Introduzione[1]

In che modo ci si inibisce una seria riflessione sul Vicino Oriente? Rinunciando a coglierne le complessità. Una delle principali mode giornalistiche attuali è – ad esempio – quella di interpretare tutto ciò che accade in quella parte del mondo secondo lo schema “musulmani sciiti contro musulmani sunniti”: nulla di più impreciso. Le rivolte arabe sono detonate in paesi – Tunisia ed Egitto – assolutamente omogenei etnicamente (completamente arabi) e dal punto di vista confessionale (interamente sunnita la Tunisia, sunnita in tutta la propria popolazione musulmana l’Egitto). Quanto ai paesi meno omogenei etnicamente e religiosamente non solo assistiamo a divisioni interne alle stesse compagini di fede ed etnia, ma anche ad alleanze eterogenee di gruppi armati e politici diversi, convergenze tattiche dettate da nemici comuni, da scelte di padrini o finanziatori esterni o dalla possibilità di assicurare destini migliori al proprio gruppo più che non dalle rigidità ideologiche di schieramento politico o di credo. Tra le diverse fazioni sciite irachene ve ne sono di avverse all’Iran e al governo siriano degli Assad[2], così come tra i jihadisti arabi sunniti siriani si assiste da anni ad un continuo regolamento di conti tra le fazioni vicine all’Isis, alle locali filiali di Al Qaeda e ad altri gruppi salafiti e non. A complicare lo scenario, le divisioni tribali tra arabi sunniti, la presenza dei curdi, sunniti ma non arabi e in cui è il fattore etnico a prevalere (a propria volta divisi però tra partiti e fazioni, alcune delle quali – il governo del Kurdistan iracheno – persino filo-turche) e i cristiani, etnicamente arabi tra i quali in Siria ed in Iraq prevale invece il fattore dell’identità religiosa che li porta ad optare per la più forte componente laica sul campo o la più forte non a loro avversa a seconda del “momentum” tattico[3], mentre in Libano – dove sono ancora relativa maggioranza – hanno la meglio rivalità settarie (o persino di affiliazione clanica nello stesso sottogruppo maronita).

 

Caso di studio: il punto di vista israeliano

L’assenza di schemi rende difficile identificare nell’area attori su cui puntare stabilmente. Se l’obiettivo dei governi occidentali – quanto meno quello dichiarato – è di diffondere la liberaldemocrazia in quell’area, non vi sono alleati su cui puntare (esclusi sparuti gruppi di intellettuali urbani più o meno avulsi dal locale contesto sociale). Se l’obiettivo è la stabilità e il contrasto al jihadismo di marca wahhabita e salafita – quello da cui scaturiscono Daesh ed Al Qaeda – ecco che sistematicamente i governi europei hanno selezionato gli interlocutori peggiori: governi settari e reazionari che hanno finanziato il jihadismo (Qatar ed Arabia Saudita) e raccogliticce forze ribelli siriane, esplicitamente jihadiste o comunque ideologicamente condizionate dal salafismo.

Quanto al miglior alleato dell’Occidente nell’area, Israele, l’appoggio israeliano ai movimenti jihadisti non è dettato solo da ragioni tattiche – la comune avversione per la Repubblica Islamica dell’Iran – ma anche da visioni strategiche di lungo termine: la disintegrazione della nazione araba nei mille rivoli dei settarismi costituirebbe per Israele una vittoria determinante. La regressione dei popoli arabi allo stato tribale è l’antico sogno sionista fin dai tempi dei padri fondatori dello stato ebraico, che mai considerarono gli arabi più che primitivi[4]. Da qui l’alleanza sionista coi regimi arabi più retrivi, al fine di disintegrare gli Stati arabi in un pulviscolo di emirati wahabiti al più basso grado di sviluppo umano un domani. Il piano americano del “grande Medio Oriente” non appartiene alla fantapolitica, ma sembra ormai la linea guida e la direttrice di una classe dirigente neocon e sionista per nulla interessata alla stabilità della regione quanto alla sua balcanizzazione. Illuminante è la riproposizione di tale visione nel pensiero di un esponente dell’intellettualità israeliana contemporanea: si legga su “La Stampa” la recente intervista allo studioso israeliano Mordechai Kedar (Università Bar-Ilan). Da una base di lettura relativa al peso dell’elemento tribale nella società araba si arriva a conclusioni completamente false che mistificano la realtà sociopolitica mediorientale a tutto vantaggio delle mire israeliane[5]. Questa visione balcanizzante del Vicino Oriente, tipica dell’ala più dura della destra sionista, riemerge e riaffiora da decenni all’interno degli ambienti di pensiero israeliani ed è in sostanza sovrapponibile all’articolo dello studioso Oded Yinon apparso sulla rivista ebraica “Kivunim” nel Febbraio 1982. Riportiamo, analizziamo e decostruiamo alcuni punti salienti dell’intervista: 

– Kedar: “Negli Anni 20, quando l’impero britannico ne ha tracciato i confini, si sperava che l’Iraq sarebbe diventato uno Stato con un governo, un sistema giuridico, e che tutte le tribù avrebbero rinunciato alle realtà del gruppo etnico e si sarebbero sviluppate in un’unica nazione. In Iraq oggi ci sono 74 tribù, ognuna con il proprio territorio, la propria leadership e una milizia armata. Ci sono 10 religioni, alcune divise in sette. Il sogno britannico dunque non si è mai realizzato. E lo stesso vale per Libia, Algeria, parte del Marocco e della Giordania, per lo Yemen, dove ogni tribù vive su una montagna ed è in lotta l’una contro l’altra”. Tutto falso: i britannici speravano di creare Stati divisi al proprio interno ed instabili da poter meglio controllare e ci sono riusciti perfettamente fino alla stagione delle rivoluzioni nazionali che proprio i sionisti avversano e fino al subentrare degli USA come potenza egemone dell’area. Le tribù in Iraq non arrivano “oggi”, mentre è peggio che fuorviante descrivere paesi come Algeria e Marocco preda del tribalismo sullo stesso piano di Libia e Yemen. 

