Diplomazia occidentale e saggezza orientale

La diplomazia è l’arte e la scienza con cui nazioni e civiltà, su vasta scala, comunicano al più alto livello, non come meri gruppi d’individui ma in quanto persone morali nel loro proprio diritto, esprimendo così i loro valori e affermando i propri interessi, proteggendo la loro sicurezza e affermando le loro visioni e le loro ambizioni.

Per sua propria natura, la diplomazia come terreno d’incontro o spazio comune, “lingua franca” comportamentale, definisce e aderisce a protocolli, modi e mezzi che sono universalmente o almeno reciprocamente accettati e familiari, ma l’essenza stessa del potere implica che gli Stati e le aree di civilizzazione dominanti impongono di fatto i loro concetti e i loro ideali sugli altri. Il centro, generalmente, detta le regole per la periferia.

Gli ultimi quattro secoli hanno assistito alla crescente codificazione e omogeneizzazione della tradizione diplomatica che l’Europa ha ereditato dallo Ius Gentium (legge pubblica) medievale e che i principi italiani e i governanti repubblicani del Rinascimento perfezionarono sotto l’influenza di figure come Niccolò Machiavelli, che diede una forma o quantomeno razionalizzò i modelli di comportamento degli stati basatii sull’esperienza europea. Praticanti virtuosi di politica estera come Vergennes, Pitt, Menshikov, Talleyrand, Nasselrode, Castlereagh, Gorchakov, Metternich e Bismarck sono ancora modelli d’esempio nei circoli diplomatici e nelle scuole di relazioni internazionali di tutto il mondo.

Fino a oggi, le teorie di politica estera articolate in Occidente e prevalenti ovunque, non hanno preso in considerazione alcun contributo intellettuale proveniente da qualsiasi parte al di fuori della filosofia politica classica europea, l’unica a cui i professionisti della diplomazia sono generalmente preparati, a parte la piccola cerchia specializzata di “esperti asiatici” che sembrano essere delegati a cercare di comprendere il “nemico”, o a domare vecchi soggetti coloniali.

Comunque, adesso che l’Asia sta riemergendo e si prepara a raggiungere la cima della piramide economica nei decenni a venire, le sue maggiori potenze hanno l’occasione, per la prima volta dopo secoli e secoli, di riaggiornare e avvalersi della guida delle loro antiche e ricche tradizioni nell’arte di governare e di fare politica estera, tenendo a mente che se la cultura diplomatica contribuisce appena al sostentamento di un’omogenea ma superficiale “comunanza globale”, può solamente favorire, secondo le parole di Zybgunt Bauman “una socializzazione formale senza l’oneroso bisogno di dover traslare tra i distinti universi del significato, portando dunque gli statisti e i loro uomini a “disimparare l’arte del negoziare contenuti condivisi e un modus co-vivendi” (Seminario, 610, giugno 2010, p.38).

Il primo aspetto a colpirci delle filosofie indigene sia in Cina sia in India, che hanno profondamente influenzato tutti i loro vicini più piccoli su una vasta area, è che esse mostrano d’avere un’interrelazione stabile e organica con le loro teorie “oltremondane” dell’essere, centrate sull’individuo: il Taoismo in Cina e la psico-epistemologia vedantico-buddhista in India e le loro rispettive, pragmatiche teorie socio-politiche, che vengono dagli insegnamenti di Confucio e Sun Tzu per l’una, e i “Niti” e l’ “Arthaśāstra” per gli altri, come illustrato nel Ramayana e nel Mahabharata.

In una certa misura, è diversa dall’evoluzione degli stati-nazione giudeo-cristiani dove la teoria politica, fondata sull’analisi del comportamento umano indipendentemente dai “valori”, si estraniò sempre più dalle dottrine spirituali e teologiche, per via di un’agnostica fiducia nell’osservazione empirica, ignorante della trascendenza, secondo la presupposizione che i fini ultimi possono solo essere “razionali” e materiali. Due dei risultati finali di questa tendenza ultrasecolare sono la teoria straussiana dello stato (da Leo Strauss), principio guida dei Neo-conservatori americani, e la “Teoria del gioco” di Robert J. Aumann, di cui corre voce, fra gli altri, essere il viatico dei policy-makers israeliani..

In Oriente, invece, le deduzioni religiose o quantomeno cosmologiche sono rimaste al passo con l’induzione psicologica, ma al contrario dei loro contemporanei europei, i leader del Sud-Est Asiatico, fiduciosi come potevano essere delle loro rispettive superiorità di civiltà, non furono condizionati generalmente dal pregiudizio monoteistico che la salvezza attraverso la conversione era il destino ultimo di coloro che non appartenevano al Cristianesimo e stavano ancora in attesa che la Grazia di Dio” fosse loro elargita.

