Cosa ha spinto i Paesi occidentali – e soprattutto la Francia – a destinare i propri sforzi militari ed economici per arginare i movimenti ribelli in Mali? Loro dicono la difesa della democrazia e la tutela dei diritti umani. Ma è vero? O bisogna considerare anche altre ragioni che hanno portato alla creazione di una missione ONU di notevoli dimensioni? L’operazione MINUSMA, infatti, conta circa 12.000 uomini; è la terza missione più grande attualmente in corso da parte delle Nazioni Unite e lo scorso 1 luglio ha preso il posto della missione MISMA. Considerando a fondo le potenzialità che il Mali offre, non appare strano e fuori luogo pensare che dietro alle motivazioni ufficiali le vere ragioni dell’intervento occidentale siano altre.

 

 
Nel corso degli ultimi anni il Mali ha vissuto un difficile periodo di crisi politica, socioeconomica e umanitaria, le cui origini sono da ricercare non solo nel colpo di Stato del 2012 e nell’azione terroristica di gruppi legati ad Al Qaida, ma anche nella debolezza strutturale delle istituzioni e nell’inefficacia dei governi che si sono succeduti. A questo si deve poi aggiungere la corruzione, gli abusi di potere e i conflitti interni che generano una situazione di profonda insicurezza. E che hanno fatto precipitare il Paese in una guerra che continua ancora oggi, anche se con toni più bassi.

Fino a pochi mesi fa, si parla di gennaio scorso, il Paese era praticamente spaccato in due. Ma andiamo per ordine. Nell’aprile 2012 il gruppo organizzato di etnia tuareg MNLA (Movimento Nazionale per la liberazione dell’Azawad) è riuscito ad ottenere il controllo del nord del Mali e a dichiarare l’indipendenza dell’Azawad, storica regione con tre importanti città: Gao, Timbuctù e Kidal. Da qui, il MNLA si è dovuto scontrare con i due gruppi islamisti AQIM(Al Qaeda nel Maghreb Islamico) e MUJAO (Movimento per l’unità e il jihad in Africa Occidentale) dovendo di fatto soccombere e cedere ad essi il controllo della regione.

La situazione nel nord è sfuggita al controllo dell’autorità centrale, in grosse difficoltà e incapace di difendere la sovranità nazionale del Mali, e ha visto il prevalere degli estremisti jihadisti che hanno applicato per un lungo periodo in modo barbaro e primitivo i concetti della sharia. Al sud, sebbene la situazione non sia stata del tutto tranquilla, la matrice islamista è stata decisamente inferiore. Anche qui, però, l’instabilità politica è cronica1.

In un simile contesto di anarchia, dominato dall’insicurezza e dal terrore generato dai gruppi di estremisti, la Francia di Hollande ha deciso, ai primi di gennaio scorso, di intervenire con la missione Serval, un’operazione di aiuto militare e logistico alle forze governative. Da quel momento c’è stato un crescendo da parte delle potenze occidentali nell’intervenire a sostegno del governo di Bamako. Le ragioni addotte sono sempre state le stesse: motivi umanitari e difesa dei diritti umani. Agli occhi di un osservatore superficiale questa potrebbe appare una giustificazione più che credibile, ma chi sa che gli Stati occidentali non si muovono per nulla, comprende bene che dietro a questa motivazione teorica ce ne siano altre.

Per individuare l’importanza del Mali bisogna analizzare la ricchezza del sottosuolo: la grande presenza di oro porta lo Stato africano ad essere il terzo produttore africano e undicesimo mondiale. Allo stesso tempo sono presenti giacimenti di bauxite, manganese, ricche riserve di petrolio e gas – che sono stati individuate di recente, ma non ancora sfruttate – e soprattutto di uranio, che fanno gola a molti Stati, Francia in primis, dato il suo incessante bisogno di alimentare le oltre cinquanta centrali nucleari presenti oltralpe. E’ proprio il settore petrolifero ed energetico che suscita l’interesse di importanti multinazionali, a partire dalla francese Total e dall’algerina Sonatrach, senza dimenticare anche l’italiana Eni. La Total, in particolare, ha definito la regione compresa tra Mauritania, Niger e Mali come il nuovo “Eldorado”, sottolineando come essa possa essere, in un futuro non troppo lontano, sfruttata in maniera intensiva per generare importanti introiti.

