Il prossimo 19 maggio 2017 si terranno le elezioni presidenziali in Iran, a distanza di quattro anni dal giugno 2013, tornata che propiziò la salita al potere dell’attuale capo del governo a Teheran, il chierico Hassan Rohani. Venerdi 19 maggio, tra meno di tre mesi, l’elettorato iraniano sarà chiamato a eleggere il nuovo presidente, e oltre a ciò gli elettori potranno votare anche per il rinnovo dei consigli comunali, i quali secondo le leggi amministrative della Repubblica Islamica, hanno il dovere di nominare i sindaci delle città e dei villaggi. Oltre a ciò, in alcune limitate circoscrizioni verranno organizzate le elezioni per il rinnovo di alcuni seggi parlamentari: in pratica il 19 maggio sarà per gli iraniani un vero e proprio “election day”, con almeno due elezioni a livello nazionale che in alcune zone del paese raggiungeranno le tre unità (le elezioni parlamentari saranno organizzate presso le province di Bandare Lenghe, Isfahan, Maraghe e Ahar).

È ancora presto per poter parlare dei candidati, soprattutto per quanto riguarda il test elettorale più importante, ovvero l’elezione del nuovo capo del governo, visto che in base alle leggi iraniane i candidati ufficiali, dopo le iscrizioni e dopo il vaglio preventivo delle candidature dal parte del Consiglio di Guardia della Costituzione, una sorta di Corte Costituzionale iraniana, si sapranno solo a poche settimane dal voto. Ma ciò non toglie che la contesa elettorale ufficiosa è già iniziata; i vari gruppi politici, le aree culturali e i partiti si stanno muovendo presentando all’elettorato i propri candidati. Se la ricandidatura del presidente in carica Rohani sembra abbastanza scontata, sugli sfidanti non si hanno ancora indicazioni precise. Per il momento nel fronte degli oppositori al governo, ovvero la variegata e a tratti contraddittoria fazione denominata a ragione o a torto “conservatrice”, le uniche due aree che hanno espresso l’idea di voler in qualche modo partecipare con dei propri candidati alla contesa, sono quelle dell’ex presidente Ahmadinejad e del chierico ultra conservatore Mesbah Yazdi.

La prima area, escluso in modo categorico il proprio pupillo, Mahmoud Ahmadinejad (la Guida della Rivoluzione, il capo dello Stato iraniano, Ayatollah Khamenei, qualche mese fa aveva espresso l’opinione che era nell’interesse del paese evitare la candidatura dell’ex presidente, e Ahmadinejad qualche giorno più tardi spiegava tramite una lettera pubblica che in ossequio all’opinione della Guida non si sarebbe ricandidato), ha puntato tutto su uno dei collaboratori del vecchio presidente populista, ovvero Hamid Baghaei, il quale, grazie a una recente conferenza stampa, ha detto chiaro e tondo che salvo estromissioni da parte del Consiglio di Guardia il 19 maggio sarà della partita, anche se presumibilmente senza l’appoggio ufficiale di Ahmadinejad, il quale preferisce mantenere un profilo basso, evitando cosi di istigare il clero a una reazione radicale (è noto che da qualche anno le relazioni tra la maggior parte della gerarchia religiosa e Ahmadinejad non sono idilliache). Hamid Baghaei, originario della provincia settentrionale del Ghilan, laureato in geografia politica, ha ricoperto incarichi amministrativi importanti durante il secondo mandato di Ahmadinejad, tra il 2009 e il 2013.

È diventato abbastanza celebre per una vicenda giudiziaria che lo ha visto come protagonista durante l’ultimo perido della presidenza Ahmadinejad, secondo i suoi sostenitori nell’alveo di una pesante campagna mediatica e propagandistica scatenata grazie ai partiti contrari al governo del presidente populista, campagna poi sostenuta anche dalla magistratura a suon di avvisi di garanzia e arresti. Da circa un anno Baghaei è tornato ad essere un uomo totalmente libero, ma proprio tale vicenda giudiziaria e alcune ombre sulle sue responsabilità di governo per alcuni casi di corruzione potrebbero fare da battistrada per una eventuale estromissione per la contesa elettorale. Un’altra area politica in fermento è quella del “Fronte della Resistenza”, che ha come capo carismatico il chierico Mesbah Yazdi, il quale potrebbe ripresentare uno dei candidati sconfitti del 2013, ovvero l’ex negoziatore nucleare dell’era Ahmadinejad, Said Jalili. Quest’ultimo, anch’egli in qualche misura riconducibile all’area del populismo radicale, ma con buoni rapporti anche con una parte del clero, dopo la disfatta del 2013 potrebbe ripresentarsi come papabile alternativa al moderato e pragmatico Rohani, ma fino ad ora, a parte qualche sporadica iniziativa pubblica, non ha ancora deciso di ufficializzare la propria candidatura.

Per il resto siamo ancora in attesa di vedere chi saranno i candidati principali dei conservatori, visto che Baghaei e Jalili, anche se con un retroterra conservatore, non possono essere compresi in tale coalizione, per valutare l’impatto effettivo di tale fazione sulle presidenziali della prossima primavera. Dall’altra parte della barricata invece non è ancora chiaro come i riformisti vorranno affrontare la sfida elettorale, ovvero se vorranno ripetere la strategia del 2013, puntando su Rohani, oppure se vorranno rompere l’alleanza coi centristi del defunto Akbar Hashemi Rafsanjani – storico leader pragmatico della politica iraniana – presentando un candidato autonomo. Se i candidati non sono ancora stati ufficializzati e comprendere eventuali nuove coalizioni richiederà ancora delle settimane, quello che è certo rimane la possibile influenza che avrà sul voto primaverile l’elezione del faclo Trump a Washington.

Se infatti fino a oggi l’attuale presidente iraniano Rohani poteva ambire ad avere una controparte relativamente disponibile per migliorare i rapporti bilateriali (Obama), ora la situazione è molto diversa e la salita al potere di Trump potrebbe rivelarsi una questione delicata per un esecutivo iraniano troppo pacato; gli Iraniani hanno votato per Rohani nel 2013 con la speranza di vedere una ripresa nell’economia, attraverso la promessa di relazioni più amichevoli con la principale potenza mondiale, ma ora che a tutti è chiaro che Trump non è disponibile a relazioni cordiali, l’elettorato potrebbe tornare sui propri passi, optando per un candidato più radicale, come hanno fatto gli americani. Per Rohani sta iniziando un trimestre di fuoco; molto dipenderà dagli equilibri interni certamente, ma la nuova politica americana in Medio Oriente potrebbe rivelarsi fatale per il chierico di Teheran.    


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Ali Reza Jalali, laureato in giurisprudenza presso l`Università degli Studi di Brescia, ha conseguito il dottorato di ricerca in diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Verona. Attualmente insegna diritto costituzionale e internazionale presso il Dipartimento di Giurisprudenza della Facoltà di Scienze umanistiche dell’Università Islamica di Shahrud (Iran). Presiede il Centro studi internazionale Dimore della Sapienza, di cui è anche responsabile per la sezione dedicata agli studi giuridici e politologici. Ha pubblicato numerosi saggi su “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e nel relativo sito informatico. Nelle sue ricerche si occupa prevalentemente dei temi attinenti al diritto pubblico, al diritto internazionale, al rapporto tra Islam e scienza politica ed alle relazioni internazionali, in particolare per quanto riguarda l’area islamica.