“If I don’t steal it someone else is gonna steal it” (Se non la rubo io, lo farà qualcun’altro). Questa è la dichiarazione emblematica di un colono sionista di origine nordamericana ad una delle famiglie palestinesi che vivono nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est[1]. Di fronte alla sfacciata propaganda filosionista dei mezzi di informazione e delle forze politiche “occidentali” nella loro interezza, si rende necessario ripercorrere in breve i fatti che hanno portato ad un nuovo confronto militare tra l’entità sionista e la Resistenza palestinese.

All’origine delle vibranti proteste di questi giorni vi è stato il tentativo di sfratto forzato di cinque delle ventotto famiglie palestinesi che vivono nel quartiere di Sheikh Jarrah. Queste famiglie vivono lì dal 1948. Di fatto, sono dei rifugiati, visto che vennero cacciati dalle loro precedenti abitazioni in seguito al primo conflitto arabo-israeliano.

Il tentativo di sfratto è sollecitato da diverse organizzazioni di coloni, tra cui spiccano Nahalat Shimon (che punta all’espulsione di tutti i Palestinesi dall’area) e Ataret Kohanim (movimento teoricamente di ispirazione religiosa, ma ben legato alla “destra” radicale sionista uscita vittoriosa dalle recenti elezioni). Entrambi i gruppi sostengono il progetto “Greater Jerusalem”, volto alla trasformazione demografica della città vecchia di Gerusalemme, che nello stesso nome richiama un altro progetto sionista: quello del “Grande Israele” dall’Eufrate al Nilo progettato da Theodor Herzl.

Le rivendicazioni sioniste si fondano su una legge, emanata dopo l’occupazione di Gerusalemme Est nel 1967: ai sionisti discendenti da ebrei che abitavano l’area prima del 1948 è consentito di avanzare diritti di proprietà sui territori in cui vive una fascia della popolazione alla quale è negato qualsiasi diritto, nonostante la presunzione “democratica” dell’enclave “occidentale” nel Vicino Oriente.

Naturalmente, i mezzi di informazione dell’“Occidente” costruito sulla menzogna ideologica dei  “valori giudeo-cristiani” non hanno riportato le dichiarazioni rilasciate su questo tema dal Patriarcato latino di Gerusalemme, che in un suo comunicato, oltre a condannare la violenza utilizzata contro i fedeli musulmani che si recano a pregare nella moschea di al-Aqsa, ha parlato di “tentativo ispirato da un’ideologia estremista che nega il diritto di esistere a chi abita nella propria casa”[2]. A fargli eco è stato il Patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme, che per voce di Monsignor Atallah Hanna, già vittima di diverse aggressioni sioniste, ha chiamato cristiani e musulmani a difendere insieme la città[3].

La seconda causa è stata la volontà provocatoria di far passare per il quartiere arabo la cosiddetta “marcia delle bandiere” nel giorno in cui il sionismo celebra l’occupazione della parte orientale della città. Un’operazione che ricorda da vicino le marce orangiste nei quartieri cattolici di Belfast e che si inserisce nel ben più ampio quadro delle continue provocazioni sioniste. Non si possono dimenticare, a questo proposito, gli scavi effettuati sotto la moschea di al-Aqsa, volti a minarne le fondamenta[4], o la celebre “passeggiata” nella spianata delle moschee (che scatenò la seconda Intifada) del criminale di guerra Ariel Sharon, responsabile sia delle uccisioni di inermi contadini palestinesi a cavallo tra anni ’50 e ’60 del secolo scorso per mano della sciagurata Unità 101, sia del massacro di Sabra e Shatila nei campi profughi di Beirut nei primi anni ’80.

