“Geopolitica” è un termine di cui occorre preliminarmente chiarire il significato, perché da alcuni anni se ne fa un vero e proprio abuso, attribuendo ad esso contenuti che non ha ed usandolo per lo più come un sinonimo di “geografia politica”, “relazioni internazionali”, “politica estera”, “geostrategia” ecc. In realtà la geopolitica è un’altra cosa.

Pare che il termine compaia per la prima volta in un manoscritto inedito di Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) del 1679, all’epoca in cui il filosofo era consigliere di corte degli Hannover e, incoraggiato dal principe Giovanni Federico nelle sue iniziative culturali e diplomatiche, si adoperava per favorire la pace religiosa. Ma come fondatori della geopolitica vengono generalmente indicati due studiosi: il geografo ed etnologo tedesco Friedrich Ratzel (1844-1904), fondatore della geografia antropica, e il sociologo, politologo e geografo svedese Rudolf Kjellén (1864-1922).

Quanto a Ratzel, la sua geografia è considerata “una filosofia darwiniana dello spazio, poiché è animata dalle teorie dell’evoluzione della specie e della lotta per la sopravvivenza, filtrate attraverso l’ottica sociale di Herbert Spencer”[1]. Allo Stato, concepito come un organismo biologico e spazializzato costretto ad espandersi, Ratzel assegna una funzione centrale; ma ritiene fondamentale che gli uomini politici, per comprendere il significato spaziale delle loro decisioni, si impadroniscano delle necessarie conoscenze geografiche.

La prospettiva geografico-politica di Ratzel viene integrata da Kjellén in un tipo di studio che nel 1899 riceve da lui per la prima volta la denominazione di geopolitica. Prima nei suoi corsi all’università di Göteborg, poi in un’opera del 1905, Kjellén definisce la geopolitica come “la scienza dello Stato in quanto organismo geografico o entità nello spazio: ossia lo Stato come paese, territorio, dominio o, più particolarmente, come regno. In quanto scienza politica, essa osserva fermamente l’unità statale e vuol contribuire alla comprensione della natura dello Stato”[2].

L’inglese Sir Halford John Mackinder (1861-1947) e il tedesco Karl Haushofer (1869-1946) sono i due principali esponenti della teoria geopolitica nota come “continentalista” o come “binaria”, secondo la quale confliggono tra loro, per lo più lungo l’asse est-ovest, due centri di potere mondiale: uno continentale ed uno talassocratico. A loro parere, gli Stati che riescono ad imporre la loro egemonia sulla massa continentale del continente eurasiatico prevalgono sulle potenze marittime (sia su quelle periferiche, come l’Inghilterra e il Giappone, sia su quelle esterne all’Eurasia, come gli Stati Uniti). Tanto Mackinder quanto Haushofer ritenevano che un blocco russo-tedesco, eventualmente esteso al Giappone, avrebbe sconfitto la talassocrazia britannica ed avrebbe cambiato la storia mondiale. Naturalmente Mackinder paventava un’alleanza del genere, mentre Haushofer la caldeggiava. Fatto sta che in diversi momenti, nel corso del Novecento, una tale alleanza sembrò delinearsi: i momenti più significativi in questo senso si ebbero col sostegno tedesco alla Russia nella guerra russo-giapponese (1904-1905), col Trattato di Brest-Litovsk (3 marzo 1918), col Trattato di Rapallo (16 aprile 1922) e col Patto di non aggressione tedesco-sovietico (23 agosto 1939).

Secondo Mackinder, che enuncia la sua tesi nel 1904, esiste una gigantesca fortezza naturale, inaccessibile alla potenza marittima: si tratta di quell’area, compresa fra l’Asia centrale e l’Oceano Artico, dalla quale si sono irradiate, fino al XVI secolo, le successive invasioni (di Unni, di Mongoli e Tartari, di Turchi) che hanno interessato la Cina, l’India, il Vicino Oriente e l’Europa. Il dominio di quest’area, che egli chiama inizialmente “area perno” (“pivot area”) e poi “territorio cuore” (“heartland”), garantirebbe il dominio della massa continentale eurasiatica e quindi del mondo. Nel 1919, quando ritiene che il pericolo per l’Inghilterra provenga dalla Germania, Mackinder sposta più ad ovest i confini occidentali dell’area-perno; li colloca più ad est nel 1943, quando giudica più pericolosa la Russia. In ogni caso, per impedire l’unità continentale ed assicurare alle potenze marittime il predominio sul resto del mondo, secondo Mackinder occorre interporre fra la Germania e la Russia, come un diaframma, un’Europa centro-orientale garantita dalla Società delle Nazioni.

