Era il 1866 quando venne scoperto il primo diamante in Sudafrica. Da lì a pochi anni vennero aperti  anche i giacimenti Kimberley – circa 450 chilometri a sud-ovest di Johannesburg – che diedero il via all’ascesa della compagnia mineraria De Beers, oggi colosso diamantifero che controlla una buona fetta dell’intero commercio mondiale. L’estrazione di diamanti vede i Paesi africani in primo piano: complessivamente – infatti – la metà dei diamanti estratti proviene dall’Africa centrale e meridionale; Repubblica Democratica del Congo, Angola, Botswana, Sudafrica, Zimbabwe e Repubblica Centrafricana sono i principali Paesi produttori. È proprio a causa di quest’ultimo Paese che il commercio di diamanti e il Processo di Kimberley (PK) – che dovrebbe certificare che i proventi della vendita non vengano utilizzati per guerre civili – sono tornati d’attualità.  A distanza di dieci anni dalla sua nascita (2003) si può essere soddisfatti del livello di sviluppo e di controllo di questo organismo?

 

 

La Repubblica Centrafricana, situata nel cuore del continente africano, è uno dei Paesi più poveri al mondo: a fronte di un enorme ricchezza mineraria, il PIL pro capite annuo è al di sotto degli 800 dollari, l’80% della popolazione è impiegato nel settore primario e il tasso di analfabetismo sfiora il 50%. La sua economia si fonda principalmente sui proventi derivanti dalla deforestazione e dal sottosuolo, con la vendita di uranio, ferro ma soprattutto diamanti, che da sola nel 2010 ha  rappresentato il 10% dell’intero PIL nazionale.

Dal punto di vista politico va ricordato che dopo l’indipendenza raggiunta nel 1960, il Paese visse un grande periodo di instabilità per circa 30 anni, con colpi di stato militari che si susseguirono fin quando nel 1992 non si arrivò alle prime elezioni democratiche. Nel 2003 ci fu un ulteriore colpo di Stato, orchestrato dal generale François Bozizé, che ha retto il potere fino a pochi mesi fa.

Il 24 marzo, infatti, i ribelli della Coalizione Séléka (“alleanza”), dopo alcuni mesi di guerra civile sono riusciti ad entrare nella capitale Bangui e hanno costretto alla fuga il presidente Bozizé, prendendo in mano il controllo del Paese. Uno dei leader dei ribelli, Michel Djotodia, si è poi autoproclamato presidente della Repubblica Centrafricana, facendo precipitare il Paese in una crisi senza via d’uscita.

Il continuo susseguirsi di regimi militari e colpi di Stato non ha aiutato il Paese a svilupparsi come avrebbe potuto grazie alle importanti risorse minerarie. I vari presidenti della Repubblica Centrafricana hanno tutti preferito perseguire – chi in un modo, chi in un altro – una politica di sfruttamento delle miniere a proprio vantaggio personale, disincentivando lo sviluppo dell’industria del settore e quindi di conseguenza della popolazione locale, accaparrandosi quante più ricchezze possibili grazie alla vendita di diamanti.

L’avidità dei governi e l’espansione dei traffici illeciti – una buona parte dei diamanti viene messa in commercio sul mercato nero – sono state una costante anche del deposto presidente Bozizé, che portava avanti una strategia volta al maggior profitto personale possibile, non ricorrendo a politiche per lo sviluppo del settore nel lungo periodo.

Una peculiarità dello stato centrafricano rispetto agli altri Paesi produttori è l’assenza di grandi società minerarie, disincentivate dall’investirvi per diversi motivi, sia di natura logistica, data l’assenza di infrastrutture adeguate e la difficile conformazione del terreno alluvionale dove si trovano i diamanti, sia di natura politico-burocratica: instabilità politica, assenza di politiche di lungo periodo, controlli molto rigidi e tassazione elevata non incentivano di certo l’investimento estero nel Paese.

La realtà mostra infatti che a trarre maggiori profitti dalla vendita dei diamanti non sia lo Stato stesso, bensì mediatori senza scrupoli, guerriglieri e forze dell’ordine corrotte che li contrabbandano, facendoli uscire dal paese attraverso il Ciad, e vendendoli per somme irrisorie alle grandi multinazionali o ai soliti noti. Lo Stato è perciò il grande perdente perché in questo modo le imposte vengono aggirate.

I diamanti attraggono i ribelli dei principali movimenti armati, come appunto la Séléka, sospettate di aver ricevuto finanziamenti da operatori del settore proprio per destituire il generale Bozizé. La regione risulta così una delle più insicure dell’Africa, e finché i ribelli avranno a disposizione questa fonte di finanziamento, la fine della guerra civile e dell’instabilità rimane un miraggio.

