Home Negozio Riviste LXVI – Pressioni atlantiche e risposte eurasiatiche

LXVI – Pressioni atlantiche e risposte eurasiatiche

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Nel progetto geostrategico elaborato da Zbigniew Brzezinski una trentina d’anni fa il ruolo assegnato all’Ucraina si inseriva in un panorama caratterizzato dall’allargamento della NATO ad est e dal complementare ampliamento dell’Unione Europea, “sostanziale testa di ponte geopolitica dell’America in Eurasia [America’s essential geopolitical bridgehead in Eurasia]”. Collaborando al progetto statunitense di penetrazione nel continente, le cosiddette élites europee hanno provocato la tardiva ma inevitabile reazione russa.

Descrizione

GEOPOLITICA E POLEMOLOGIA

Gli Stati Uniti d’America hanno compiuto la loro scelta strategica: ritirarsi dall’Asia Centrale per “contenere” la Federazione Russa, la Repubblica Popolare Cinese, la Repubblica Democratica Popolare di Corea e la Repubblica Islamica dell’Iran dal mare e dalla costa. Il presente studio, partendo dal livello strategico, indaga il riflesso di questa impostazione geopolitica sulla dottrina militare degli Stati Uniti, trovando corrispondenza nella programmazione delle forze armate di questi ultimi, con un rinnovato accento sulla Marina e sui Marines.

Nel contesto di una operazione militare, l’utilizzo della forza è disciplinato dalle regole di ingaggio, che determinano condizioni e presupposti per l’utilizzo delle armi, siano esse letali o meno. L’impiego, non più solo potenziale ma ormai attuale, di armi fisiche e logiche operanti nello spazio cibernetico richiede l’adattamento del vigente sistema di regole di ingaggio ad un dominio di combattimento di recente, ma ormai massivo, impiego. Il presente saggio, dopo aver tratteggiato una descrizione delle regole di ingaggio, ne propone un modello per la condotta di operazioni di guerra informatica.

PRESSIONI ATLANTICHE E RISPOSTE EURASIATICHE

Tutte e quattro le ipotesi prospettate dall’opinione pubblica occidentale per l’evoluzione della crisi appaiono allo stato attuale irrealistiche e/o irrealizzabili. Un’Ucraina atlantista sotto il pieno controllo di Washington è stata fin dall’inizio esclusa dalla Russia, che si troverebbe i soldati della NATO a pochi chilometri da Mosca. Ciò implicherebbe l’immediata secessione delle regioni del Donbass e l’amputazione della nazione ucraina, sul modello di quanto successo in Georgia nel 2008. Un’Ucraina europeista era stata accettata dalla Russia già ai tempi della Presidenza Janukovyč, ma oggi trovare delle differenze tra l’Unione Europea e la NATO è praticamente impossibile. I risultati delle elezioni tedesche e lo stesso Governo Draghi in Italia non faranno che rafforzare la tendenza atlantista di Bruxelles, al punto che le uniche iniziative diplomatiche rilevanti appaiono ormai solo quelle portate avanti dalle grandi aziende. Un’Ucraina equilibrista è ormai irrealizzabile. La stessa presidenza Zelens’kyj, dopo un’iniziale speranza di normalizzazione delle relazioni con Mosca, ha non solo archiviato gli Accordi di Minsk, ma posto la parola fine a qualsiasi ipotesi di federalizzazione del Paese. Un’Ucraina indipendentista è assolutamente impossibile, perché il paese si trova a vivere una gigantesca crisi economico-finanziaria dovuta al mancato aiuto europeo e statunitense dopo il golpe di Maidan del 2014, ragion per cui il suo vincolo esterno (russo o nordamericano che sia) non farà che accentuarsi nei prossimi mesi. (L’articolo è stato scritto prima del 24 febbraio 2022).

L’idea di integrare l’Europa con la Russia e con l’Asia è, nella riflessione geopolitica moderna, rilevante quanto quella di Occidente ed Oriente. L’auspicio o il terrore che ciò avvenga, nonché le difficoltà che sorgono dal provarci o dall’impedirlo, sono tra le principali cause delle scelte e delle azioni intraprese dalle grandi potenze. È un’idea ed un progetto che va compreso, in particolar modo in un momento in cui l’Europa si sta trasformando in una zona di scaricamento delle tensioni internazionali.

