Al tavolo della partita afghana siedono molti giocatori. Ognuno è deciso a ritagliarsi una parte attiva nell’evolversi di una situazione intricata dalla quale nessuno ha intenzione di uscire sconfitto e neanche ridimensionato. Lo stato di incertezza permette ai vari attori geopolitici di mettere in campo strumenti che riescano a far pesare maggiormente il proprio ruolo ed i propri interessi strategici.

La Conferenza sull’Afghanistan di gennaio, fermo restando che la sua valenza rimane, come prevedibile, sostanzialmente circoscritta alla celebrazione dell’incontro in sè, va correlata ad una meno evidente trama di frizioni e giochi politico-diplomatici che si sovrappongono dietro le quinte dell’ufficialità.

L’incontro di Istanbul

Nella fase che ha anticipato la sessione di Londra, un vertice significativo si è tenuto ad Istanbul tra i presidenti di Afghanistan, Pakistan e Turchia. Che Ali Asif Zardari e Abdullah Gul si siano premurati d’incontrare Hamid Karzai prima della vetrina londinese è sintomatico del fatto che Pakistan e Turchia abbiano intenzione di ricucirsi un ruolo preminente, risultando determinanti per sbrogliare una matassa che è ormai una zavorra innanzitutto per la potenza in prima fila, cioè gli Stati Uniti.

Sul versante pachistano si ha la consapevolezza che l’evanescenza dei confini con l’Afghanistan espone il Paese ad una serie di rischi che costringono Islamabad ad una tattica ora più attendista ora più risoluta, al fine di garantire una stabilità interna che è sempre più minata da un insieme di spinte endogene ed esogene. Del resto, che i laboratori strategici americani abbiano formulato la definizione di Afpak, tesa appunto ad inquadrare come un unico fronte quello dei due Paesi asiatici, è l’ulteriore dimostrazione che non tutto si svolge e non tutto può risolversi a Kabul. Il Pakistan, con il centro nevralgico dell’ISI, è la variabile indispensabile per pianificare ed attuare un processo di gestione non solo militare, ma anche politica.

Sul versante turco, benché non ci sia una preoccupante contiguità territoriale col suolo afghano, incorrono almeno due fattori su tutti.

La Turchia, già snodo fondamentale del gioco energetico, ora al comando di turno delle operazioni Isaf appunto in Afghanistan, si sta riposizionando su di una linea meno propensa ad accomodamenti occidentali e più confacente al suo essere ponte tra Europa e Asia, il che significa aver modellato una più attiva azione eurasiatica.

Tuttavia, in virtù anche dei suoi retaggi storici, essa è un ideale confine tra spinte radicali islamiste e spinte più propriamente laiche. Negli ultimi anni ha dovuto affrontare il problema di cellule qaediste operanti sia al suo interno, sia nelle regioni turcofone, sia in Germania. Proprio qui, dove notoriamente vi è una cospicua presenza turca, sembrerebbe essere maturata un’attività di propaganda e reclutamento da parte di movimenti jihadisti. Alcune decine di giovani turchi avrebbero raggiunto i campi di addestramento nel Nord Waziristan tra le fila dell’Iju (Islamic Jihad Union), legata all’Imu (Islamic Movement of Uzbekistan), a sua volta legata alla rete dei movimenti risalenti ad al Qaeda. Proprio l’Iju avrebbe intenzione di accreditarsi come difensore e portavoce dei musulmani turcofoni in Europa e Asia Centrale, e starebbe contribuendo all’afflusso di miliziani in Afghanistan, sfruttando la posizione della Turchia come crocevia di tali traffici.

Come emerge, anche i Turchi si impongono di affiancare, al tentativo di una propria stabilizzazione interna, un’azione propositiva esterna integrata, se non parallela, rispetto al compito svolto con le altre forze internazionali nell’impegno afghano.

La Conferenza internazionale sull’Afghanistan

Londra, 28 gennaio 2010. Defilè diplomatico alla Lancaster House, nove anni dopo Bonn.

E’ stata una parabola dalle ritualità diplomatiche alla fumosità delle decisioni politiche.