– Kedar: “Il Medio Oriente esporterebbe (…) i propri problemi in Europa, perché l’Europa stessa ha costituito in Medio Oriente Stati illegittimi. Sarebbe la vendetta dell’angelo della storia. L’unica soluzione è creare nell’immediato emirati, come quelli del Golfo, smantellando gli Stati illegittimi”. Quale sia il criterio di legittimità statuale cui Kedar tiene tanto non ci è dato sapere. Come modelli virtuosi di Stato arabo si riferisce ad emirati monotribali o monoetnici e settari come quelli del Golfo (vedasi la popolazione sciita del Bahrein governata da una rigida dinastia sunnita o l’oppressione degli sciiti in Arabia Saudita) e non esattamente un esempio fulgido di diritti umani, stabilità e democrazia. 

– Kedar: “La creazione di Stati tribali omogenei può rappresentare anche un antidoto al fenomeno del jihadismo (ndr). Solo le realtà omogenee riescono a respingere i jihadisti, perché questi portano un’agenda rivoluzionaria, mentre i gruppi omogenei vogliono stabilità, vita e sviluppo. È per questo che nel Golfo non ci sono jihadisti. Se si crea uno Stato arabo basato sulla tradizione, sarà uno Stato fiorente. Se invece se ne crea uno basato su idee europee sarà il caos”. In questa visione profondamente razzista i trogloditi arabi non sarebbero degni degli “Stati basati su idee europee”, che risultano quindi “illegittimi”. Nella visione faziosa tracciata dallo studioso e sposata dal governo israeliano, i jihadisti – che l’Arabia Saudita esporta da decenni in tutto il mondo arabo – non sarebbero presenti nel Golfo. Al lettore europeo contemporaneo potrebbe apparire singolare il fatto che questo appello alla purezza etnica e religiosa degli Stati provenga da un israelita, mentre, in realtà, emerge qui il medesimo presupposto ideologico su cui si fonda lo Stato d’Israele, prodotto di quel nazionalismo etnico ottocentesco che è il sionismo.  

 

Conclusioni

Come abbiamo cercato di ricordare in diverse occasioni, l’Europa non ha nell’Islam un nemico religioso, ma ha nell’islamismo un nemico politico. Una lettura monodimensionale del mondo arabo ed islamico che ne riduca la complessità sociale alla arretratezza ed al fanatismo religioso è estremamente pericolosa, perché preclude una chiara lettura dei fatti e l’identificazione del nemico. Una lettura del genere è funzionale al sionismo, sia perché giustifica un’eterna guerra contro il mondo arabo ed il mondo islamico, sia perché intende avvicinare l’Europa ai fautori dell’interpretazione più gretta e settaria dell’Islam.


NOTE

[1] Questo articolo costituisce la seconda parte del precedente La spartizione degli stati sovrani secondo linee etniche (https://www.eurasia-rivista.com/le-spartizioni-stati-sovrani-secondo-linee-etniche/)

[2] https://www.eurasia-rivista.com/le-incognite-sul-futuro-assetto-mediorientale/

[3] Su questa specifica tematica, è fondamentale Alliance Formation in Civil Wars di Fotini Christia, 2013, Cambridge.

[4] Sui rapporti tra padri del sionismo e popolazione araba della Palestina si veda Arturo Marzano, Storia dei Sionismi, Carocci, 2017, per nulla tacciabile di pregiudiziale antisionismo.

[5] Articolo completo qui http://www.lastampa.it/2017/09/18/cultura/ritorno-agli-stati-tribali-cos-il-medio-oriente-potr-ritrovare-la-pace-yPVJrhdP1YAyxHYvGj6CCN/pagina.html


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Amedeo Maddaluno collabora stabilmente dal 2013 con “Eurasia” - nella versione sia elettronica sia cartacea - focalizzando i propri contributi e la propria attività di ricerca sulle aree geopolitiche del Vicino Oriente, dello spazio post-sovietico e dello spazio anglosassone (britannico e statunitense), aree del mondo nelle quali ha avuto l'opportunità di lavorare e risiedere o viaggiare. Si interessa di tematiche militari, strategiche e macroeonomiche (si è aureato in economia nel 2011 con una tesi di Storia della Finanza presso l'Università Bocconi di Milano). Ha all'attivo tre libri di argomento geopolitico - l'ultimo dei quali, “Geopolitica. Storia di un'ideologia”, è uscito nel 2019 per i tipi di GoWare - ed è membro della redazione del sito Osservatorio Globalizzazione, centro studi strategici diretto dal professor Aldo Giannuli della Statale di Milano.