Il problema del commercio illegale dei diamanti non è nuovo, soprattutto in Africa. Lo sa bene la Sierra Leone, ma anche la Liberia e l’Angola, uscita da pochi anni da una guerra sanguinosa. Il campo profughi di oltre un milione di persone, le immagini di donne e bambini mutilati, le oltre 50mila vittime suscitarono l’indignazione dell’opinione pubblica, che iniziò a boicottare l’acquisto dei diamanti. Gli interessi economici delle grandi multinazionali e delle grandi potenze, coinvolte nel traffico illegale dei diamanti insanguinati, furono messi a serio rischio. Per un’esigenza di immagine  e di marketing, più che per sincera convinzione, i grandi della Terra e le aziende del settore si dissero disponibili a trovare una soluzione e arginare il fenomeno dei “diamanti insanguinati”.

 

 

Il processo di Kimberley

Esattamente dieci anni fa (2003), venne istituito il Kimberley Process Certification Scheme (KPCS), un accordo di certificazione sottoscritto da diversi Paesi con l’obiettivo di garantire che i profitti ottenuti grazie alla vendita di diamanti non servissero a finanziare guerre civili o altri fenomeni di violenza. Tale accordo venne raggiunto dopo le guerre civili in Sierra Leone (che tra il 1991 e il 2001 provocò circa 50 mila morti) e in Liberia (dove tra il 1999 e il 2003 morirono circa 200 mila persone), proprio per certificare che i diamanti siano “conflict free“, e non utilizzati per finanziare violenze.

Il Kimberley Process (PK) è l’organismo volto a controllare che tali regole siano rispettate, attraverso un suo comitato che si riunisce periodicamente e  che prende decisioni per consensus.

Questo organismo è stato costituito grazie allo sforzo dei governi direttamente interessati dal commercio diamanti insieme a quello di ONG e delle multinazionali del settore, la De Beers in particolare –  che da sola controlla il 40% del mercato – con l’obiettivo di rilanciare la vendita del prezioso minerale, rassicurando e sensibilizzando i compratori.

L’ultimo Paese in ordine cronologico ad essere finito nel mirino di questo organismo è la Repubblica Centrafricana, proprio a seguito del recente colpo di Stato che ha portato i ribelli e il suo leader, Michel Djotodia, al potere.

Durante lo scorso mese di maggio, il PK ha sospeso la Repubblica Centrafricana con effetto immediato – decretando anche un embargo sulle risorse diamantifere – poiché da quando il presidente Bozizé è stato destituito, le operazioni di controllo e monitoraggio dell’attività di estrazione dei diamanti sono divenute meno efficaci e diffuse.

Da parte sua, il governo centrafricano ha risposto alle accuse e alle sanzioni definendole “ingiuste”,  assicurando che i controlli sulla filiera di estrazione e sulla stipula dei contratti sarebbero ripresi. Inoltre, nel corso della sessione del PK dello scorso 4 giugno, lo stesso governo centrafricano ha annunciato di voler mettere in atto una moratoria sullo sfruttamento e la vendita di diamanti: una corsa ai ripari dopo la sospensione che però non ha sortito alcun effetto dal momento che nella stessa conferenza del Processo di Kimberley è stata confermata la sospensione del Paese africano dalla certificazione KPCS.

La situazione della Repubblica Centrafricana era stata già in passato oggetto di accurate analisi da parte dell’International Crisis Group (ICG) – una ONG che si occupa di fornire analisi su situazioni di crisi e di conflitto con l’obiettivo di limitarli. A fine 2010, infatti, in un rapporto annuale (“Dangerous Little Stones: Diamonds in the Central African Republic“), l’ICG esprimeva le proprie preoccupazioni riguardo la situazione del Paese, e in particolare di come venissero gestite le miniere e le risorse del sottosuolo da parte dell’allora presidente Bozizé, accusando lo Stato africano di “fragilità cronica”, e il regime di mantenere “una gestione opaca e centralizzata” delle miniere.1

Nel proprio rapporto, l’International Crisis Group esprimeva anche alcune raccomandazioni, chiedendo al governo della Repubblica Centrafricana di rendere più chiaro e trasparente il processo di stipula dei contratti, ma anche di contrastare efficacemente il contrabbando – anche attraverso l’aiuto del PK e al sostegno internazionale – e armonizzare la fiscalità in relazioni a quella dei Paesi vicini. Inoltre invitava il governo a portare avanti politiche di lungo periodo volte allo sviluppo del settore, con incentivi per l’investimento straniero nel Paese e la semplificazione del processo burocratico e fiscale.

Ugualmente, al Processo di Kimberley si chiedeva di inviare al più presto una missione per valutare l’effettiva implicazione dei ribelli nella gestione e nel controllo delle miniere e del loro sfruttamento.

In questi dieci anni di vita il Processo di Kimberley ha incontrato numerose difficoltà. Uno dei suoi maggiori punti deboli, infatti, deriva dalla dall’inadeguatezza dei controlli interni sui quali esso fa affidamento: in numerosi Paesi come Guinea, Repubblica Democratica del Congo, Zimbabwe, Angola e Costa d’Avorio (malgrado l’embargo sulla vendita da parte della Nazioni Unite) il giro d’affari del commercio illegale di diamanti – che si estranea quindi dalle regole e dalla certificazione KPCS – è molto alto. I governi di questi Stati non riescono a garantire i controlli, che dovrebbero estendersi dall’estrazione fino alla vendita: i motivi possono essere di diversa natura, sia per effettiva incapacità strutturale, sia per reale volontà degli stessi controllori, che si garantiscono in questa maniera maggiori guadagni personali.

