Il nostro redattore Daniele Scalea ha partecipato come ospite alla prima puntata di “Theoretischen Blitzkrieg” (tramissione a cura del Centro Studi l’Arco e la Clava e della rivista “Strategos”) dedicata al mutamento che i concetti di tempo e spazio hanno subito all’interno del paradigma globale contemporaneo. Assieme a lui: Manfredi Camici e Federico della Sala (l’Arco e la Clava) e Andrea Fais (“Strategos”). Daniele Scalea, oltre che redattore di “Eurasia”, è segretario scientifico dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) ed autore de La sfida totale (Roma 2010). In questi giorni esce il suo nuovo libro, scritto con Pietro Longo, dal titolo Capire le rivolte arabe: Alle origini del fenomeno rivoluzionario.

La fonte originale della puntata può essere raggiunta cliccando qui. Dal riquadro sottostante è possibile vedere l’intera puntata. Di seguito è riportata la trascrizione della sola parte riguardante il nostro redattore.

Andrea Fais: Come abbiamo potuto sentire, la concezione degli spazi nel mondo occidentale si è modificata in funzione delle principali trasformazioni economiche, politiche e sociali. La significativa osservazione di Virilio, secondo il quale sembra essere giunta nel mondo occidentale una “fine della geografia”, pone uno dei problemi centrali della nostra epoca: la geografia viene sempre più pesantemente ridimensionata all’interno della società fino alla sua progressiva scomparsa dai programmi scolastici. Sembra quasi che al disgregante processo di atomizzazione sociale avvenuto nelle società liberali, corrisponda una progressiva alienazione spaziale, dove la necessitante dimensione geografica della politica e dell’economia sia oscurata e ignorata. In realtà la geografia politica, e la geopolitica propriamente detta, nascono proprio in Europa tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, con autori quali Friedrich Ratzel, Rudolf Kjellen o Halford Mackinder. In ogni caso, è pertinente precisare che la loro riflessione non presentava una novità teorica assoluta o esageratamente sorprendente, dacché nessun precedente pensatore organico o teorico della società – da Cicerone a Machiavelli, da Tucidide ad Hobbes, da Marx ed Engels a Hegel – aveva mai osato separare un’adeguata concezione dello spazio geografico dalla riflessione teoretica, politica ed economica. Eppure, con la fine della Seconda guerra mondiale, il declino (già iniziato da tempo) dell’Europa giunge a compimento e con esso pare cadere nell’oblio gran parte del patrimonio storico e culturale continentale, paradossalmente tenuto in vita, almeno relativamente e parzialmente, nei Paesi orientali del secondo Novecento. Molti oggi parlano di una “rivincita della geografia”: l’emersione della Cina nello scenario internazionale, la crescita di nuove potenze (quanto meno regionali) come l’India o l’Iran, il ritorno alla ribalta della Russia dopo la crisi post-sovietica, sono tutti fattori che tu, Daniele, puntualizzi con precisione nel tuo libro La Sfida Totale. Oggi, in un’epoca che sta lentamente ma decisamente smentendo con puntualità tutte le illusioni dell’idealismo della globalizzazione tipico degli Anni Novanta, come e quanto torna d’attualità la geopolitica?

Daniele Scalea: La geopolitica, soprattutto se intesa in senso stretto, è un approccio di lungo periodo. Essa valorizza il fattore geografico – pur senza garantirgli un’esclusiva, come accusano alcuni – e l’influenza della geografia è tanto più decisiva quanto più ampio è il periodo di tempo considerato.

Nei momenti di rigidità del quadro internazionale – com’è stato nell’epoca bipolare ed in quella unipolare – l’interesse per il lungo periodo scema, perché l’aspettativa è quella che la situazione presente rimanga immutata per molto tempo ancora. E siccome la geopolitica è un approccio che studia i conflitti tra società umane, nei periodi di apparente non conflittualità, o di bassa conflittualità come effettivamente è stato il breve periodo unipolare, l’interesse per la geopolitica è minore. Sempre sulla base dell’assunto che la situazione attuale si perpetui abbastanza da rendere inutile domandarsi del dopo. È connaturato alla mentalità occidentale il concentrarsi esclusivamente sul presente, ignorando il passato e disinteressandosi al futuro.

Questo discorso è in apparente contraddizione col fatto che, proprio in coincidenza dell’inizio del momento unipolare, si è avuto un rinnovato interesse per la geopolitica. Ciò è dipeso però da due fattori.

