Nel dibattito contemporaneo sul colonialismo israeliano e sul genocidio in corso a Gaza, aleggia una domanda che raramente viene posta in modo diretto, ma che emerge come un’ombra dietro ogni analisi storica e politica: Israele riuscirà a fare con i Palestinesi ciò che gli Stati Uniti fecero con i nativi americani?
A prima vista, il paragone appare logico. Il progetto sionista, nato a fine Ottocento, si fonda su un’idea di insediamento etnico in una terra percepita come “vuota” o “sottoutilizzata” — una narrativa non dissimile da quella del “destino manifesto” con cui i coloni europei giustificarono l’espansione verso l’Ovest americano.
Del resto, molti di quei coloni si consideravano essi stessi un “popolo eletto” in fuga dall’oppressione europea, diretti verso una “terra promessa” da redimere. Nella loro visione biblica, l’America era la nuova Canaan, e i popoli nativi erano i Cananei da espellere o sterminare. Questo immaginario legittimante ha avuto un peso enorme nella giustificazione della violenza coloniale, esattamente come oggi nel sionismo religioso più radicale.
In entrambi i casi, la popolazione indigena viene descritta come un ostacolo, un intralcio da superare con la forza, attraverso l’espulsione, l’annientamento o l’assimilazione forzata. Come gli Stati Uniti di allora, anche Israele gode dell’appoggio di grandi potenze, di risorse militari avanzate e di un impianto ideologico che rivendica un diritto storico inalienabile sulla terra conquistata.
Questa somiglianza è rafforzata da alcuni elementi ricorrenti. Il linguaggio politico di Israele — “difesa della civiltà”, “guerra contro il terrorismo”, “riappropriazione di terre ancestrali” — riecheggia i discorsi dei coloni europei che, nel XIX secolo, dipingevano i nativi americani come selvaggi, irriducibili nemici della modernità, ostacoli al progresso e al mercato. L’uso della violenza sistematica come strumento di normalizzazione politica e demografica è anch’esso un tratto comune.
Eppure, appena si grattano le somiglianze di superficie, emergono differenze profonde, tanto sul piano storico quanto su quello geopolitico. La conquista del West avvenne in un contesto globale radicalmente diverso, in un’epoca priva di opinione pubblica internazionale e soprattutto di strumenti di comunicazione di massa. Nessuno documentava i massacri, nessuno li trasmetteva in tempo reale. Il silenzio proteggeva i carnefici. Gli Stati Uniti poterono espandersi in un mondo che non guardava, non giudicava e non condannava: il genocidio passava sotto silenzio o veniva normalizzato come effetto collaterale del progresso.
Inoltre, gli Stati Uniti agivano in una dinamica numerica favorevole: milioni di coloni europei arrivavano ogni decennio, mentre le popolazioni native, già decimate da epidemie e guerre, venivano rapidamente ridotte a una minoranza dispersa e frammentata, priva di unità politica e voce pubblica. Isolati, silenziati e privi di strumenti per raccontare la propria storia, i nativi furono travolti senza che il mondo se ne accorgesse.
Israele, invece, si muove in un contesto radicalmente opposto. Opera sotto gli occhi del mondo, in un’epoca iperconnessa in cui ogni atto di violenza è immediatamente visibile e documentato. Le dinamiche demografiche non giocano a suo favore: i palestinesi sono milioni, presenti ovunque tra il Giordano e il mare, nei territori occupati, nelle città israeliane e nei campi profughi della regione. Crescono più rapidamente della popolazione ebraica e, soprattutto, sono una società politicamente cosciente, organizzata, culturalmente viva e profondamente radicata nel territorio e nella memoria collettiva.
In questo saggio ci soffermeremo proprio su questo confronto, cercando di capire in che misura Israele possa essere paragonato agli Stati Uniti del XIX secolo, e dove invece le due traiettorie divergano in modo netto. Esamineremo quattro assi fondamentali: la questione demografica, il ruolo e la condizione dei colonizzati, il fattore geografico e spaziale, e infine il contesto mediatico e politico globale.
