del blocco della Resistenza, in particolare della Siria che è il centro del nazionalismo arabo e della lotta contro il sionismo, rappresentando l’anello di congiunzione tra Iran, Hezbollah e Hamas.

 

*Natalya Korlotyan è dottoressa in Scienze Internazionali e Istituzioni Europee (Università Statale di Milano)

 

 

  1. Risoluzione adottata dall’Assemblea generale: www.unispal.un.org
  2. Haaretz, “In historic vote, Palestine becomes non-member UN state with observer status “, 30 November 2012
  3. Il sole 24 ore, “Israele annuncia nuovi insediamenti”,1 dicembre 2012
  4. Gli accordi di Parigi, firmati nell’ambito degli accordi di Oslo, sono degli accordi economici risalenti al 29 aprile 1994,hanno reso in sostanza l’economia palestinese prigioniera di quella israeliana. La stragrande maggioranza dei prodotti deve passare per i controlli israeliani prima di poter raggiungere i Territori Occupati o uscirne.
  5. Eurasia rivista di studi geopolitici, “Colonna di nuvole”, 27 novembre 2012
  6. Eurasia rivista di studi geopolitici, “ Guerra di movimento e “geopolitica del caos”, 1 marzo 2012
  7. Come Don Chisciotte, “Ritorno dalla Siria. Appunti sulla geopolitica del caos” .20 maggio 2012


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