Il primo è che effettivamente ci si attendeva che la fine della rigidità bipolare rendesse più dinamico il quadro internazionale. All’inizio, apparentemente, non fu così. Sul medio periodo, cioè oggi, quest’aspettativa si sta verificando.

Il secondo fattore è che, talvolta, questa “geopolitica” contemporanea non ha nulla a che fare con quello studio storico-geografico dell’interazione tra società umane, ma è un semplice informarsi sui fatti del mondo. Non una disciplina scientifica ma un’estensione dell’informazione. Tra la vera geopolitica e quest’informarsi, spesso superficialmente, di quanto avviene nel mondo, corre la stessa differenza che c’è tra la professionalità e il dilettantismo.

Fatta questa dovuta precisazione, possiamo capire che è oggi, che il momento unipolare sta volgendo al termine, che la geopolitica diventa davvero attuale e soprattutto indispensabile. Nelle fasi di cambiamento epocale è normale che le persone si pongano interrogativi alti e complessi, e che finalmente accettino di guardare con prospettive storica ed oggettiva, e dunque geopolitica, al mondo.

La geopolitica in questa fase diventa anzi indispensabile per i decisori strategici, per coloro che devono guidare la nazione in un momento decisivo. Oggi, nella fase di passaggio tra il momento unipolare e la nuova fase multipolare, si stanno costruendo le gerarchie future tra le potenze. E queste gerarchie, una volta fissatesi, non muteranno facilmente nella prossima epoca, che sarà una lunga epoca multipolare, non un breve momento unipolare come quello che abbiamo vissuto negli ultimi vent’anni.

Interessarsi alla posizione dell’Italia nel mondo non è vetero-nazionalismo, è buonsenso. La ricchezza o la povertà d’una nazione non dipendono dal caso, dipendono dalla storia. Se oggi l’Europa è ricca ed in Africa si muore di fame ci sono ben precise ragioni storiche. Se nel ‘500 alcuni popoli europei non avessero conquistato il dominio dei mari, oggi in Europa si sarebbe ancora più poveri dell’India, ad esempio. Non si tratta di coltivare progetti imperialistici sulla pelle degli altri popoli, la geopolitica può anche aiutare a costruire un mondo più equilibrato. Ma di sicuro può evitare di trovarsi, in un ordine futuro, a fare parte del “Secondo” o del “Terzo Mondo”.

Sfortunatamente la classe di politici e decisori strategici in Italia si cura poco sia della geopolitica sia della strategia. Si preoccupa più che altro delle piccole beghe della politica interna, il cui fine ultimo è spesso la semplice spartizione del tesoro statale.

La politica estera rimane così preda di decisori incompetenti, pronti a scelte immorali o suicide, o comunque facilmente influenzabili da quei piccoli gruppi organizzati che controllano l’informazione italiana. Questi gruppi, per convinzione ideologica o per interesse, sono tutti atlantisti, chi più chi meno ortodosso, e cercano di indirizzare la politica dell’Italia verso l’interesse nazionale non italiano, ma statunitense.

Può sembrare paradossale, ma questa tendenza deprecabile è più marcata oggi che nel 1945, quando eravamo un nemico sconfitto ed occupato dagli USA. Allora c’era più dignità e più senso dell’interesse nazionale, sia tra i politici sia tra il popolo.

Dovrebbe essere il popolo a pretendere dai suoi governanti una politica estera più logica e soprattutto più favorevole all’Italia, e di conseguenza anche al popolo. Anziché condurre politiche favorevoli ad altre nazioni e solo a piccoli gruppi d’interesse nostrani.

I cittadini, anziché disinteressarsi di quanto accade nel mondo o, forse peggio ancora, affidarsi a media generalisti che diffondono più stupidaggini che informazioni, dovrebbero interessarsi alla geopolitica ed alle analisi serie degli specialisti. Così si eviterebbero condotte imbarazzanti e controproducenti da parte dell’Italia, come quella che stiamo vedendo rispetto alla Libia. Ieri sera ho visto in una trasmissione televisiva un ex ministro degli esteri italiano affermare che “Gheddafi”, cioè il legittimo governo libico, avrebbe ucciso 10.000 oppositori nei primi giorni di rivolta. La giornalista conduttrice non ha chiesto conto di simile affermazione, sono dovuti intervenire altri ospiti per far notare che si trattava d’una fantasia del tutto infondata. Se i cittadini s’informassero di più ed i giornalisti fossero più professionali, nessuno potrebbe andare in televisione a fare simili sparate propagandistiche senza poi uscirne palesemente screditato.