Esiste la tendenza più o meno diffusa tra i mezzi di informazione occidentali a voler ridurre la politica estera iraniana degli ultimi anni al cosiddetto “accordo sul nucleare”. Se questo poteva essere parzialmente vero per quanto concerne l’amministrazione di Hassan Rouhani, che ha fondato le sue fortune/sfortune proprio sul suddetto accordo, lo stesso non si può dire per il nuovo corso imposto da Ebrahim Raisi, che in “Occidente” viene indicato in modo sprezzante col termine inglese “hardliner” (un conservatore duro e puro). In questa analisi si cercherà di dimostrare come il nuovo Presidente, lavorando in comunione di intenti con la Guida Suprema, stia cercando di imprimere una accelerazione decisiva al processo di integrazione dell’Iran nel grande disegno eurasiatico in collaborazione (sempre più stretta) con Russia e Cina.

Cina, Iran e Russia sono in prima linea fra gli Stati indipendenti ed estranei al disegno globalista imposto anche manu militari dagli Stati Uniti. La Turchia – Paese della NATO – si caratterizza oggi per la sua apertura nei confronti di Pechino, Tehran e Mosca per una duplice ragione: il desiderio di giocare un ruolo non allineato e il più possibile autonomo nel contesto che la circonda – in tal modo sancendo nel 2023, l’anno del Centenario della Repubblica, la sua autorevolezza e la sua importanza – e il recupero della sua eredità storica e culturale, che non si riduce al laicismo kemalista filooccidentale. In questo senso da molti viene avvertita l’esigenza di una profonda separazione da quell’ideologia occidentale che gli Stati Uniti vogliono imporre a tutti: al “mondo libero” e a quello “da liberare”. L’articolo passa in rassegna alcuni aspetti delle relazioni fra la Turchia e i tre Stati presi in esame, in particolare quelle situazioni su cui riverbera la minacciosa pressione atlantista.

GEOPOLITICA DELLE SETTE

Il pentecostalismo, nato dal “Grande Risveglio” che ebbe luogo negli Stati Uniti nella seconda metà dell’Ottocento, è un fenomeno in forte ascesa, dato che i suoi fedeli, se ci limitiamo alle denominazioni ufficiali, sono oggi 279 milioni, cifra che sale a 644 milioni se contiamo anche le cosiddette “chiese libere”. Si tratta della religione in maggiore e tumultuosa crescita dopo l’Islam, con masse ormai consolidate in Brasile, America Latina, Africa e Asia; secondo il “Pew Research Center” si stima che in una generazione possa superare il miliardo di adepti. Può una crescita simile non avere implicazioni di tipo geopolitico, dato che una grossa fetta dei pentecostali vede nella restaurazione dello Stato d’Israele uno dei segni degli “ultimi giorni” prima del “giorno del giudizio”? E che condizionamenti apporta all’Italia, tenendo conto dei legami fra pentecostali italiani e statunitensi sin dai tempi dell’invasione “alleata” in Sicilia (1943), essendo i pentecostali i protestanti più numerosi in Italia, con circa 300.000 fedeli?

GEOPOLITICA DEI VACCINI

Abbiamo constatato, in occasione di questa pandemia, la follia collettiva che si è impadronita delle élites occidentali, le quali, con la loro politica mortifera, fanno molte più vittime di quante ne faccia il Covid-19, la cui letalità è estremamente debole (inferiore all’1%, con variazioni a seconda dei luoghi) . Questa follia collettiva ha coinvolto anche una parte delle popolazioni occidentali, che accetta di essere portata al macello economico, sociale e sanitario. Questo “mondo nuovo” non può essere compreso in profondità senza un approccio antropologico, religioso e storico di ampio respiro. È con l’ausilio di queste scienze sociali che si può oltrepassare la realtà apparente e mettere a nudo la realtà reale. L’oligarchia giudeo-occidentale e i suoi microfoni politico-mediatici hanno deciso di utilizzare la popolazione dello Stato ebraico come cavia e come modello per un Occidente scristianizzato che è regredito ad un pericoloso arcaismo sacrificale. Vedremo, dati scientifici alla mano, che i dirigenti israeliani ed occidentali stanno sacrificando scientemente le loro popolazioni. Tocchiamo qui i punti nodali della crisi attuale, la convergenza di due sistemi antropologici e religiosi: quello dell’Occidente (regredito ad una forma di primitivismo dopo il crollo del cristianesimo quale religione strutturante) e quello del mondo ebraico, che vede risorgere l’ombra delle sue antiche pratiche sacrificali. Questa convergenza israelo-occidentale non ha alcun rapporto con la pseudociviltà “giudeo-cristiana”. Assistiamo invece ad una mortifera convergenza giudeo-pagana risultante dal tramonto (forse temporaneo) della civiltà cristiana.