L’obiettivo è fornire una chiave di lettura storica e strutturale che permetta di comprendere la natura del progetto coloniale israeliano e i suoi limiti. Il paragone con l’America può aiutare a illuminare certe dinamiche di violenza e sostituzione, ma ci costringe anche a interrogarci su ciò che, oggi, rende il colonialismo non più una forza ascendente, ma un fenomeno in crisi, sottoposto a vincoli che un tempo non esistevano.
Demografia di rimpiazzo: gli USA avevano milioni di coloni, Israele no
Gli Stati Uniti, nel XIX secolo, poterono contare su una forza coloniale che nessun altro progetto di conquista territoriale aveva mai avuto a disposizione: una massa migratoria europea praticamente inesauribile. Tra il 1800 e il 1920, si stima che oltre 33 milioni di persone siano emigrate dall’Europa verso il “Nuovo Mondo”. Fu il più grande spostamento umano volontario della storia moderna.
Le cause erano molteplici: povertà endemica in Irlanda e nel Sud Italia, crisi agrarie in Germania e Scandinavia, crisi e repressione delle minoranze nell’Impero zarista, rivoluzioni fallite, urbanizzazione caotica e disoccupazione crescente. A ciò si aggiungeva un’ideologia potente: il “sogno americano”, che prometteva terra, libertà e opportunità. Un sogno costruito, però, sull’espropriazione sistematica della terra altrui.
Questo fenomeno migratorio non fu casuale né caotico. Fu accompagnato da infrastrutture statali, ideologia espansionista (il “destino manifesto”) e una macchina politico-militare ben oliata, che incoraggiava e assorbiva i nuovi arrivati all’interno di un progetto di colonizzazione integrale. Intere famiglie di coloni furono spinte a occupare le terre a Ovest, anche grazie a leggi come l’Homestead Act del 1862, che assegnava gratuitamente appezzamenti di terreno a chi fosse disposto a viverci e coltivarli.
Questa combinazione di flussi migratori e politiche di insediamento strutturate rese possibile la sostituzione quasi totale delle popolazioni indigene con una nuova società di origine europea: coesa sul piano culturale, dominante su quello demografico, organizzata politicamente. I nativi americani, decimati da epidemie, deportazioni, massacri e fame, furono ridotti a una presenza marginale, frammentata e priva di potere.
Quel successo coloniale, tanto violento quanto sistemico, fu reso possibile dalla forza del numero: un’abbondanza costante e prolungata di nuovi corpi pronti a occupare il territorio, sostenere lo Stato, riprodurre la società, e — non meno importante — sostituire chi veniva eliminato. Fu questo surplus umano a garantire la vittoria storica del colonialismo nordamericano.
Israele non dispone di nulla di simile. La popolazione ebraica mondiale oggi si aggira attorno ai 15 milioni, e poco più della metà vive già nello Stato d’Israele. I Palestinesi, tra Israele, Cisgiordania e Gaza, sono già circa sette milioni e hanno un tasso di natalità stabilmente superiore a quello ebraico. In altre parole, non esiste una “riserva umana” disponibile a rimpiazzare i Palestinesi, né per quantità, né per volontà politica, né per necessità economica.
L’unica vera ondata migratoria di massa che abbia permesso a Israele di alterare il proprio equilibrio demografico fu quella che seguì al crollo dell’Unione Sovietica. Tra la fine degli anni ’80 e i primi anni 2000, circa un milione di ebrei – o persone considerate tali – arrivarono da Russia, Ucraina e altre repubbliche ex sovietiche. Fu un fenomeno unico, irripetibile e legato a un contesto geopolitico eccezionale. Oggi, quel bacino si è esaurito.
