Tripoli 25/08/2010

Per le economie europee la nuova frontiera del business è rappresentata dalla sponda opposta del mediterraneo dove si affacciano paesi legati all’Europa da questioni storiche, culturali e di prossimità; la vicinanza infatti ha pur sempre una sua rilevanza nella spiegazione del commercio internazionale. I paesi nord africani sono già da tempo meta delle imprese italiane ed europee che qui hanno le fabbriche dei prodotti ad alto contenuto di manodopera come le calzature e l’abbigliamento. Basti pensare a Marocco e Tunisia che sono stati e continuano ad essere luoghi di delocalizzazione produttiva a causa dei vantaggi assoluti che riguardano il costo della manodopera e di altri vantaggi che derivano dal sistema paese: ridotta tassazione, costo dell’energia elettrica, affitti, ecc.

In questo senso una rinnovata opportunità per l’imprenditoria mondiale, è costituita dalla Libia. Si tratta infatti dell’ultimo paese nord africano ad essersi aperto alle economie occidentali; la ragione va ricercata nelle sue vicende politiche e nella recente revoca dell’embargo e delle sanzioni economiche internazionali a cui si è pervenuti progressivamente a partire dal 1999.

Lo sdoganamento della Libia nella comunità internazionale ha dato, come risultato interno, un impulso immediato e notevole all’edilizia, dal momento in cui c’è stata la disponibilità di accedere a materiali e manodopera estera qualificata.

Qui la cementificazione e l’ammodernamento delle città riguarda tutto il paese, da est a ovest, da Bengasi a Tripoli.

D’altro canto è abbastanza logico che un paese con una grande disponibilità finanziaria, derivante dal petrolio, punti innanzitutto alle infrastrutture e al rinnovamento urbano, quasi una carta d’identità da esibire a chi entra nel paese. Questo processo di rinnovamento ha avuto l’effetto di attrarre i costruttori edili di mezzo mondo che qui si contendono appalti per grattaceli e centri commerciali di tutto rispetto, anche se con successi alterni. Infatti aver concluso un contratto non sempre è sinonimo di successo.

L’esperienza diretta insegna che un contratto fra un imprenditore estero e un organismo statale libico molte volte  viene rimesso in discussione a posteriori, oppure revocato ad opera già iniziata, sulla base di vizi presunti. Un esempio: il costruendo aeroporto di Tripoli. Inizialmente commissionato a costruttori francesi è poi passato ai brasiliani per essere successivamente smembrato in lotti minori e affidato a  contractors turchi e di altre nazioni.

Questo tipo di comportamento deriva in parte dalla cultura del paese e in parte è da attribuire alla completa assenza di competenza e di figure professionali in grado di valutare i contratti e di giudicare l’esecuzione dei lavori; i sovrintendenti dei lavori commissionati dal governo libico provengono da altri paesi arabi, in particolare dall’Egitto.

E cosa dire dello sviluppo delle attività industriali e manifatturiere?

È noto che la crescita e lo sviluppo delle economie emergenti passa attraverso i processi di privatizzazione e che la privatizzazione ha origine dalla capacità di un paese di attrarre i capitali stranieri, e con essi lo skill tecnologico, il know how specifico, le capacità imprenditoriali e manageriali, attraverso un percorso ormai noto e ben delineato.

A tale proposito in Libia, da tempo, non si fa che parlare delle “zone franche” o free trade zone. Si tratta di aree destinate a investitori esteri che intendono avviare una attività di tipo produttivo; esse godono di particolari facilitazioni previste dalla legge libica n. 5/1997. Questi benefici si possono riassumere succintamente nei seguenti punti:

Esenzione da dazi doganali per l’importazione di attrezzature e macchinari necessari alla realizzazione del progetto.

Esenzione quinquennale di qualunque imposta o tassa sul reddito derivante dal progetto.

Esenzione dell’imposta sul consumo e dai dazi doganali all’export per le merci provenienti dal progetto realizzato dell’investitore.

Esenzione del progetto dalla tassa di bollo per gli atti e i documenti commerciali d’uso.

Come effetto immediato un aumento dell’attività manifatturiera interna contribuirebbe a diminuire le importazioni del paese, a ridurre la disoccupazione (circa 2 milioni), ad innalzare i salari, ad elevare il tenore di vita, a diminuire l’assistenzialismo statale, ad esempio.

Inoltre gli insediamenti produttivi importerebbero tecnologia, dando vita ad un “effetto trascinamento” che inciderebbe positivamente sulla espansione delle attività industriali medesime.