Tra i pur sempre presenti e forzati richiami idealistici per una missione occidentale di liberazione della terra afghana dal terrore con annessa immissione di diritti civili e politici, a prevalere sembra esser stato un certo spirito di realismo. È questo realismo che va soppesato, un realismo che dovrebbe superare il mal condotto tentativo di celare le debolezze dietro la fermezza degli impegni assunti. Non c’è stato spazio per i trionfalismi, perché non c’era motivo di prendersi in giro. L’impasse afghana è ormai decodificata, per gli alleati bisogna solo che i suoi risvolti non sfuggano definitivamente al controllo, scivolando in un fallimento impresentabile. E proprio qui è, forse, la vera sfida.

Inghilterra, Afghanistan, il Grande Gioco. Un fantasma, quello di Kipling; un convitato di pietra, i Taliban.

Sotto l’egida delle Nazioni Unite, il primo ministro britannico, Gordon Brown, ha fatto gli onori di casa alla presenza dei ministri degli Esteri dei Paesi della missione Isaf, del presidente afghano Karzai, dei rappresentanti di Onu, Ue, Nato e Usa, di alcune istituzioni internazionali come la Banca Mondiale nonché di alcuni Paesi limitrofi all’Afghanistan.

Spiccavano illustri assenti: l’Arabia Saudita, l’Iran e soprattutto i gruppi di miliziani, su tutti i Talebani.

La Conferenza era imperniata su tre sostanziali obiettivi: sicurezza-governance e sviluppo-relazioni regionali, così come presentati dal ministro degli Esteri inglese, David Miliband. Più concretamente, si è trattato di ratificare la strategia già elaborata a Washington dal duo Gates-McChrystal:

tre pilastri

  • surge militare con corrispettivo potenziamento dell’esercito afghano
  • surge civile
  • reintegro dei talebani “moderati” nella società

tre obiettivi

  • indebolimento della resistenza dei miliziani e autosufficienza delle forze di sicurezza di Kabul
  • ricostruzione economica
  • pacificazione

In sostanza, emergono due linee di intervento:

  • la costruzione e la stabilizzazione di istituzioni civili solide e più trasparenti; il trasferimento di poteri nelle province ai rappresentanti delle varie comunità; sostegno all’educazione e al lavoro; riconversione agricola delle coltivazioni di oppio
  • trattative con i guerriglieri che depongano le armi; convocazione di una Loya Jirga, il conclave del popolo, allargata al maggior numero di capi di etnie e tribù, nel nome di una ritrovata unità. A tale fine, si istituisce un fondo di alcune centinaia di milioni di dollari per “la campagna acquisti” nel fronte nemico.

Questo è il quadro di una strategia di transizione prevista nell’arco di 5 anni, a fronte di un periodo di addirittura 15 anni, come vorrebbe invece Karzai.

Alla luce dell’attuale situazione militare, politica e sociale dell’Afghanistan, è una prospettiva che di realistico ha ben poco. Per gli USA la vera incombenza è quella di imprimere una svolta strategica sul campo in circa 18 mesi.

Sicchè, di concreto vi è solo il ricorso a due iniziative:

– da un lato il surge, cioè l’incremento di uomini e mezzi, le cui cifre indicano un aumento a 130.000 uomini delle forze Isaf-Nato dalle attuali 85.000, ai quali si aggiungono i 30.000 americani della parallela Enduring Freedom. Per quanto riguarda la polizia afghana, si dovrebbe passare dagli 80.000 effettivi del 2009 ai 109.000 per ottobre 2010 fino ai 134.000 per ottobre 2011; tra le fila dell’esercito locale, poi, si prevede un passaggio da 94.000 a 134.000 per ottobre 2010, fino ai 171.600 per fine 2011;

– dall’altro, i fiumi di denaro che occorreranno per sostenere l’impiego militare e per comprare il nemico, sfruttando un apposito fondo sulla cui entità ancora non vi è certezza, ma sembrerebbe aggirarsi intorno ai 150 milioni di dollari rispetto ai 500 di una prima proposta. Del resto, è ormai apertamente dichiarato ciò che fino a poco tempo fa si preferiva tacere, e cioè che con i talebani non si può fare a meno di trattare, soldi alla mano. Lo stesso responsabile americano della Difesa, Robert Gates, ha riconosciuto che “i taleban fanno parte del tessuto politico afghano”. Il male assoluto da estirpare ora può essere curato in dollari.

In un’intervista al Financial Times a ridosso della Conferenza, così il comandante Stanley McChrystal: “Abbiamo combattuto abbastanza, una soluzione politica è lo sbocco inevitabile”. Eppure, non appaia contraddittorio ciò che in realtà si sta profilando.