Karl Haushofer riprende le vedute di Mackinder circa l’importanza fondamentale dell’Europa centro-orientale, ma ne rovescia le conclusioni politiche, poiché assegna alla Germania l’egemonia sull’Europa centrale e difende l’idea di un’alleanza russo-tedesca. Se in passato il conflitto fra Germania e Russia ha favorito le potenze anglosassoni nella conquista dell’egemonia mondiale, un’alleanza russo-tedesca affretterebbe il crollo dell’impero britannico, che Haushofer ritiene comunque condannato, data la sua eccessiva estensione e la mancanza di un suo baricentro e data la vulnerabilità dell’Inghilterra nel caso di attacchi aerei provenienti dal continente. Solo il crollo dell’impero britannico consentirebbe alla Germania di organizzare un nuovo ordine europeo e di patrocinare, d’intesa con la Russia, la nascita un nuovo ordine mondiale.

Secondo Haushofer, il mondo deve essere ristrutturato in grandi aree di integrazione politica geograficamente estese nel senso dei meridiani, le cosiddette panregioni, in grado di superare i limiti degli Stati nazionali e costituire più ampi ed efficaci ambiti di azione politica, economica, sociale. Le panregioni teorizzate da Haushofer sono quattro: la Pan-Europa, che oltre all’Europa comprende anche l’Africa e il Vicino Oriente ed ha al proprio interno un sistema mediterraneo guidato dall’Italia; la Pan-America, dal Canada allo Stretto di Magellano; la Pan-Russia, estesa verso sud fino a comprendere il subcontinente indiano; la Pan-Pacifica, a egemonia giapponese, comprendente la Cina, l’Indonesia e l’Australia.

Alle teorie continentaliste si oppongono le teorie del potere marittimo, il cui esponente più celebre è il contrammiraglio statunitense Alfred Thayer Mahan (1840-1914), influente  consigliere di Theodore Roosevelt, citato da Carl Schmitt come “il più significativo rappresentante intellettuale dell’imperialismo americano”[3]. Secondo Mahan, la potenza statunitense si deve proiettare sul Pacifico e sull’Atlantico, acquisendo il controllo delle Filippine e delle Hawaii da una parte e di Cuba dall’altra. Attraverso il Canale di Panama, “fulcro geostrategico della sicurezza e della unitarietà geostrategica fra le coste occidentale e orientale degli Stati Uniti”[4], la Marina statunitense si potrebbe concentrare, a seconda delle necessità, nell’uno o nell’altro oceano. L’opera più significativa di Mahan è The Problem of Asia, nella quale il centro del potere mondiale non viene individuato nel cuore dell’Eurasia, che non è influenzabile dalle potenze marittime, bensì nell’area dell’emisfero settentrionale delimitata dal Canale di Panama e dal Canale di Suez. Il dominio del mondo, secondo Mahan, apparterrà ad un’alleanza angloamericana in grado di egemonizzare la Germania e il Giappone per contenere un blocco russo-cinese.

Sulla linea di Mahan si colloca il teorico della scuola “marginalista”, l’americano Nicholas J. Spykman (1893-1943). Secondo Spykman il centro del potere mondiale non è l’Heartland, bensì il Rimland, il “territorio marginale”, cioè la fascia peninsulare e insulare che circonda la massa continentale eurasiatica, dalla Norvegia al Mediterraneo all’Asia meridionale alle Filippine al Giappone. La difesa degl’interessi statunitensi comporta necessariamente il controllo di quest’area e la sua frammentazione, perché la sua unificazione sarebbe disastrosa per gli interessi degli Stati Uniti. Perciò alla formula continentalista di Mackinder (“Who controls eastern Europe rules the Heartland; who controls the Heartland rules the World Island; and who rules the World Island rules the World”) Spykman contrappone la formula del potere peninsulare: “Who controls the rimland rules Eurasia; who rules Eurasia controls the destinies of the world[5]. Per quanto riguarda in particolare l’Europa, Spykman assegna all’Inghilterra il compito di “impedire ogni integrazione del potenziale europeo e soprattutto di impedire che si giunga ad un’effettiva alleanza militare della Russia con la Germania. (…) Quest’ultima deve essere bilanciata dal potere della Francia da una parte e da quello dell’Europa orientale dall’altra, ma a nessuna di queste tre regioni deve essere consentito di ottenere un controllo completo”[6].