Come risultato della discriminazione tra pagani e fedeli, quasi fino alla fine del XIX° secolo le regole della diplomazia occidentale furono destinate ad essere applicate principalmente alle relazioni fra nazioni cristiane “civilizzate”, come controparte al coranico “Dar ul Islam”. Per gli altri, la conquista e la colonizzazione sotto varie forme (come gli iniqui trattati a cui la Cina fu forzata) erano formule d’interazione accettate in quanto generalmente viste non come appartenenti alla sfera dello ius gentium.

Verso una rinascita della teoria diplomatica occidentale

Al giorno d’oggi la nozione della superiorità del monoteismo sul politeismo si è molto sbiadita e anche la distinzione tra pensiero civilizzato (occidentale) e “pensiero primitivo o selvaggio” e il “fatalismo orientale”, che e’ stato spesso raffigurato come intermedio, è stato drasticamente rivisto. La validità universale delle antiche tradizioni spirituali asiatiche e in particolare le tradizioni etiche stanno iniziando a essere riconosciute anche attraverso l’Europa e le Americhe, ed è giunto il momento di riprendere e mettere in luce le tradizioni di amministrazione statale e di diplomazia ereditate da Cina e India.

Se il Confucianesimo, con la sua enfasi sull’ordine e l’armonia (il Ch’i, o Q’i), gerarchia e disciplina, sostenuta dalle sue quattro (o cinque) virtù cardinali ha un‘ovvia pertinenza all’essenzialmente anarchico e sempre più afasico sistema internazionale proprio come gli insegnamenti di Sun-Tzu sono diventati un vade mecum per gli strateghi in tutto il mondo, la saggezza di Lao Tzu si rivolge al chaos della natura nel quale trova, prima ancora della fisica quantistica e della matematica dei frattali, un ordine nascosto: “ Tzu Jan”.

La predilezione per Lao Tzu e Chuang Tzu per il silenzio, l’umiltà, il flusso, il buio, la quiete, per l’autorità morbida in opposizione al potere forte e per l’osservazione piuttosto che per l’agitazione trova i suoi paralleli nei non-violenti, meditativi, e compassionevoli ideali indiani, e queste qualità e caratteristiche acquisiscono sempre più valore nel nostro mondo sovrappopolato, ecologicamente esaurito, stressato e violento. Lao Tzu osserva:” le cose più soffici nel mondo pervadono quelle più solide” e cita l’acqua ad esempio di questa forza calma e gentile che rispecchia il concetto del wei wu wei (azione interiore – apparente inazione).

Sia la filosofia cinese che indiana, non vedono opposizione o discontinuità tra i poli opposti, come la luce e il buio, e perciò non cascano nella trappola aristotelico, e poi manichea, in cui il pensiero politico e strategico occidentale è troppo spesso racchiuso quando diretto verso “l’Altro-Malvagio”, che sia fascista, comunista, capitalista, islamista, o chiunque si desideri distruggere o sottomettere. Come dice il Tao Te Ching: “le calamità produrranno il , e anche il ringraziamento sottostà alle calamità.. Il giusto potrebbe rivelarsi sbagliato, il bene potrebbe risultare il male”, e altrove: “il giorno in cui tutto sarà risolto, si scoprirà che nulla è stato risolto”.

La prassi indiana nel campo delle relazioni inter-statali si è stabilita da almeno ventitré secoli col classico trattato di Chanakya, l’ Arthaśāstra, ma quella descrizione apparentemente amorale della realtà socio-politica che precede Macchiavelli di mille e ottocento anni dev’essere vista nel contesto della morale Rajinti, inclusi i testi popolari di fiabe per l’educazione dei principi, i Pañcatantra e gli Hitopadesha.

Così, possiamo trovare molte definizioni di concetti essenziali come la formazione e la conservazione delle alleanze, le cause e la condotta delle guerre e i diversi tipi di accordi di pace (sedici!) che si possono perseguire, a iniziare dagli Upahara, i Sangata, e i Pratikara o Samyoga, tutti fondati sui mutui interessi e sui fini comuni o rispettivi di tutte le parti. Il migliore su tutti è quello basato sui valori della verità e della moralità, portando alla reciproca fiducia e alla solidarietà disinteressata; mentre il genere di pace più fragile e illusorio è quella che consiste nel forzare la parte più debole a concedere e servire i fini e gli interessi del più forte a suo visibile (o invisibile) detrimento (Adrishtanara), ma tutti e quattro i modi di adescare o costringere l’avversario alla sottomissione, anche se spesso inevitabili, non sono mai valutabili come la visione chiara e libera in quanto, come dice l’Hitopadesha: “Il vero successo si trova nella pace”.