Una nuova escalation militare è appena iniziata. E’ quella decisiva, è il colpo di coda per raddrizzare una situazione, a detta di molti commentatori, irrimediabile. Da tempo si parla di una guerra già perduta, in cui gli ultimi sforzi sono quelli per presentarsi con qualche punto in più ad un epilogo già segnato. Potendo contare sul dispiegamento dei 30.000 rinforzi approvato dal presidente Obama, il comandante mira a “creare una situazione di sicurezza nelle regioni del Sud e dell’Est”, nell’intento di indurre le milizie a “considerare l’opzione della riconciliazione”. Dal canto loro, i talebani hanno dapprima bollato come inutile il vertice di Londra e poi declinato l’invito angloamericano all’appeasement, ribadendo che la condicio sine qua non per trattare non può che essere il ritiro delle truppe occupanti.

La situazione sul campo

Lo schieramento dei ribelli sul versante Afpak è esiguo rispetto a quello Isaf ed Enduring Freedom, ma come noto può contare su una perfetta conoscenza del territorio, su una provata esperienza nelle vicende belliche (nella cosiddetta guerra d’attrito) e su una compiacenza se non aperta collaborazione delle popolazioni locali, per nulla ammaliate dalle sirene occidentali, nel solco di profonde differenze culturali che solo un cieco approccio ideologico può continuare a credere di cambiare. Più fonti sembrerebbero indicare il numero di unità ribelli talebane intorno ai 15.000 e quello dei qaedisti intorno ai 3.000. Sono rilevazioni approssimative, tenuto conto del fatto che esiste una galassia di forze su di un variegato sfondo etnico e tribale, senza struttura gerarchica e coordinata, senza un disegno comune e talvolta spalleggiate da potenze straniere, naturalmente intente ad aprirsi dei canali di influenza.

In questa complessa realtà, i pochi punti fermi sono sostanzialmente negativi, considerato un insieme di fattori quali l’aumento della ribellione, la creazione di “governi ombra”, l’insofferenza alla presenza straniera, la manifesta indifferenza o ostilità verso gli americani, la destabilizzazione del Pakistan, le cellule operative su più versanti, compreso quello indiano. Insomma, si delinea una sorta di buco nero geopolitico in cui confluiscono numerosi problemi pregressi.

Kabul è la capitale del malaffare, il presidente Karzai – confermato in seguito a conclamate elezioni truccate- è ostaggio della sua incapacità e dei capi-clan, sconta il fatto di essere il mero esecutore della volontà degli americani, e neanche diligente. Lui stesso e i governatori di numerose province sono espressione di componenti non maggioritarie delle popolazioni e non a caso sono gli unici a chiedere truppe e soldi per rimanere in sella. Le montagne di denaro speso dagli occidentali per la cooperazione –per quanto inferiori rispetto ad altri teatri- sono in molti casi infruttuose, a maggior ragione se manca un quadro di riferimento generale stabile. Da notare, come evidenzia un rapporto dell’ICSA (Intelligence Culture and Strategic Analysis): l’Italia è il nono donatore con una spesa dal 2001 al 2008 di 396 milioni di euro e con un investimento di 150 per il biennio 2008-2010. Qui, del resto, per molti il gioco varrebbe la candela nei termini in cui l’elargizione di prebende e il compimento di interventi di assistenza servano a mantenere una situazione di relativa tranquillità nelle zone di competenza. Ma l’inasprirsi del conflitto potrebbe portare ad un mutamento sensibile.

Il progetto export dello state-building è pressoché scaduto ad un tentativo di normalizzazione, rispetto alla scelta, rilevatasi errata, di promuovere un accentramento politico-amministrativo ruotante intorno a Kabul. L’impossibilità che ciò reggesse è tutta nell’evidenza di un territorio impervio nelle mani di gruppi etnico-tribali spesso propensi a mercanteggiare rendite di potere e gestione di traffici, armi e droga compresi, come dimostra una costante tipica della zona: la coltivazione ed il contrabbando di oppio.

La sostanza strategica di Washington è nell’operazione di counterinsurgency-counterterrorism, sul modello iracheno del Gen. Petraeus, di cui gli americani menano vanto. Sorvolando sulle implicite difficoltà di attuazione, data la difformità del territorio e della situazione irachena rispetto all’Afghanistan, emerge a questo punto come tale strategia si leghi al rapporto tra afghanizzazione ed americanizzazione del conflitto.