Il dualismo terra-mare, inteso come contrapposizione fra due tipologie incompatibili di civiltà e simboleggiato dalle figure bibliche di Behemoth e Leviathan, si ripresenta nelle riflessioni di Carl Schmitt (1888-1985)[7]. Pur essendo annoverato fra i “classici” della politologia e della giurisprudenza, Schmitt ha lasciato un’opera che presenta evidenti implicazioni geopolitiche: eminentemente geopolitica, infatti, è la concezione del “grande spazio” (Grossraum), relativa al processo di estensione territoriale degli Stati – dalla polis allo Stato territoriale allo Stato continentale. Per esemplificare la nozione di Grossraum, Schmitt fa riferimento alla dottrina di Monroe del 1823, la quale “costituisce nella storia del diritto internazionale moderno la prima dichiarazione che parli di un ‘grande spazio’, e ponga per il medesimo la norma-base del non intervento delle potenze adesso estranee, limitandolo espressamente all’‘emisfero occidentale’”[8]. Soltanto la suddivisione dello spazio planetario in una pluralità di “grandi spazi”, afferma Schmitt, può costituire la base di un nuovo jus gentium; in altre parole, l’Ortung (“localizzazione”) è la condizione necessaria e indispensabile dell’Ordnung (“ordine” mondiale).

Col concetto di “grande spazio” si intreccia quello di nómos. Con questo sostantivo greco, che proviene dalla stessa radice di némein (“dividere” e “pascolare”) e designa “la prima occupazione di terra, con relativa divisione e ripartizione dello spazio”[9], Schmitt indica “la forma immediata nella quale si rende spazialmente visibile l’ordinamento politico e sociale di un popolo, (…) vale a dire l’occupazione di terra e l’ordinamento concreto che in essa è contenuto e da essa deriva”[10].

L’attività teorica di Carl Schmitt ha profondamente influenzato il pensiero di un geopolitico militante, Jean Thiriart (1922-1992)[11], Riprendendo alcuni elementi centrali dell’opera di Schmitt, da lui annoverato tra i “venti o venticinque autori ‘indispensabili’”[12], Thiriart fissa un compito storico ineludibile, imperiosamente richiesto da un’epoca storica in cui gli Stati continentali prevalgono per potenza e influenza su quelli territoriali: è necessario: “edificare una grande Patria: l’Europa unitaria, potente, comunitaria”[13]. Europa unitaria, poiché Thiriart respinge l’idea gollista dell’Europa delle patrie, da lui bollata con disprezzo come “una specie di vestito d’Arlecchino malamente ricucito (…) somma temporanea e precaria dei rancori e delle debolezze”[14]; respinge anche la formula federale, perché “contiene, in germe, la possibilità di secessioni o, nel migliore dei casi, di crisi interne”[15].

Formulato vent’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, in un’Europa occupata da USA e URSS, il progetto di Thiriart esordisce indicando le dimensioni geografiche e demografiche dell’Europa: “Nel contesto di una geopolitica e di una civiltà comune (…) l’Europa unitaria e comunitaria si estende da Brest a Bucarest. (…) Contro i 414 milioni di Europei vi sono i 180 milioni di abitanti degli USA e i 210 milioni di abitanti dell’URSS”[16]. Ma come liberare l’Europa dall’occupazione statunitense e sovietica? “Si deve fare all’URSS la seguente proposta: l’evacuazione dell’Armata Rossa dall’Europa dell’Est contro l’eliminazione di ogni presenza militare o politica americana nell’Europa dell’Ovest”[17].

Vent’anni dopo, la prospettiva di Thiriart è cambiata. “Non bisogna più ragionare o speculare in termini di conflitto fra l’URSS e noi, – dice nel 1982 – ma in termini di avvicinamento e poi di unificazione. (…) bisogna aiutare l’URSS a completarsi nella grande dimensione continentale. Ciò triplicherà la popolazione sovietica, che per questo fatto stesso non potrà più essere una potenza a dominante ‘carattere russo’. Io non credo più all’intelligenza politica degli Europei dell’ovest. (…) Sarà la fisica della storia a costringere l’URSS a cercare rive sicure: Reykjavik, Dublino, Cadice, Casablanca. Al di qua di questi limiti l’URSS non avrà mai tranquillità e dovrà vivere in una preparazione militare incessante. E costosa”[18]. La prospettiva geopolitica di Thiriart è ormai dichiaratamente eurasiatista: “L’Impero euro-sovietico – leggiamo in un suo articolo del 1987 – si inscrive nella dimensione eurasiatica”[19]. Recatosi a Mosca dopo il crollo dell’URSS, Thiriart espone davanti ad alcune centinaia di persone le sue vedute, aggiornate e adeguate alla nuova situazione russa. Dopo aver precisato che “secondo la [sua] prospettiva geopolitica le vecchie frontiere dell’URSS sono le future frontiere della Grande Europa” e che “l’Impero europeo è, per postulato, eurasiatico”, pone ai Russi questa alternativa: o farsi liquidare da Washington, o contrapporre all’imperialismo talassocratico americano un Impero continentale compreso fra Dublino e Vladivostok[20].


NOTE

[1] Carlo Jean, Geopolitica, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 26.

[2] Stormakterna. Konturer kring samtidens storpolitik, första delen. Ried. Hugo Gebers förlag, Stockholm 1911, p. 95. Trad. fr., Les grandes puissances. Des contours de la grande politique contemporaine, première partie, p. 39.