CENTENARI: JEAN THIRIART (1922-1992)

Il 4 marzo 1962 i rappresentanti di alcuni movimenti politici europei firmarono a Venezia un protocollo articolato in dieci punti, i quali, anticipati il 22 febbraio di quell’anno sulla pagina “Jeune Europe” del settimanale “Nation Belgique” diretto da Jean Thiriart, furono presentati l’11 maggio 1962 sul medesimo periodico nella forma che riproduciamo qui di seguito. Quattro anni dopo la firma del Protocollo Europeo, il quindicinale “Jeune Europe” pubblicò una foto dei firmatari del Protocollo di Venezia, accompagnata dalla seguente didascalia, redatta verosimilmente da Jean Thiriart: “Von Thadden, capo dell’attuale Nationaldemokratische Partei Deutschlands, a Venezia nel marzo 1962, al momento della conclusione di una convenzione europea, in compagnia dei rappresentanti ufficiali del MSI Lanfrè e Loredan, di Thiriart e di Mosley. Da allora Von Thadden si è orientato verso il piccolo-nazionalismo tedesco, operazione pagante sul piano elettorale, ma senza avvenire politico” (“Jeune Europe”, n. 245, 11 – 25 nov. 1966, p. 4). “Io penso – dirà successivamente Thiriart – che né Von Thadden né i rappresentanti del MSI avessero la minima intenzione di rispettare le proprie firme” (Yannick Sauveur, Jean Thiriart, il geopolitico militante, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2021, p. 80).

L’Europa come rivoluzione è il titolo di un libro di Lorenzo Disogra che ha per oggetto “pensiero e azione di Jean Thiriart”, come recita il sottotitolo. Il 24 gennaio 2022, in un incontro telematico organizzato e moderato da Matteo Impagnatiello del “Corriere Nazionale”, hanno parlato di Thiriart lo stesso autore del libro, il direttore di “Eurasia” Claudio Mutti e, per il “Centro Studi Italia”, l’avv. Luca Tadolini. Viene trascritto qui di seguito e corredato di note l’intervento del direttore di “Eurasia”.

Chi si interessa al percorso politico o alle idee di Jean Thiriart non conosce, o conosce male, la sua attività professionale, coltivata con una passione pari a quella da lui dedicata all’azione politica. “Photons”, fondata da Thiriart nel 1958, sotto il suo impulso divenne la rivista della Société d’Optométrie Européenne (SOE), la quale, nata nel 1967, intende prefigurare l’Europa unitaria ed essere uno strumento al servizio dell’unificazione europea della professione. Il lettore sarà sicuramente sorpreso di scoprire, in una rivista professionale, i lunghi editoriali di Thiriart, nei quali i riferimenti a Lenin ed a Gramsci si accompagnano alle citazioni di José Ortega y Gasset e di José Antonio Primo de Rivera. Il presente articolo descrive i principali temi affrontati da Thiriart, che fanno di “Photons” un fenomeno estremamente originale e interessante.

DOCUMENTI

Questo articolo di Jean Thiriart apparve il 21 settembre 1962 sulla pagina del settimanale “Nation Belgique” intestata a “Jeune Europe”. Il titolo completo dell’articolo era il seguente: Nation Europe? Deux conditions: Armée nationale européenne (U.S. Army Go Home) Indépendance économique (U.S. money Go Home).

Jean Thiriart, Inventaire de l’antiaméricanisme, “La Nation Européenne”, n. 23, dicembre 1967.

RECENSIONI E SCHEDE

VV., Gli adagi di Xi Jinping (Daniele Perra)

Erik Nilsson, Più vicini al paradiso (Adelaide Seminara)

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