Andrea Fais: Quando parliamo del tempo, volendo oltrepassare la dimensione necessaria ma convenzionale del tempo tecnico o “quotidiano”, facciamo preciso riferimento ad una concezione più generale e più estesa della scansione cronologica, a cui corrisponde un particolare senso della vicenda umana, un cosiddetto senso (quando non un fine) della storia vero e proprio. Negli Anni Novanta, Francis Fukuyama, sull’onda trionfalistica della fine della Guerra Fredda, aveva re-introdotto nel dibattito occidentale la categoria storicistica del “compimento”, della fine del tempo storico, applicando uno schema tipicamente millenaristico ed escatologico alla vicenda epocale del capitalismo e della democrazia liberale, inquadrati quali i pilastri del futuro ordine mondiale. Evidentemente smentito dal corso degli eventi successivi, in realtà altri teorici, tra cui il ben più lungimirante Samuel Huntington, avevano avvertito l’imminente comparsa di nuovi ostacoli sul cammino dell’unica super-potenza rimasta, ostacoli forse persino più oscuri e indecifrabili rispetto al passato. Già alla fine degli Anni Novanta si è iniziato a parlare di una seconda era nucleare, ridefinita in base alla più alta probabilità di impiego di armi nucleari tattiche e di precisione, stravolgendo in parte lo schema di Mutual Assured Destruction, ormai obsoleto, che aveva contraddistinto per lungo tempo la contrapposizione della Guerra Fredda tra le due super-potenze. Lo scenario delineatosi ha dunque risentito di alcune sostanziali novità geo-strategiche, quali il concetto di guerra a-simmetrica, la dimensione strategico-militare del cosiddetto cyberspace, e il passaggio dal sistema piramidale al sistema dell’integrazione delle reti nell’ambito dell’intelligence: tutti processi inquadrati nel più ampio percorso storico della nuova Revolution in Military Affairs, quale espansione in campo militare della rivoluzione tecnologica delineatasi tra gli Anni Ottanta e Novanta. La dissoluzione dell’Unione Sovietica e di gran parte dei Paesi socialisti ad essa collegati, ha contribuito ad una frammentazione geopolitica senza precedenti recenti, causa efficiente di un pianeta certamente più insicuro, più problematico e molto più complesso del passato. Quali sono i principali protagonisti geopolitici della nuova contrapposizione mondiale, e quali strategie stanno adottando per i prossimi decisivi anni?

Daniele Scalea: Senza dubbio il principale protagonista sono gli USA. Come dicevo prima il momento unipolare sta volgendo al termine, ma non è ancora finito. Noi ci troviamo in una fase di transizione tra l’unipolarismo e il multipolarismo. Una fase in cui gli USA sono ancora l’egemone, seppure non sono più incontrastati. Credo che l’aver individuato e descritto questa fase in tempi non sospetti sia il carattere più peculiare ed il merito principale della rivista “Eurasia”.

Fin dagli anni ’90, ossia dall’inizio del momento unipolare, negli USA ci si è interrogati su come mantenere la loro supremazia incontrastata e la loro egemonia planetaria. All’inizio del decennio appena trascorso alcuni eventi – la crescita imponente della Cina e la ripresa russa sotto Putin – hanno spinto gli USA ad affidarsi ad una corrente estremista, quella dei neoconservatori. La loro tesi era ed è che gli USA debbano annichilire ogni potenziale avversario. Questo si può ottenere, nel migliore dei casi, mantenendo un livello d’armamenti tale che a nessun altro paese venga neppure l’idea di provare ad armarsi a propria volta. Se invece qualche paese, testardamente secondo il punto di vista di Washington, avesse comunque provato a colmare il gap con gli USA, allora bisognava annientarlo manu militari, a prescindere ch’esso mostrasse intenzioni ostili. È questo il principio della guerra preventiva. Non si tratta, come lo dipinsero allora i partigiani atlantisti e del bushismo, di colpire per primi un avversario che sta per attaccare gli USA. Si tratta di attaccare un paese perché ipoteticamente, in futuro, potrebbe voler sfidare la supremazia degli USA. “Sfidare”, non attaccare. Questi termini li sto riprendendo dai documenti del PNAC, il principale pensatoio statunitense cui partecipavano molti uomini che poi finirono nell’amministrazione Bush.