Da allora, l’immigrazione è rallentata drasticamente. Le aliyah degli ultimi due decenni, provenienti da paesi come Francia, Etiopia o America Latina, sono state numericamente modeste e spesso temporanee. Anche il recente flusso da Russia e Ucraina, legato alla guerra in corso, ha avuto carattere emergenziale e non ha prodotto una trasformazione strutturale. Molti dei nuovi arrivati non si identificano con il progetto sionista e una parte significativa lascia il paese poco dopo.
Un altro elemento cruciale è la diversa capacità di attrazione esercitata dai progetti coloniali. Gli Stati Uniti, nel pieno della loro espansione, si presentavano come una terra di riscatto e opportunità concrete: accesso a proprietà terriere, mobilità sociale e libertà personale. Per milioni di europei impoveriti o perseguitati, era un orizzonte di vita possibile, non solo un mito. Quell’immenso serbatoio umano fu essenziale per sostituire le popolazioni indigene con una società nuova e dominante.
Ben diversa è oggi la situazione di Israele. Nel clima attuale, è sempre più difficile trovare ebrei disposti a trasferirsi nel paese. Le nuove generazioni della diaspora, soprattutto in Nord America e in Europa, sono culturalmente integrate, spesso progressiste, e sempre meno legate all’identità ebraica in senso nazionale. Per molti, l’ebraicità si esprime soprattutto come appartenenza culturale o memoria etica, più che come adesione a un progetto statale o territoriale.
Inoltre, l’immagine dello Stato ebraico – segnata da decenni di occupazione, da una guerra definita genocida da una parte crescente dell’opinione pubblica internazionale e da una crescente instabilità interna – agisce oggi come un forte deterrente per chi, in passato, avrebbe potuto considerare l’idea di emigrare in Israele.
In parallelo, cresce invece il numero di israeliani che scelgono di partire, scoraggiati da una realtà segnata da conflitto permanente, tensioni politiche, incertezza economica e isolamento internazionale[1].
In sintesi, Israele non ha né i numeri né le condizioni politiche per rimpiazzare la popolazione palestinese attraverso l’immigrazione. Il modello coloniale statunitense, che ha potuto sostituire i nativi con una massa di coloni europei, semplicemente non è replicabile. All’epoca della conquista del West, i coloni bianchi negli Stati Uniti crescevano di milioni ogni decennio grazie a un flusso migratorio europeo inarrestabile, mentre la popolazione indigena – già decimata da epidemie e conflitti – si riduceva a una piccola frazione, facilmente confinabile e marginalizzabile.
Israele si trova oggi nella condizione opposta: non ci sono abbastanza ebrei nel mondo disponibili a colonizzare la Palestina, né sul piano numerico né su quello ideologico. E al contrario dei nativi americani, i palestinesi sono numerosi, radicati, organizzati e in costante crescita. Le proiezioni demografiche lo confermano: entro il 2050, gli ebrei rappresenteranno solo circa il 35% della popolazione complessiva tra Israele, Cisgiordania e Gaza, contro un 65% di popolazione palestinese[2]. Non solo manca oggi una riserva umana capace di ribaltare i rapporti: nel lungo periodo, sarà sempre più difficile persino contenerli.
I nativi erano decimati e dispersi, i Palestinesi sono vivi, uniti e in resistenza
Quando iniziò la colonizzazione europea del Nord America nel XVI secolo, le popolazioni indigene si trovavano già in condizioni catastrofiche. Le prime epidemie transoceaniche – in particolare vaiolo, morbillo, influenza e tifo – si diffusero ben prima dei grandi massacri o delle guerre di conquista, portate dagli esploratori, dai missionari e dai mercanti.
La mancanza di immunità genetica delle popolazioni native, mai esposte prima a quei virus, generò una devastazione senza precedenti: in alcune aree, le perdite umane superarono l’80-90%. Solo tra il 1492 (arrivo di Colombo) e il 1600, si stima che la popolazione indigena nelle Americhe sia crollata da circa 60 milioni a meno di 6 milioni. Un’ecatombe demografica che colpì anche il Nord America, in particolare lungo le coste atlantiche, nel Sud-Ovest e nelle Grandi Pianure.