Le grandi potenzialità di questa regione dal punto di vista della produzione di gas e di giacimenti petroliferi hanno spinto il governo francese ad agire, giustificando l’intervento con la volontà di rendere sicura la regione e difendere la popolazione da attacchi terroristici. In realtà, i jihadisti si sarebbero potuti rivelare un problema per i commerci della regione e l’estrazione delle risorse naturali. La volontà principale era, dunque, quella di evitare che l’attività dei ribelli potesse espandersi fino a compromettere gli interessi anche negli Stati vicini, a partire dall’Algeria – considerata una sorte di “cortile di casa” francese – fino alla Nigeria, dove anche qui le multinazionali sono presenti in maniera significativa. I terroristi non conoscono confini, e la possibilità che essi potessero spostarsi anche negli Stati limitrofi spaventava l’Occidente.

L’intervento francese può anche essere inteso come il tentativo di opporsi all’espansione dell’egemonia cinese nel continente africano. La presenza della Cina in Africa è ormai cosa ben nota: con il Mali in particolare, le relazioni sono molto buone fin dall’anno dell’indipendenza – 1960 – quando la Cina fu uno dei primi Paesi a riconoscere il nuovo Stato indipendente. Da questo momento le relazioni economiche-commerciali fra i due Paesi sono cresciute intensamente anno dopo anno: si calcola che oggi l’ammontare dei commerci bilaterali raggiunga le centinaia di milioni di dollari. Questa egemonia cinese non viene certo vista di buon occhio da parte di quelle potenze europee – ma non solo – che hanno interessi nella regione.

La presenta di estremisti nel nord del Mali rappresenta ancora oggi una minaccia per l’intera regione del Sahel. Sebbene la Francia e la missione MISMA – ora sostituita dalla MINUSMA2 – abbiano agito efficacemente nella regione, respingendo e disperdendo i terroristi legati ad Al Qaeda, che si sono rifugiati nelle gigantesche catene montuose degli Ifoghas, la loro completa neutralizzazione è un’operazione complessa che richiede una presenza costante e un’azione a medio-lungo termine. Proprio per consolidare e migliorare la situazione fin qui raggiunta, l’ONU ha deciso di dispiegare la missione MINUSMA.

 

 

La missione MINUSMA

Lo scorso 1 luglio l’autorità del MISMA (Missione Internazionale di sostegno al Mali) è passata in mano al MINUSMA3(Missione Multidimensionale Integrata delle Nazioni Unite per la Sicurezza del Mali), creata con la risoluzione ONU 2100 del 25 aprile 2013, che ha compito di garantire sicurezza e stabilità alla regione, proteggere i civili da eventuali minacce e garantire il rispetto dei diritti umani.

Una missione importante per la sicurezza e la pace non solo del Mali stesso, ma dell’intera regione: appare infatti essenziale evitare che il conflitto e l’azione dei terroristi possa espandersi e contagiare anche i vicini Stati. Gli interessi in gioco – soprattutto per le potenze occidentali – sono molto alti, è una situazione di guerra impedirebbe lo sviluppo di relazioni commerciali ed economiche che potrebbero risollevare la disastrata economia maliana.

La nuova fase dell’intervento, quella della stabilizzazione servirà ad accompagnare le autorità maliane nel processo di “transizione democratica” che dovrà proseguire anche oltre le prossime elezioni presidenziali previste per il 28 luglio prossimo.

 

 

Scenari futuri

In una regione contrassegnata da numerose crisi di governo, il Mali si presenta come uno Stato debole, la cui struttura governativa è estremamente fragile. L’intervento delle Nazioni Unite, che hanno dato il via all’operazione MINUSMA ad inizio luglio, non può – ovviamente – durare a lungo. E’ necessario che il Paese si risollevi e che un governo forte e stabile riprenda in mano una situazione che – per troppo tempo – è stata in balia degli eventi e di gruppi terroristici. L’occasione per farlo è alle porte: le prossime elezioni presidenziali. La Corte Costituzionale ha già accettato la candidatura di 28 candidati (mentre 8 sono stati rifiutati) per quello che si presenta come un importantissimo banco di prova per il Mali.

Sul versante della sicurezza, l’operazione delle Nazioni Unite,4 forte di circa 12 mila uomini, dovrebbe fornire le adeguate garanzie a difesa della popolazione. A partire dalle imminenti elezioni presidenziali, delle quali gli uomini del contingente dovranno sorvegliarne la regolarità, l’azione principale sarà rivolta a contrastare i gruppi terroristici che, sebbene siano stati dispersi nelle catene montuose, sono ancora in vita e potenzialmente pericolosi.

E’ inoltre importante garantire il rientro dei rifugiati scappati a causa del conflitto e soprattutto permettere il ristabilimento della normalità.

Quello che appare chiaro è che le potenze che hanno spinto per l’intervento – Francia e Stati Uniti in particolare – sono decise nella loro azione e che la loro preoccupazione maggiore è di evitare che la crisi possa trasformarsi in un conflitto a bassa intensità come avvenuto in Afghanistan.