Ora, se ci fermiamo a queste prime considerazioni, potremmo analogicamente dedurre che la Libia rappresenta un paese allettante per le affaticate economie occidentali, una nuova frontiera del business. Se così fosse c’è da chiedersi: è conveniente oggi investire o fare affari in Libia? E poi, su quali garanzie possono contare gli imprenditori esteri?

Oggi la Libia evidenzia un rischio paese ancora alto e gli IDE (investimenti diretti esteri) sono ancora modesti proprio a causa del rischio paese. Più concretamente possiamo dire che qui l’iniziativa privata è quasi inesistente. Fabbriche, alberghi, grandi opere sono tutte statalizzate e quindi l’interlocutore per l’imprenditoria straniera è lo Stato, attraverso i suoi organismi interni.

Inoltre bisogna ricordare che la Libia non ha ad oggi sottoscritto nessuno dei trattati multilaterali che fanno capo al WTO come il WIPO (World Intellectual Property Organization), oppure alla Banca Mondiale come la convenzione multilaterale ICSID ((International Centre for the Settlement of Investment Disputes) che garantisce l’ambito istituzionale e i servizi amministrativi necessari per la risoluzione, mediante il ricorso alla conciliazione o all’arbitrato, delle controversie che dovessero insorgere tra uno Stato membro della Convenzione ed un investitore, cittadino di un altro Stato membro.

Non ha sottoscritto neppure l’ Euro-Med (Euro-Mediterranean-Partnership) un accordo fra la comunità europea e i paesi del bacino del Mediterraneo, perché ad oggi la Libia figura come paese osservatore.

La insufficiente tutela della proprietà privata e un sistema giuridico che consideri l’investitore come cittadino e non come uno “straniero” sono altri concreti deterrenti che frenano gli investimenti diretti esteri in questo paese. Per completare il quadro vanno citate le barriere non tariffarie costituite da un sistema burocratico complesso che prevede una lunga serie di autorizzazioni per poter avviare una qualsiasi attività industriale.

Si conviene quindi che l’ambito istituzionale (inteso come sistema politico del paese) e l’ambito legale (inteso come l’insieme delle leggi che incidono sulle decisioni di investimento) oggi sono tali da scoraggiare la maggior parte delle iniziative private estere che hanno come scopo qualsiasi forma di attività industriale “stanziale” in territorio libico.

La Libia è ancora troppo lontana dal modo di rapportarsi con l’imprenditoria estera in generale, da una parte perché ha saltato il passaggio dello sviluppo industriale interno che avrebbe assicurato un apprendimento dal fare (learning by doing) e dall’altra perché la grande, enorme, disponibilità di spesa derivante dal petrolio permette ai propri amministratori di assumere atteggiamenti anche arroganti, consci di poter contare sul corteggiamento di innumerevoli società imprenditoriali pronte ad alternarsi al tavolo degli appalti.

Porre le condizioni affinché il clima sia più favorevole agli IDE è un fatto che spetta alla politica, anche se, politicamente parlando, non so quanto interesse reale ci sia ad avviare un processo di sviluppo economico di tipo occidentale. Gli immensi guadagni derivanti dal petrolio e la ridotta popolazione (poco più di 6 milioni) consentono al governo una politica economica del paese per certi versi anomala e tesa ad appagare la domanda interna attraverso le importazioni in ogni settore ad esclusione di quello energetico. Il processo di privatizzazione e il conseguente aumento di competitività internazionale che da esso deriva, qui, come in altre economie emergenti del Mediterraneo, sembra più motivato dalla necessità di conservare una posizione strategica a livello geopolitico. In altre parole in quest’area del mondo è più importante rimanere economicamente competitivi (vorrei dire comparabili) più che in rapporto ai paesi industrializzati, in rapporto ai paesi appartenenti alla stessa area geografica e che presentano le stesse caratteristiche istituzionali, culturali, religiose ed economiche. Se il processo non viene spinto in maniera più decisa è perché già allo stato attuale lo sviluppo interno del paese permette il raffronto della Libia con gli altri stati limitrofi e dall’altra parte perché c’è la paura che un processo di privatizzazione troppo spinto potrebbe far perdere il controllo economico delle istituzioni sul paese; va da se che una destabilizzazione di tipo economico renderebbe vulnerabile il paese anche ad una destabilizzazione di tipo politico; quest’ultimo punto rappresenterebbe infatti un effetto collaterale assolutamente intollerabile.

*Diego Fassa, dottore in Relazioni Pubbliche ad indirizzo aziendale presso l’università di Udine, laureando in Economia e diritto per l’impresa e la PA, indirizzo International Business and Law presso l’università di Modena e Reggio Emilia, si occupa di consulenza aziendale di direzione

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