Questa catastrofe sanitaria non fu solo precedente alla colonizzazione: ne fu la condizione abilitante. La drastica riduzione della popolazione indigena spianò la strada all’espansione europea, abbattendo resistenze sociali e strutture organizzate prima ancora che iniziasse la conquista militare. Le comunità decimate non furono più in grado di difendere i propri territori con continuità. In molti casi, villaggi interi venivano trovati vuoti o spopolati ancor prima che le truppe europee li raggiungessero. Il genocidio biologico — seppur involontario nelle prime fasi — creò le condizioni ideali per il genocidio politico e culturale che sarebbe seguito.
A questo si aggiungeva una frammentazione profonda. I nativi americani non possedevano uno Stato unitario né strutture politiche centralizzate, ma vivevano in migliaia di tribù, confederazioni, clan, spesso separati da enormi distanze linguistiche e culturali. Erano privi di stampa, di una lingua comune, di rappresentanza internazionale, e non avevano accesso a mezzi di comunicazione capaci di narrare la propria storia al mondo.
I Palestinesi, al contrario, sono una popolazione viva, organizzata, politicamente cosciente. Sono presenti ovunque tra Mediterraneo e Giordano, ma anche in Libano, Giordania, Siria, Europa, nelle Americhe e nel Golfo. Nonostante l’occupazione, la diaspora e la repressione, hanno mantenuto una forte identità nazionale, un linguaggio politico articolato, istituzioni culturali e un progetto storico collettivo.
La società palestinese, fin dal periodo ottomano, era una delle più sviluppate del Levante arabo. A cavallo tra il XIX e il XX secolo, città come Gerusalemme, Nablus, Hebron, Jaffa e Gaza erano centri vivaci di commercio, educazione, stampa e dibattito intellettuale, con scuole, associazioni letterarie, giornali e una borghesia urbana politicamente attiva. Prima ancora della creazione dello Stato di Israele, la Palestina era abitata da una popolazione complessa e dinamica, con un tessuto sociale articolato, ben radicato e storicamente consapevole di sé.
Hanno prodotto intellettuali, artisti, poeti, giornalisti, guide politiche, movimenti popolari e sindacali. Dalla resistenza armata alle proteste di massa, dalla diplomazia internazionale all’istruzione in esilio, la causa palestinese si è evoluta in una forma di lotta che attraversa generazioni e frontiere. La loro memoria storica è intatta, documentata e tramandata. A differenza dei nativi sterminati e spinti oltre il margine, i palestinesi sono parte viva della geopolitica contemporanea.
Possiedono una narrazione propria e autonoma, sostenuta da una diaspora globale e da un’ampia rete di solidarietà nel Sud globale, tra i movimenti anticoloniali e i popoli oppressi. Non subiscono più semplicemente la Storia: la scrivono, la comunicano, la condividono. La loro voce è presente all’ONU, nelle università, nei social media, nelle piazze del mondo.
E soprattutto, a differenza di molte comunità indigene annientate o assorbite, i Palestinesi non sono disposti a scomparire. Sono un popolo radicato, connesso, resistente. Gaza, pur devastata dalle bombe, è ancora un luogo in cui si studia, si lavora, si sogna. In Cisgiordania, Gerusalemme e nei campi profughi, la vita quotidiana è un atto politico. Ogni generazione raccoglie l’eredità della precedente, e nonostante tutto, rilancia la lotta.
Questa differenza fondamentale — tra chi era già decimato e chi è ancora in piedi — cambia radicalmente le condizioni storiche del confronto. Gli Stati Uniti poterono sterminare i nativi senza conseguenze internazionali, con il silenzio della Storia. Israele, invece, è costretto a fronteggiare un popolo che resiste, testimonia e parla al mondo in tempo reale.