Va da sé che l’occupazione sionista della parte orientale della città nel 1967 ha già largamente prodotto i suoi devastanti effetti. Uno dei primi provvedimenti presi dagli occupanti, infatti, fu quello di radere al suolo un intero quartiere (dall’enorme valore storico) della città vecchia per realizzare un piazzale di fronte al “muro occidentale”; lo stesso dal quale i coloni hanno festeggiato alla vista delle fiamme che si alzavano dalla spianata. Una pratica utilizzata, per affinità ideologica, anche dai wahhabiti sauditi nella regione orientale di al-Qatif, dove i centri storici abitati dalla popolazione sciita (maggioritaria nell’area) sono stati rasi al suolo con la scusante di una loro riqualificazione.

Un’altra operazione simile a quella che i sionisti stanno realizzando nei territori occupati della Palestina (e che gode del medesimo silenziamento sul piano informativo) è quella attuata dalle autorità indiane nel Jammu e Kashmir. Qui, infatti, con la precisa volontà di alterare la demografia della regione a maggioranza musulmana, il governo del BJP di Nuova Delhi (in ottimi rapporti con il sionismo), tramite l’abrogazione dell’articolo 370 della Costituzione che vietava l’acquisto di proprietà ai cittadini indiani di altri Stati nel Jammu e Kashmir, sta favorendo la colonizzazione indù dell’area. Questo è anche uno dei motivi per cui le autorità pakistane, sebbene ambigue alleate dell’“Occidente”, hanno spesso e volentieri paragonato la condizione della Palestina a quella del Kashmir; sulla base di questo assunto, l’attuale primo ministro Imran Khan (più vicino a Cina e Turchia) ha rifiutato categoricamente le sollecitazioni delle Monarchie del Golfo a normalizzare i rapporti con Israele.

Ora, sorvolando sulle plateali distorsioni della realtà anche per ciò che concerne gli attacchi sionisti alla Striscia di Gaza (i centri operativi di Hamas non si trovano nei quartieri residenziali della Striscia e certamente non in palazzine di dodici piani, ma sono installati in bunker sotterranei), i fatti a cui si sta assistendo meritano una riflessione anche sul piano geopolitico.

Molti analisti hanno affermato che l’attuale crescita della tensione sta andando a tutto vantaggio sia di Netanyahu sia di Hamas, volto alla conquista di una posizione di dominio nella politica interna palestinese.

Se è vero che al-Fatah ed i suoi vertici hanno ormai perso credibilità, non è detto che l’attuale situazione possa favorire le politiche dell’attuale primo ministro sionista. La risposta massiccia della Resistenza palestinese, infatti, non solo ha smentito la presunta impenetrabilità del sistema di difesa Iron Dome (patrocinato dagli Stati Uniti durante l’amministrazione Obama), ma ha anche dimostrato inequivocabilmente che i tanto ostentati “Accordi di Abramo” (prodotto del trumpista accordo-truffa del secolo), ben lungi dall’essere accordi di pace, sono solo degli accordi militari-commerciali che in nessun modo possono risolvere il problemi della Palestina e del suo popolo negandone l’esistenza.

A tal proposito, non bisogna dimenticare anche quanto è avvenuto recentemente in Giordania (Paese che, tra le altre cose, tramite una sua fondazione religiosa si occupa proprio della gestione della spianata delle moschee). Il regno hashemita, infatti, si è apertamente opposto al piano partorito dal genero di Donald J. Trump, scatenando le ire israeliane; e questo perché Tel Aviv ha garantito per decenni la sopravvivenza della Giordania, “Stato cuscinetto” tra la stessa entità sionista e l’Iraq (prima che quest’ultimo fosse distrutto dall’aggressione anglo-americana del 2003). Constatato il fatto che la Giordania ha perduto il rilievo geopolitico che le era stato attribuito in passato per ragioni difensive (processo ben descritto dalla stessa stampa sionista)[5], Tel Aviv, di fronte al rifiuto di Abdullah II, ha ritenuto di tagliare le forniture d’acqua al Regno per incrementare il malcontento sociale e destabilizzare gradualmente il Paese minando l’autorità del sovrano. In altre parole, ha cercato di far valere l’ineluttabilità del nuovo sistema imposto dagli accordi.