Uno sbilanciamento troppo grande tra poteri è identificato come un pericolo in quanto l’agente predominante tenderà, senza saggezza, ad attaccare e opprimere i più deboli, come abbiamo visto negli anni recenti quando l’egemonia unipolare ha seguito quella logica attraente ma poco lungimirante. Anche Sun Tzu, pur essendo un generale, sostiene che la vittoria migliore è quella ottenuta senza il ricorso alla forza, attraverso la persuasione e il compromesso. Ai nostri giorni vediamo la superpotenza e alcuni regimi minori alleati al fine di utilizzare i mezzi militari come opzione preferita, anche come conseguenza collettiva dell’ideale individualistico del piazzamento di uomini armati sulle terre di frontiera che fanno emigrare o uccidono i nativi, invocando giustificazioni teologiche o tecnocratiche.

Uno stupido può essere soddisfatto facilmente
mentre un uomo saggio può essere soddisfatto ancora più semplicemente.
Ma neanche Brahma può soddisfare una persona
presuntuosa e con poca conoscenza

(Hitopadesha)

E’ questa “presunzione senza conoscenza” la tragedia della nostra era tecnologica, armata di tante certezze e credo sbagliati, o trattenuta dall’agnosticismo istituzionale dal dare ascolto al messaggio senza-tempo della saggeza?

Due lezioni fondamentali ci sono state tramandate dalle scuole di pensiero indiane e cinesi: la prima è che tutte le azioni portano con sé il loro carico di effetti automatici e di conseguenze attraverso lo spazio e il tempo, sicché l’uso e l’abuso del potere hanno un impatto sul governo e la società che sono responsabili almeno quanto, se non di più, di coloro che sono i suoi soggetti o vittime:
Colui che maneggia e minaccia di usare le armi nucleari sarà lui stesso colpito un giorno dalle armi nucleari; colui che dipende dal petrolio vedrà il suo ecosistema rovinato dal petrolio; colui che spreca risorse dovrà infine sopportare la carestia e il bisogno, e colui che stampa moneta come fosse un bene virtuale – e non più solo come valuta a corso legale – come obiettivo speculativo e sfrenato di ricchezza, porterà infine a esperienze d’iperinflazione, depressione e insolvenza, anche se potrà prosperare per anni sul lavoro e sulle attività altrui comprate mediante il debito.”

La seconda lezione è che in una spirale in espansione di unità socio-politiche, le più piccole sono sussunte entro quelle più grandi che le includono. Il microcosmo e il macrocosmo si riflettono l’uno nell’altro, ma quest’ultimo non può essere sacrificato per il bene del primo che ne fa parte.

Gli “Hitopadesha” dicono: “per il villaggio, rinuncia all’individuo, per la nazione al villaggio, per il mondo alla nazione e per l’anima suprema al mondo”. L’espressione “rinunciare” indica l’ordine delle priorità. Nella nostra epoca, capiamo più che mai come nessuna città o regione può vivere bene all’interno di una nazione devastata o senza legge, così come nessuna nazione può prosperare a lungo su un pianeta sconvolto o durante una guerra globale. Allo stesso modo, tutti gli esseri e i beni che la Terra custodisce non sono d’importanza maggiore della realtà invisibile, spirituale, che ce li rendono percettibili e che dà a tutti noi la nostra esistenza.

Cangiante come il riflesso della luna
In mezzo all’acqua
E’ invero la vita degli esseri viventi.
Pertanto uno dovrebbe
Sempre fare ciò che è (universalmente) bene
.”
-“Hitopadesha”

Il primato dello spirito sulla materia si afferma come auto-evidente. Sia Confucio sia Lao Tzu sono d’accordo con quest’ordine di priorità, eccetto che il primo pone l’attenzione sullo stato, laddove il secondo prende una scorciatoia dall’essere individuale a quello universale, riflettendo sul fatto che come risultato tutte le unità intermedie sono tenute in conto. Il Tao Te Ching dice: ”L’uomo si conforma alla Terra, la Terra si conforma ai cieli, i cieli si conformano al Tao e il Tao segue la legge di Natura.”

Lezioni per il nostro mondo

Su entrambi questi parametri, il mondo moderno cade tremendamente . Le nazioni in generale guardano ai loro interessi, e specialmente alla loro “sicurezza nazionale”, come imperativo supremo, senza prendere in considerazione i più ampi concetti ecologici e umanitari anche quando professano il loro impegno verso la “comunità globale”.

