Se quando la NATO va in trasferta al di là del Mediterraneo prestasse più attenzione alle tradizioni culturali dei Paesi che ‘visita’ molti errori potrebbero essere evitati. Anche nel caso della guerra in Libia e della morte del Colonnello è la chiave antropologica la più adatta a rendere conto delle reali dinamiche sociali che si nascondono dietro i titoli altisonanti della stampa occidentale.

 

 

Che sia stata o meno la NATO a dare l’ordine poco importa: Gheddafi sarebbe morto comunque. Non si chiama vendetta, non si chiama assassinio, non si chiama barbarie ma si chiama ‘Asabiyya. Letteralmente significa ‘solidarietà del sangue’ ed è un concetto che è stato introdotto dal grande erudito maghrebino Ibn Khaldun (1332 – 1406) nella sua opera Al Muqaddima (Introduzione alla storia universale) per definire il tipo di solidarietà che intercorre tra i membri di uno stesso gruppo di discendenza. Nell’organizzazione tribale tipica delle società del Medio Oriente (inteso nel senso anglosassone del termine, quindi nello spazio geografico che va dalla Mauritania al Pakistan) il livello di solidarietà tra individui legati tra loro da una relazione di parentela può ripetersi anche in altre forme di aggregazione sociale, come quella tra cliente e padrone.

 

Emry Peters (1967) realizzò uno studio etnografico tra le tribù della Cirenaica focalizzando il suo interesse sulle faide tra i beduini libici e notò la presenza di gruppi corporati veri e propri, cioè individui uniti da una comune discendenza e che per questo condividevano le stesse prerogative in termini di accesso alle risorse. Il diritto consuetudinario beduino prevede che qualora

un individuo venga offeso in qualche modo da un membro di un gruppo esterno, egli abbia diritto a essere risarcito dal gruppo di chi ha commesso l’offesa, con un pagamento in linea con la cosiddetta ‘legge del taglione’.

Ma quello che Peters notò, ed ecco la similitudine con quanto accaduto nei giorni scorsi, è che quando il peccato commesso coincide con l’omicidio di un individuo che fa parte di un gruppo politicamente diverso, quindi senza legami di discendenza comune, e responsabile della gestione di un preciso territorio, l’unica soluzione praticabile sia il pagamento del ‘prezzo del sangue’ che consente di chiudere velocemente il conflitto.

 

Ed è proprio questo ciò che è accaduto in Libia. In primo luogo nel Paese esiste una frizione storica tra due macro gruppi corporati (discendenza comune anche se appartenenti a clan familiari diversi e accomunati dallo stesso codice sociale): quelli legati a Gheddafi, che basa(va)no il loro potere sul controllo della regione della Tripolitania e quelli dei cosiddetti ‘ribelli’ legati invece alla Cirenaica e quindi a Bengasi che non a caso è stata eretta a simbolo della rivolta. I crimini commessi dall’una e dall’altra parte durante questi mesi di guerra non avrebbero potuto trovare altra soluzione che il pagamento del prezzo del sangue supremo, quello più simbolico in assoluto, quello di Gheddafi. Questo tipo di scontro e risoluzione del conflitto accade perché il territorio conteso è fisicamente a cavallo tra le due aree di influenza dei due macro gruppi corporati. Di conseguenza in Libia si è verificata una continua commistione tra gli interessi politici di rivalsa, da parte dei ribelli insofferenti verso il governo guidato dal maxi gruppo corporato avversario, e quelli territoriali. Il gruppo guidato da Gheddafi, infatti, aveva esteso la propria influenza e il proprio potere su un territorio che da un punto di vista sociale apparteneva a un diverso gruppo dirigente. Le persone che i media chiamano ribelli in realtà non hanno risvegliato la loro coscienza sette mesi fa, ma la loro insofferenza nei confronti del regime è semplicemente intrinseca alla loro visione del mondo e della società. Probabilmente è solamente servito un importante stimolo esterno per fornire l’Asabiyya degli strumenti necessari per riscattare la propria sottomissione alle tribù rivali.

 

Per quanto riguarda invece l’abuso del termine ‘tribù’ che in questi mesi è stato fatto, è necessario procedere con qualche precisazione. La suddivisione sociale in tribù, cioè in forme di aggregazioni sociali elementari in gran parte basate sulla comune discendenza e nel riconoscimento di un comune antenato, accomuna tutte le società cosiddette mediorientali. In Libia, come del resto anche in altri Paesi dell’area, esistono diversi livelli di aggregazione tribale e di conseguenza di convivenza inter tribale. Le tribù che gestiscono territori tra loro lontani non ricorrono allo stesso tipo di difesa di quelle che invece convivono in un’area confinante. Esse, infatti, non hanno bisogno di riscattare le eventuali offese che venissero inflitte da parte di individui esterni attraverso il ricorso al ‘prezzo del sangue’ lasciando che i conflitti continuino ad alimentarsi, offesa dopo offesa, senza prospettiva di riappacificazione. È questa, in sostanza, la definizione di faida che, a differenza del conflitto, non è per l’appunto destinata a concludersi velocemente.

 

È possibile che negli anni del regime di Gheddafi, l’impossibilità di sfidare il gruppo corporato legato al Colonnello, abbia contribuito ad alimentare le faide tra le tribù vicine al potere e quelle invece all’opposizione, se così si può dire. Da un punto di antropologico, quindi, il conflitto poteva risolversi soltanto con la morte di Gheddafi. Il problema che resta, e che l’Occidente si ostina a ignorare, è che non è possibile modificare visioni del mondo vecchie di millenni pretendendo che dal 31 ottobre, giorno in cui è stata stabilita l’uscita di scena della NATO dalla Libia, tutti i vari focolai intestini si spengano senza colpo ferire. È molto probabile invece, per la natura intrinsecamente tribale della società libica, che mentre qualche rappresentante del gruppo corporato legato ai ribelli si accingerà a indire libere elezioni e magari a ottenere un posto di potere, le tribù avversarie cerchino di riorganizzarsi alimentando una nuova faida.

 

Si è detto infinite volte che non è possibile trapiantare la democrazia di stampo occidentale in un paese con tradizioni culturali e identitarie diverse rispetto a quelle dell’Occidente. E se proprio un tentativo deve essere fatto non può prescindere dalla conoscenza e dall’accettazione della realtà della società della Libia di oggi, che non è molto diversa da quella che Peters incontrò negli anni ’60 del secolo scorso. Si pensi soltanto che attualmente sono i matrimoni e non i rapporti diplomatico-commerciali a stabilire le alleanze politiche intertribali. Tali matrimoni consentono, infatti, di instaurare legami di solidarietà tra gruppi corporati che vivono anche molto lontani tra loro e così si spiega il fatto che Gheddafi potesse contare sull’appoggio di tribù stanziate nel deserto o addirittura al di là dei confini algerini. Il diritto beduino, infatti, non conosce limitazioni nazionalistiche che non sono altro che un prodotto importato dall’altra sponda del Mediterraneo ma assolutamente sconosciuto nella logica sociale delle tribù.

 

* Matteo Finotto è ricercatore presso l’IsAG.


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