Il surge delle forze afghane, infatti, dovrebbe supportare le azioni di “bonifica” americane, nel senso di una presa di controllo di quei territori che in primis le forze speciali di Washington dovrebbero alleggerire della presenza degli insorti. Ciò risulta fondamentale che avvenga, ai fini delle manovre di attacco che gli americani dovranno condurre nelle zone più pericolose est-sud, in particolare sul fronte delle province Herat-Farah-Helmand-Kandahar, contiguo a quello Belucistan-Waziristan-Swat in territorio pachistano, dunque su quella linea Afpak di 900 km dove gli attriti con Islamabad sono numerosi. Quest’ultima non ammette già peraltro avvenuti sconfinamenti al proprio interno e non aderisce tout court alla condotta di guerra americana antitalebana. L’ISI (servizio segreto) pachistano serba una sorta di primogenitura sul fenomeno talebano e ci sono mai cessati contatti tra suoi rami e gli islamici radicali. In Pakistan è operativo il Ttp (Tehrik-e-taliban Pakistan), che ha un consolidato sostegno da parte della popolazione e non può essere liquidato a meno di uno scontro frontale foriero di pericoli ed instabilità, laddove già in passato si sono registrate incursioni dell’esercito e parimenti cruenti attentati. Islamabad ha più interesse a controllare o a giocare di sponda con le fazioni talebane interne, anziché sposare il progetto di Karzai a Kabul e l’offensiva americana ai propri confini, per di più se all’orizzonte si profila un successo de facto delle milizie e dei signori locali.

Ma la tavola afghana segue un’intricata geometria, all’interno della quale tessono trame i sauditi con la loro storica cassaforte pro-taliban, gli indiani che ritagliano spazi di intelligence e logistici turbando i pachistani, gli iraniani che diffidano di focolai sunniti alle loro porte, i russi e i cinesi che non hanno intenzione di concedere accomodamenti senza contropartite strategiche relative al proprio ruolo di potenze, specie rispetto alla super-potenza americana.

Il nodo geopolitico

Corrono delle analogie significative: quello che fu il pantano del Vietnam per gli americani, direttamente proporzionale al pantano che l’Afghanistan stesso fu per i sovietici.

L’escalation militare che il Pentagono ora scatena è rapportabile a quella del duo Nixon-Kissinger sulla base di un assunto comune: recuperare posizioni di forza per trattare con il nemico, lo stesso cui mirano i guerriglieri dopo aver dimostrato sul campo di non poter essere battuti.

E l’altra analogia: Gorbaciov-Obama. Il secondo, come il primo, eredita una delicata guerra in un periodo di crisi economica. In questo senso, la counterinsurgency di McChrystal richiama quella del generale Zaitsev per il medesimo obiettivo: favorire una riconciliazione nazionale come battistrada per il disimpegno.

Sullo sfondo, rimane la sostanza di una impresa bellica spacciata per intervento umanitario “pericoloso” (dalle cancellerie europee in particolare affinchè avesse una legittimità costituzionale), corroborato da un ideologico tentativo di esportazione “democratica” votato, come narrano le vicende, al fallimento. Del resto, essa poggia su un’impalcatura di motivazioni addotte che non può reggere alla realtà geopolitica.

Di fatto, si tratta innanzitutto di una missione interna alle strategie atlantiche di insediamento nello scenario asiatico.

Nella contesa della Grande Scacchiera ha l’obiettivo di predisporre un combinato meccanismo geo-predatorio delle risorse e delle rotte energetiche di cui l’Afghanistan non è che un tassello rispetto al più ampio quadrante asiatico-mediorientale.

Si alimenta di un enorme sacrificio di uomini e risorse mentre delinea un buco nero per le mire criminali delle narco-mafie internazionali.

A lungo termine è una pianificata morsa a tenaglia contro la Russia e di qui, quindi, contro l’Europa.

In gioco c’è la giustificazione stessa dell’esistenza della NATO, cioè della sopravvivenza del braccio armato unilaterale di Washington, travestito da multilateralismo. Unilateralismo delle decisioni, multilateralismo dei consensi e delle risorse. Obama più, Obama meno.

* Alfredo Musto si occupa di Mediterraneo e Vicino Oriente per il sito di “Eurasia”


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