Le guerre condotte dalle grandi potenze sono conflitti economici per mantenere aree d’influenza su territori distanti. Come in Vietnam nel passato, in Afghanistan e in Iraq oggi, o in Iran domani. Sono condotte per ordine di oligarchie trans-nazionali dominanti, da eserciti professionisti di tecnici e mercenari, e non ottengono il sostegno, e neanche l’approvazione, delle popolazioni nel cui interesse esse sono ufficialmente condotte.

La maggior parte delle persone non comprende le ragioni per queste guerre di aggressione e sentono di essere tenute allo scuro delle vere motivazioni di chi le istiga. Non capiscono perché l’Iran dovrebbe essere penalizzato, ostracizzato oppure attaccato, in base al sospetto che esso potrebbe costruire armi nucleari quando ad altri paesi, come Israele e il Pakistan, è permesso costruire arsenali nucleari indisturbati, e addirittura incoraggiati a far ciò da coloro che al tempo stesso sostengono a spada tratta la necessità della non-proliferazione quando loro stessi rifiutano di disarmarsi.

I maggiori beneficiari sono i complessi militari industriali delle nazioni più “avanzate” economicamente. Comunque sia, molti governi cercano di mantenere questi conflitti e questi regimi d’occupazione impopolari al di fuori delle menti dei loro cittadini; ma sono inevitabilmente e negativamente colpiti da essi mentre precipitano in enormi indebitamenti e si trasformano gradualmente in militareschi stati di polizia, trovandosi di fronte una crescente alienazione e opposizione interna mentre al tempo stesso si devono confrontare con un numero crescente di nemici all’estero. Nello scenario contemporaneo, assistiamo a un’illustrazione della legge di causa-effetto (il “Te” taoista, il “Karma” indiano) che fa riflettere. Gli Stati Uniti, come potenza militare e belligerante predominante, stanno sotto la cappa dell’irrequietezza civile e della rivolta popolare, e molte altre nazioni devono far fronte a situazioni e a rischi simili.

La politica estera riflette inevitabilmente lo stato interno di una nazione come hanno illustrato i classici cinesi e indiani. Quando questa è in disordine e in rapido decadimento, la sua diplomazia non può essere coerente, di buoni principi, ragionevole, retta e stabile. A uno stato che intenda controllare o esercitare un’influenza determinante su altre nazioni, quando non è capace di mantenere l’ordine e proteggere la sua prosperità interna, va detto: “Medico, cura te stesso!”

Un altro effetto di questa situazione è visibile nel sempre più largo abisso tra il discorso pubblico dei governi e la maggioranza dei media da una parte, e le percezioni popolari e i sospetti sulle effettive realtà economiche, ecologiche e politiche. La proliferazione delle “teorie cospirazionistiche” principalmente nelle nazioni occidentali – sulle vere ragioni e fattori che stavano dietro le guerre in Vietnam, Afghanistan e Iraq, sugli assassinii di John F. Kennedy e Martin Luther King, sugli attacchi dell’11 settembre a New York e a Washington, e così via – è un diretto risultato della perdita di fiducia nei sistemi politici e la prova degli inganni e delle menzogne ufficiali.

La loro idea di “destino manifesto” ha portato gli Stati Uniti a pretendere ed esercitare la somma autorità, da soli o insieme a un’alleanza di nazioni occidentali, sul resto del mondo; e, inevitabilmente, il richiamo a un ordine multipolare, che riconosca le diversità e il pluralismo del genere umano sta crescendo in opposizione a questa pretesa. Le antiche scienze politiche di Cina e India, nutrite dall’osservazione combinata della natura cosmica e umana che vedono come una stessa cosa, possono illuminare il nostro cammino verso un nuovo ordine mondiale, ecologicamente prospero e socialmente armonioso.

Traduzione dall’inglese a cura di Almerico Matteo Bartoli

[Discorso tenuto alla conferenza internazionale sul DIALOGO TRA CIVILTA’ IN UN MONDO ARMONIOSO, Pechino, Cina, 11-13 Luglio 2010]

Come Carpentier de Gourdon, direttore aggiunto della rivista indiana “World Affairs”, vice-direttore dell’Euro-Asia Institute (Università “Jamia Millia Islamia” di Nuova Dehli), co-fondatore dell’accademia svizzera Telesis, consigliere della fondazione indiana Kapur Surya. In Eurasia ha pubblicato: L’imperativo dell’Eurasia (nr. 2/2005, pp. 7-16), L’India come chiave di volta della comunità asiatica (nr. 2/2006, pp. 105-116), Radici dell’identità culturale e politica europea (nr. 1/2007, pp. 29-44), La prima America contro lo “America first”. L’alternativa latina nel “nuovo mondo” (nr. 3/2007, pp. 27-41), Iran, regno ariano e impero universale (nr. 1/2008, pp. 17-32), L’India in Africa: passato e presente (nr. 3/2009, pp. 75-87).


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