[3] Carl Schmitt, Stato, grande spazio, nomos, Adelphi, Milano 2015, p. 202.

[4] Carlo Jean, Geopolitica, cit., p. 36.

[5] Nicholas Spykman, The Geography of Peace, Hartcourt Brace, New York 1944, p. 43.

[6] “to prevent any integration of power on the continent of Europe and, particularly, to see that nothing would lead to an effective military alliance between Germany and Russia. (…) Germany (…) must be balanced by the power of France and that of Eastern Europe, but no one of the three regions can be allowed to gain complete control”. (N. J. Spykman, The Geography of Peace, cit, pp. 37, 53).

[7] Si veda, in particolare: Carl Schmitt, Terra e mare, Adelphi, Milano 2002.

[8] Carl Schmitt, Il concetto d’Impero nel diritto internazionale, Settimo sigillo, Roma 1996, p. 18.

[9] Carl Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi, Milano 1991, p. 54.

[10] Carl Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 59.

[11] Si veda la Cfr. la biografia compilata da Yannick Sauveur, Qui suis-je? Thiriart, Pardès, Grez-sur-Loing 2016.

[12] “Il y a vingt ou vingt-cinq auteurs ‘indispensables’ dont Machiavel, Hobbes, les Encyclopédistes, Carl Schmitt, Bertrand de Jouvenel, Freund, Pareto”. Jean Thiriart, Entretien accordé à Bernardo Gil Mugurza [rectius: Mugarza] (1982), in: AA. VV., Le prophète de la grande Europe, Jean Thiriart, Ars Magna 2018, p. 333. Alcuni stralci di questa lunga intervista (centosei domande e risposte!) sono stati pubblicati in “Eurasia”, 1/2014 sotto il titolo La geopolitica, l’Impero, l’Europa.

[13] Jean Thiriart, Un impero di 400 milioni di uomini: l’Europa, Giovanni Volpe, Roma 1965, p. 19. Edizione originale: Un Empire de 400 millions d’hommes: l’Europe, Bruxelles 1964. Una nuova traduzione italiana è apparsa nel 2011 a Dublino, per Avataréditions.

[14] Jean Thiriart, Un impero di 400 milioni di uomini: l’Europa, cit., p. 38.

[15] Jean Thiriart, Un impero di 400 milioni di uomini: l’Europa, cit., p. 48.

[16] Jean Thiriart, Un impero di 400 milioni di uomini: l’Europa, cit., pp. 17-18.

[17] Jean Thiriart, Un impero di 400 milioni di uomini: l’Europa, cit., p. 22.

[18] Jean Thiriart, Entretien accordé à Bernardo Gil Mugarza (1982), cit., p. 349.

[19] Jean Thiriart, La Turquie, la Méditerranée et l’Europe, “Conscience européenne”, 18, luglio 1987.

[20] Il discorso di Thiriart, tenuto il 18 agosto 1992, fu pubblicato su “Den’” (un quindicinale pubblicato in 200.000 copie); la versione italiana si trova nei nn. 4/2015 e 4/2017 di “Eurasia”. A Mosca fu Aleksandr Dugin che organizzò il programma di Thiriart, il quale tra il 16 e il 24 agosto incontrò numerose personalità della politica e della cultura: Anatoli Ivanov (storico), Egor Ligačëv (ex capo della segreteria del CC del PCUS), Sergej Baburin (capo dell’opposizione in seno al Parlamento della Repubblica Russa), Viktor Alsknis (il “colonnello nero”), Gennadi Zjuganov (fondatore del Partito Comunista della Federazione Russa), Gejdar Dzemal’ (fondatore del Partito della Rinascita Islamica), Aleksandr Prokhanov (direttore del periodico “Den’”), Valentin Čikin (direttore del quotidiano “Sovetskaja Rossija”, tiratura 1.000.000 di copie), Eduard Volodin (scrittore).


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Claudio Mutti, antichista di formazione, ha svolto attività didattica e di ricerca presso lo Studio di Filologia Ugrofinnica dell’Università di Bologna. Successivamente ha insegnato latino e greco nei licei. Ha pubblicato qualche centinaio di articoli in italiano e in altre lingue. Nel 1978 ha fondato le Edizioni all'insegna del Veltro, che hanno in catalogo oltre un centinaio di titoli. Dirige il trimestrale “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”. Tra i suoi libri più recenti: A oriente di Roma e di Berlino (2003), Imperium. Epifanie dell’idea di impero (2005), L’unità dell’Eurasia (2008), Gentes. Popoli, territori, miti (2010), Esploratori del continente (2011), A domanda risponde (2013), Democrazia e talassocrazia (2014), Saturnia regna (2015).