La natura di tali accordi venne immediatamente compresa dalla diplomazia russa, che nel marzo dello scorso anno ospitò a Mosca una delegazione del Movimento di Resistenza Islamico, non solo per ristabilire i rapporti tra questo e la Siria baathista, deteriorati dopo il 2012, ma anche per sostenere la causa dei “due Stati” contro l’annessione sionista di larga parte della Cisgiordania prevista dal piano trumpista[6]. Ad onor del vero, con ogni probabilità, Mosca si è resa conto fin da subito che l’obiettivo reale degli “Accordi di Abramo” (cui si aggiunge l’attivismo della NATO in Europa Orientale) è quello di costruire una cesura tra lo spazio mediterraneo e l’Europa occidentale ed il resto del continente eurasiatico.

Il riavvicinamento tra Hamas e la Siria merita una certa attenzione, soprattutto alla luce del fatto che la Turchia di Erdogan, con uno slancio propagandistico, si sta presentando come protettrice di al-Quds e più in generale della Palestina (ruolo al quale non possono più ambire le Monarchie del Golfo, terribilmente compromesse con il sionismo). Osservando le manifestazioni di sostegno alla causa palestinese tenutesi ad Istanbul e nelle principali città turche, non si è potuto fare a meno di notare l’accostamento tra le bandiere palestinesi e quelle dei cosiddetti “ribelli” siriani: un fatto, questo, che fa sorgere alcuni dubbi sulla genuinità del sostegno turco alla Palestina. Sembra infatti che l’“Occidente” sia più propenso a vedere la Turchia (membro della NATO) nel ruolo di patrono della causa palestinese, piuttosto che lasciare che in tale ruolo subentri la Repubblica Islamica dell’Iran.

In un articolo pubblicato sul sito informatico di “Eurasia” nel settembre 2020, dal titolo Il declino USA e l’asse islamico-confuciano, chi scrive aveva sottolineato le preoccupazioni che gli incontri di Beirut tra i vertici di Hamas ed Hezbollah avevano generato nelle sedi delle forze di difesa sioniste. La tesi sostenuta in quell’occasione era che una più forte cooperazione tra i rami libanese e palestinese della Resistenza avrebbe potuto incrementare non di poco le capacità militari e strategiche del secondo (assai limitate e ridotte da diversi anni in cui la strategia divisiva sionista aveva avuto la meglio nel contorno del conflitto siriano).

In questi giorni si può assistere ai primi risultati di tale cooperazione, dovuti allo sforzo (intrapreso in primo luogo dalle Forze Quds delle Guardie della Rivoluzione iraniane) di portare le capacità militari della Resistenza palestinese ad un livello pari a quello di Hezbollah e, soprattutto, di Ansarullah nello Yemen. Proprio con lo Yemen libero, infatti, la Striscia di Gaza condivide la sorte di essere sottoposta ad assedio. Di conseguenza, l’unica soluzione plausibile rimane quella di un limitato (per ovvi motivi) sostegno diretto e di un corposo sostegno indiretto tramite il trasferimento di informazioni per la costruzione di tecnologia militare in loco.


NOTE

[1]    Video shows Israeli settler trying to take over Palestinian house, www.aljazeera.com.

[2]    Dichiarazione del Patriarcato latino di Gerusalemme sulle recenti violenze a Gerusalemme, www.oasiscenter.eu.

[3]    Atallah Hanna calls on Muslims, Christians to defend Jerusalem together, www.palestinechronicle.com.

[4]    Secret tunnel under al-Aqsa moscque exposed, www.alarabiya.net.

[5]    Si veda Abdullah the irrelevant of Jordan, www.israelhayom.com.

[6]    Si veda Hamas thanks Russia for supporting Palestinian rights, rejecting US pro-Israel plan, www.presstv.com; Hamas in Moscow to mend ties with Syria, www.al-monitor.com.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).