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XXXIX – La guerra civile islamica

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Lo scontro che nel mondo islamico contrappone Stati, fazioni ed istituzioni appartenenti in linea di principio alla medesima comunità (la ummah musulmana) è alimentato dal settarismo di un’ideologia eterodossa sostenuta dalle petromonarchie del Golfo e storicamente funzionale alla strategia dell’imperialismo britannico, sionista e statunitense.

Descrizione

DOSSARIO: LA GUERRA CIVILE ISLAMICA

L’avanzata del cosiddetto “Stato Islamico dell’Iraq e della Siria” ha posto seri problemi al sistema attuale delle relazioni internazionali e del diritto internazionale, non solo per le drammatiche atrocità e le palesi violazioni del diritto umanitario da parte dei miliziani radicali, ma anche per via dell’incapacità della “comunità internazionale” di trovare un accordo su come affrontare tale inquietante problema. Ciò si è concretizzato nell’assenza di una risoluzione del CSNU contro l’ISIS, che potesse autorizzare, in ossequio alla legalità internazionale, un conflitto contro il gruppo guidato da Abu Bakr Al-Baghdadi, ponendo gli studiosi dinnanzi a problemi risolvibili solo attraverso elaborazioni dottrinali forzate, volte a giustificare legalmente una guerra senza mandato ONU.

Il termine coranico fitna (“discordia, sedizione, guerra intestina”) indica il crimine più grave, perché equivale ad un suicidio della comunità. La fitna attuale è il prodotto di una sorta di bolscevismo musulmano, negatore di ogni base culturale, che si arroga il diritto di parlare in nome di Dio. L’autore – che per confutare la rovinosa utopia wahhabita si richiama alla Sura V – ritiene che tale deviazione sia il risultato di un’opera di sovversione psicologica, finalizzata a garantire sopravvivenza all’entità sionista, tra le macerie di un Vicino Oriente impegnato in una lotta fratricida.

L’attuale conflitto in Yemen è stato dipinto come scontro tra sunniti e sciiti: sunniti capeggiati dall’Arabia Saudita da un lato e sciiti ispirati dall’Iran dall’altro. In realtà nel paese si fronteggiano due schieramenti politici. L’uno favorevole a un governo su base tribale e strutturato in maniera confederale tra un nord sciita e un sud-est sunnita, l’altro favorevole a una soluzione presidenzialista e unionista. I grandi attori coinvolti non hanno il medesimo interesse nella partita yemenita. L’Arabia Saudita non vuole avere una potenziale spina nel fianco ai suoi confini, mentre l’Iran, il cui appoggio ai ribelli houti non è provato in alcun modo, auspica una soluzione politica della crisi.

Il quadro politico istituzionale della Libia odierna, a quattro anni dall’inizio delle rivolte, è caratterizzato da una frammentazione dell’uso della forza che ha creato una divisione istituzionale con due parlamenti e rispettivi governi a Tobruk e Tripoli. Ad essi vanno aggiunte le forze della galassia gihadista e dello “Stato Islamico” che controllano parti strategiche del paese. Se da un lato la causa della frammentazione è da attribuire alla mancanza di una forza egemone che sapesse sintetizzare la base sociale del paese, come era avvenuto fin dalla nascita della Libia, dall’altra la comunità internazionale ha ripetuto l’errore commesso in Iraq non facendo seguito ad una fase che potesse garantire la transizione delle neonate istituzioni libiche.

Il caos e la sovversione, in soli cinque anni di “rivolte”, hanno reso il mondo arabo-islamico molto più insicuro per tutti. Il bilancio della “primavera araba” è a dir poco tragico. Da un lato, le istanze che spingono verso una “società aperta”, dall’altra un apparente “tradizionalismo”. In mezzo alla guerra fratricida etnica e religiosa, ci guadagna chi ha reso il Dâr al-Islâm il campo di battaglie per interposta persona. Il crollo delle “repubbliche” e il ruolo delle monarchie che vantano una legittimità religiosa. Il grande interrogativo è su come andrà a finire.

Quello cui assistiamo non è uno scontro religioso tra sciiti e sunniti. È uno scontro geopolitico che coinvolge le tre potenze storiche della regione (quella turca, quella persiana e quella saudita) e le tre grandi potenze globali (USA, Russia, Cina). Ciò spiega l’ambiguità degli USA nel loro atteggiamento verso il sedicente “Stato Islamico”, Al Nusra, il settarismo wahhabita e salafita nonché l’appoggio turco a quest’ultimo. Senza l’intervento russo non ci sarebbe speranza per Damasco. Un’Europa sempre più suddita e priva di strategia, invece di ringraziare la Russia che tenta di evitare il dilagare del cosiddetto “Stato Islamico”, si accoda agli USA contro il proprio interesse principale: stabilizzare il Vicino Oriente.