Il commercio illegale di diamanti grezzi è sicuramente la questione più spinosa del Kimberley Process, i cui strumenti non sono serviti a molto. Si calcola infatti che in Repubblica Democratica del Congo e in Sierra Leone circa il 50% dei diamanti esportati abbia una dubbia origine. E’ in questo senso che alcune ONG dirigono la loro azione, rimarcando queste carenze: su tutte, Global Witness, nata nel 2003 con sede a Londra, ha sottolineato nei suoi numerosi rapporti queste difficoltà.

Già nel 2008 denunciò come le violazioni al KPCS fossero all’ordine del giorno in alcuni Paesi facenti parti del Processo di Kimberley, come Sierra Leone, Venezuela, dove “the government blatantly flouts the certification scheme”2 , e in Zimbabwe. Nello stesso documento Global Witness esprimeva delle raccomandazioni nei confronti del PK, sottolineando come esso dovesse dotarsi di un meccanismo di sospensione provvisoria in caso di non conformità alle regole, esigere maggiori controlli da parte dei governi, dotarsi esso stesso di capacità di ricerche e sorveglianza per contrastare il commercio illegale di diamanti grezzi.3

Un’altra ONG, Partnership Africa Canada (PAC), nel 2009 nel suo rapporto annuale su diamanti e sicurezza umana ha sottolineato un’altra debolezza del Processo di Kimberley, il fatto che mancasse un’autorità centrale. La presidenza cambia di anno in anno, non garantendo né continuità né responsabilità ai gruppi di lavoro che si succedono ogni volta. Inoltre, la modalità di voto secondo consensus, impone che tutti i Paesi siano d’accordo, un solo dissidente è capace di bloccare le decisioni.4 Nello stesso rapporto annuale, la PAC definisce il PK un “moulin à paroles“, tocca alla società civile – anche tramite le ONG –  essere vigile riguardo il contrabbando di diamanti insanguinati e sul meccanismo di controllo esso stesso.

Il PK dimostra quindi di non funzionare come dovrebbe. Il sistema presenta  alcuni punti deboli: prima di tutto esso si applica solamente ai diamanti grezzi. Quelli tagliati e usati in gioielleria – dunque – ne sono esclusi e risulta perciò facile per i trafficanti immettere sul mercato nero i diamanti già tagliati. Una volta tagliati – al contrario di quando sono ancora grezzi – ricostruirne la provenienza certa diviene impossibile. Una seconda debolezza deriva dal fatto che applicando il sistema di certificazione a lotti di diamanti – e non alle singole pietre – è semplice immettere in tali lotti diamanti di illecita o dubbia provenienza. Terzo e ultimo problema: i centri di taglio sono esclusi dalla lista delle strutture controllate dal KPCS  e sono spesso uno sbocco per i diamanti di cui non si conosce l’origine: una volta tagliate, perciò, le gemme entrano liberalmente sul mercato alimentando il commercio illegale.

Le difficoltà che il Processo di Kimberley ha conosciuto fin dalla sua nascita nel 2003 sono evidenti e portate alla ribalta dalla società civile e dalla ONG in particolare, che in alcune occasioni si sono sostituite in tutto e per tutto alle sue attività, invitando i Paesi sospettati di un deficit di controllo nella gestione e nello sfruttamento delle risorse diamantifere a risolvere al più presto questa situazione. Senza alcun potere coercitivo, però, i loro appelli e i loro rapporti annuali sono destinati a perdersi nel vuoto, a meno che da parte del PK non vengano utilizzati come strumento di supporto e di cooperazione in modo da poter realmente circoscrivere e ridurre il problema dei “diamanti insanguinati”.

Un altro problema al quale il Processo di Kimberley deve far fronte è emerso sopratutto negli ultimi anni: oltre a dover controllare che i proventi non vengano utilizzati per finanziare le guerre civili, è necessario porre l’attenzione anche sulle condizioni di lavoro a cui sono sottoposti i minatori. Il rispetto dei diritti umani è stato in più di un’occasione denunciato da parte di ONG locali, ma in passato il PK non ha potuto fare niente a riguardo, non essendo previsto dal suo statuto. Ci si augura che in futuro la sensibilizzazione di questo problema porti ad un riforma dello stesso e ad un maggiore controllo in questo senso.

 

 

 

Note bibliografiche e riferimenti multimediali

1http://www.crisisgroup.org/fr/regions/afrique/afrique-centrale/republique-centrafricaine/167-dangerous-little-stones-diamonds-in-the-central-african-republic.aspx , ultimo accesso giugno 2013

2http://www.globalwitness.org/library/loupe-holes-kimberley-process , ultimo accesso giugno 2013

3http://www.globalwitness.org/library/loupe-holes-kimberley-process , ultimo accesso giugno 2013

4http://www.pacweb.org/Documents/annual-reviews-diamonds/AR_diamonds_2009_fr.pdf, ultimo accesso giugno 2013.

 


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