Per fortuna questo progetto si è arenato quasi subito. Le campagne in Afghanistan e Iraq, preventivate come delle passeggiate militari, hanno impantanato la macchina militare degli USA impedendo di attaccare anche Sudan, Siria e Iran, i paesi che seguivano sulla lista. Anche il progetto di scudo spaziale, che serviva ad avere ragione di Russia e Cina tramite la supremazia nucleare, non ha per ora dato i frutti sperati.

Per tale ragione, già prima che terminasse l’amministrazione Bush, i neoconservatori hanno perduto peso a vantaggio dei realisti. Ciò è stato palesato dall’avvicendamento tra Rumsfeld e Gates al segretariato alla difesa. Barack Obama è stato alle ultime elezioni il candidato dei realisti. Sostanzialmente, i realisti vorrebbero più accortezza diplomatica e meno esibizionismo muscolare fine a se stesso. Ciò non significa assolutamente che siano pacifisti o contrari alla guerra. Obama stesso lo sta dimostrando: ha allargato il conflitto afghano al Pakistan (giustificandosi con l’uccisione di Bin Laden, per ora ancora presunta dato che non sono state presentate delle prove) ed ha aggredito la Libia. Inoltre ha dato mano libera ai suoi alleati in Bahrayn e Costa d’Avorio.

Sostanzialmente, i realisti hanno preso atto del declino statunitense, ed hanno concluso che per mantenere l’egemonia devono compensare la riduzione di forza con la scaltrezza diplomatica. Ad esempio, concedendo qualcosa in più a Francia, Gran Bretagna e Arabia Saudita, si lascia agli alleati il grosso del peso nei conflitti in Libia, Costa d’Avorio e Bahrayn, tra l’altro evitando pure le ricadute d’immagine negative – fattore non poco importante per un presidente come Obama, una figura preminentemente costruita a fini propagandistici, per rilanciare l’immagine degli USA nel mondo dopo la pessima pubblicità fatta da Bush.

Soprattutto, i realisti vorrebbero realizzare un’alleanza tattica tra gli USA ed una potenza rivale. Si tratta, in pratica, di allearsi o con la Cina contro la Russia, o con la Russia contro la Cina. Questo è il senso del G2 che Obama cercò di costruire nei primi mesi della sua amministrazione, ed ora del “reset” nei rapporti con la Russia. È uno schema ben collaudato, che rientra nel solco del divide et impera e sfrutta la lontananza degli USA dal decisivo teatro eurasiatico. Nel ‘900 gli USA giocarono la Russia contro la Germania e poi la Cina contro la Russia. Ora stanno cercando di giocare Russia, India e Giappone contro la Cina.

La Russia è sempre in bilico tra una fazione che vorrebbe un’alleanza tra i poli emergenti contro l’egemone, ed un’altra che vorrebbe diventare il braccio destro dell’egemone. Se è forse vero che Medvedev è il personaggio più in vista del secondo orientamento, è falso vedere in Putin il capo del secondo. Putin, anzi, nasce come occidentalista e nei suoi primi anni di presidenza cercò l’alleanza con gli USA, anche se tenendo la schiena dritta anziché piegarsi sempre come El’cin.

Semmai, Putin si è spostato verso una posizione mediana tra i due estremi. Coltiva i rapporti con gli altri paesi poli emergenti, ma non rinuncia ad un interesse prioritario verso l’Europa (più che verso gli USA). L’integrazione in un sistema di sicurezza paneuropeo servirebbe proprio a “tener dentro la Russia e tener fuori gli USA”, per rovesciare un celebre detto del primo segretario della NATO. Ma non dimentichiamoci che è stato Putin a volere Medvedev come suo successore, con l’evidente intento di rilanciare i rapporti con la NATO. E che negli ultimi anni tanto è stato roboante Putin nei suoi proclami, tanto mansueto Medvedev nel piegarsi sempre alle richieste occidentali.

Per quanto riguarda la Cina, invece, permane sempre la logica del basso profilo diplomatico per garantirsi anni di tranquilla crescita economica. Una volta che la Cina sarà la principale potenza economica, allora rivendicherà pure il primato politico. È però vero che la crisi finanziaria sta spingendo la Cina verso un nuovo modello di sviluppo, meno integrato agli USA e più rivolto al mercato interno. Questo darà anche un’accelerazione al nuovo orientamento politico.


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