La prospettiva di un moloch fondamentalista incoronato dalle urne appare un’esagerazione figlia dell’attuale clima di terrore islamofobo.

MIGRAZIONI

I nodi dell’assenza di sovranità di questa “Unione Europea” stanno venendo impietosamente al pettine. Il banco di prova è quello delle cosiddette “migrazioni globali”, subite passivamente perché con la medesima passività viene subita la riduzione dell’Europa a prolungamento strategico dell’America. Settant’anni di occupazione militare, politica, economica e culturale hanno prodotto degli europei che non sapendo più chi sono si avviano – se non interverrà un miracolo – alla loro pura e semplice dissoluzione.

L’articolo riscontra i casi di migrazione interna – in particolare verso Istanbul – e il fenomeno dell’emigrazione all’estero, in primo luogo verso la Germania: il caso dei gecekondular e il concetto di gurbet possono rappresentare rispettivamente il degrado metropolitano connesso al primo caso e l’atteggiamento di nostalgia (di desiderio di ritorno alla patria) legato al secondo. Viene poi trattato l’aspetto particolarmente importante e attuale della migrazione di transito in Turchia, che si accompagna alla massiccia presenza di profughi siriani stanziati nel territorio turco, e viene dato conto della normativa nazionale – anche in relazione alla Convenzione di Ginevra – in tema di immigrazione.

I fenomeni migratori di massa sono stati spesso nella storia il frutto di problemi economici, guerre e cambiamenti climatici che in alcuni casi hanno costretto milioni di persone ad emigrare dai loro territori creando situazioni complicate, soprattutto nelle fasi iniziali dei nuovi insediamenti. L’epoca contemporanea non è esente da questi fatti; anzi, la globalizzazione e la relativa facilità degli spostamenti da un luogo all’altro hanno contribuito a velocizzare i processi migratori. Un caso interessante di migrazione dovuta a motivi legati alle condizioni economiche ed alla guerra è quello che ha visto protagonisti gli afgani emigrati in Iran dalla fine degli anni ’70 del XX secolo ad oggi, fenomeno poco conosciuto nella dottrina italiana, ma sempre al centro dei precari equilibri geopolitici del Vicino Oriente e dell’Asia centrale.

CONTINENTE RUSSIA

L’attuale fase della “seconda guerra fredda” ha visto un’accresciuta assertività della politica artica russa ed un’ufficiale adesione ad un orientamento antirusso da parte del blocco scandinavo. Sullo sfondo del recente confronto diplomatico e strategico tra Mosca e la NATO nella regione artica si stagliano la rilevanza delle risorse energetiche artiche, l’importanza delle implicazioni strategiche ed economiche dell’impiego del passaggio a nord-est per Russia e Cina, il coinvolgimento in un piano di crescente militarizzazione della regione di attori esterni all’Alleanza Atlantica come Svezia e Finlandia, ed il tentativo di isolare la Russia all’interno dell’Arctic Council.

Nel 1991, in seguito alla disgregazione dell’Unione Sovietica, la Georgia proclamò con un referendum, boicottato dalle minoranze ossete e abkhaze, la propria indipendenza. Nell’articolo vengono ripercorse le vicende geopolitiche di Tbilisi dai primi anni Novanta fino ai giorni nostri, eventi significativamente condizionati dalle due guerre ossete, le cui ferite non si sono ancora del tutto rimarginate. Vengono analizzati l’ascesa e il declino politico di Michail Saakashvili, leader di quella “rivoluzione delle rose” che nel 2003 rovesciò il governo di Eduard Shevardnadze, per giungere all’affermazione, nel 2012, del partito fondato dal miliardario georgiano Bidzina Ivanishvili, che da allora domina la scena politica nella piccola repubblica caucasica. La nuova dirigenza georgiana, al contrario di quella di Saakashvili, sta attuando una politica pragmatica, moderata e prudente nella gestione dei rapporti con il potente vicino russo, pur continuando a dichiarare che le priorità per la Georgia rimangono sempre le stesse: ingresso nella NATO e nell’UE.

INTERVISTE

Italia e Iran: un rapporto da consolidare

Contesto internazionale del caso Moro

RECENSIONI

Fabio Falchi, Una nuova storia alternativa della filosofia di Costanzo Preve

Giacomo Gabellini, Capire la Russia di Paolo Borgognone

Davide Ragnolini, L’aquila della steppa di Aldo Fais

Enrico Galoppini, Eurasia, Vladimir Putin e la grande politica di Alain De Benoist e Aleksandr Dugin

Enrico Galoppini, Istanbul di Franco Cardini

Enrico Galoppini, Rivoluzioni spa. Chi c’è dietro la primavera araba di Alfredo Macchi

Marco Toti, Dialogo sull’Islam tra un padre e un figlio di Dag Tessore e Alberto Tessore

Yannick Sauveur, Le Camp des Saints di Jean Raspail

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