Le enormi ricchezze del sottosuolo maliano – a partire dall’oro fino alle risorse energetiche – fanno gola a molti governi e alle multinazionali. Da qui la naturale domanda se il motivo dell’intervento sia veramente la volontà di combattere il terrorismo o sia piuttosto un tentativo di tutelare gli interessi economici nel Paese. I precedenti degli ultimi anni non sono – purtroppo – favorevoli. Gli interventi in Afghanistan, Iraq, Costa d’Avorio e Libia ci presentano un quadro totalmente differente rispetto alle dichiarate giustificazioni addotte per l’intervento militare.

La paura del terrorismo è certamente reale: la possibilità che il Mali possa trasformarsi in uno Stato fallito come la Somalia, devastato da conflitti etnici interni non è cosa impensabile. In questo senso vanno intesi gli ingenti aiuti che i nordamericani hanno riversato negli ultimi anni a favore dell’esercito del Mali, e nondimeno il sostegno degli Stati Uniti all’intervento francese con la missione Serval.

Ma, come già sottolineato sopra, gli interessi occidentali in Mali vanno al di là della semplice stabilizzazione della regione. O meglio, la stabilizzazione della zona è direttamente collegata con quelli che sono importanti e determinanti interessi di tipo economico, che vedono il governo di Hollande in prima fila, sia per quanto riguarda i giacimenti di petrolio, sia per ciò che concerne la produzione di oro e di uranio, necessario per alimentare le centrali nucleari presenti sul suolo francese.

Il futuro dello Stato maliano non si presenta roseo: le divisioni fra Nord e Sud del Paese, tra tuareg e neri, tra arabi e africani, sono profonde, e sebbene l’intervento ONU sia stato proposto proprio per ridurre le tensioni e difendere la popolazione, la stabilità del Mali dovrebbe prescindere dalla presenza di un contingente internazionale. Le imminenti elezioni presidenziali saranno un ottimo banco di prova per il processo politico del Paese e consentiranno di comprendere fino a che punto l’azione dei terroristi influenzerà la vita politica nazionale. Quello che è certo è che le multinazionali – e con loro i governi nazionali – non lasceranno il territorio maliano a breve: gli interessi commerciali in ballo sono troppo importanti. Ma in questo modo la missione MINUSMA rischia di essere troppo collegata agli interessi economici occidentali piuttosto che a quelli reali – e ben più importanti – dei circa 15 milioni di abitanti del Mali, che già troppo hanno sofferto.

Gli interessi delle grandi potenze non sono destinati a calare ma – anzi – a subire un rapido incremento, a maggior ragione se si riuscirà ad avere un governo “stabile” e “fantoccio” alla guida del Mali. Stati Uniti, Cina e Francia sono in prima linea per una nuova “colonizzazione” dai risvolti decisamente diversi rispetto a quella cui siamo abituati a pensare. Non più un controllo diretto dei Paesi, ma attraverso ingenti aiuti economici e il soft power, un controllo indiretto – ma non per questo meno pesante – dello Stato a cui si è interessati.

Un altro problema che sta emergendo in questi ultimi anni relativamente al nuovo colonialismo è il “land grabbing“: l’accaparramento di terre coltivabili a cui i grandi Paesi, fra cui Cina, Arabia Saudita, Corea del Sud (per citarne solo alcuni), sono interessati per potersi garantire la produzione monoculturale di un determinato prodotto volto esclusivamente all’esportazione.

Il Mali, a causa della sua debolezza istituzionale, della sua vastità e della ricchezza del suo sottosuolo rappresenta appieno un possibile obiettivo per questo nuovo tipo di colonialismo che, probabilmente, viene già attuato seppur ancora in maniera ridotta.

 

 

*Carlomaria Bottacini ha conseguito la laurea triennale in Scienze Internazionali e Istituzioni Europee presso l’Università degli Studi di Milano ed è attualmente studente in Relazioni Internazionali presso il medesimo ateneo.

 

 

Note Bibliografiche e Riferimenti Multimediali

1http://scienzaepace.unipi.it/index.php?option=com_content&view=article&catid=21:guerre-e-conflitti&id=130:qual-e-linteresse-del-mali

2http://www.peaceau.org/en/article/afisma-transfers-its-authority-to-minusma

3http://www.un.org/en/peacekeeping/missions/minusma/background.shtml

4http://www.diplomatie.gouv.fr/en/country-files/mali-224/events-2627/article/mali-transformation-of-afisma-into

 

 

 

 


Questo articolo è coperto da ©Copyright, per cui ne è vietata la riproduzione parziale o integrale. Per maggiori informazioni sull'informativa in relazione al diritto d'autore del sito visita Questa pagina.