Lo spazio fa la differenza
Una delle variabili meno discusse ma più determinanti nel confronto tra il colonialismo statunitense e quello israeliano è la geografia. Gli Stati Uniti, durante la conquista del continente nordamericano, disponevano di uno spazio virtualmente illimitato. Dopo aver espulso o sterminato i nativi delle regioni orientali, poterono deportare i sopravvissuti in territori remoti e disabitati dell’Ovest, dove istituirono le famigerate riserve. La vastità del continente rendeva possibile isolare i popoli indigeni, rimuoverli dalla visibilità pubblica e dalla vita politica, condannandoli a una marginalità che durava nel tempo.
Israele, invece, non ha spazio. Gaza è una striscia di terra densissima, la Cisgiordania è già spezzettata da insediamenti e zone militari, e Israele stesso è un piccolo paese, con margini geografici estremamente limitati per qualsiasi progetto di espulsione su larga scala. Non esiste una “terra lontana” dove deportare milioni di palestinesi. Nessun deserto sconfinato, nessuna frontiera interna da spingere sempre più in là.
L’Egitto ha ribadito di non voler diventare complice di una nuova Nakba. Al Cairo, l’idea di accogliere centinaia di migliaia di profughi palestinesi è vista come una minaccia alla sovranità e alla stabilità interna. La Giordania ha una posizione ancora più netta: ospita già una vasta popolazione palestinese e non intende trasformarsi nel “cimitero demografico” della Palestina storica. I Paesi del Golfo, l’Europa, gli Stati Uniti: tutti esprimono dichiarazioni di principio, ma nessuno è disposto a farsi carico di milioni di sfollati.
In questo contesto, l’unico “spazio” che Israele sembra lasciare ai Palestinesi è quello sotto terra. Le distruzioni a Gaza, la sistematica demolizione di abitazioni, scuole, ospedali e infrastrutture civili indicano che non si tratta più di una guerra per il controllo, ma di una guerra per lo svuotamento del territorio, per la cancellazione fisica di una popolazione considerata irriducibilmente estranea e indesiderata.
Non si tratta solo di negare uno Stato. Si tratta di negare lo spazio stesso della sopravvivenza di un popolo: la casa, la città, l’acqua, l’aria, il respiro. È un’espulsione che non trova sbocco esterno e si trasforma in eliminazione interna. Un popolo confinato senza uscita, circondato, affamato, bombardato, e al tempo stesso rifiutato dal mondo che osserva e tace.
Tuttavia questa strategia distruttiva, lungi dal produrre una vittoria stabile, sta generando una crisi prolungata. La devastazione del territorio non ha annientato la resistenza, né spezzato la coesione della popolazione. Al contrario, ha imposto a Israele una presenza militare sempre più estesa e permanente in un ambiente ostile e ingestibile.
Per questo, la violenza non apre spazi nuovi: si avvita su sé stessa. Non potendo espellere, né assorbire, né eliminare la popolazione palestinese, l’apparato militare israeliano si ritrova costretto a un’occupazione permanente, sempre più logorante.
Secondo lo storico e politologo palestinese Joseph Massad, il genocidio in corso non è segno di forza, ma “la fase terminale di un progetto coloniale in crisi”[3]. Non è una strategia lucida e vincente, ma un’azione estrema, dettata dal fallimento strutturale del sionismo come progetto di insediamento e sostituzione. Non c’è più spazio da colonizzare, non ci sono abbastanza corpi da rimpiazzare, e non esiste un altrove di fuga. Restano solo bombe, sangue e un controllo che non produce né dominio né sicurezza.
Il mondo oggi guarda, e ricorda
Il genocidio dei nativi americani avvenne nel silenzio, nella distanza, nell’impunità. Fu un processo brutale ma invisibile, disseminato di massacri di cui nessuno parlava, e che solo secoli dopo sono entrati nei libri di storia. Privo di copertura mediatica, di archivi istantanei, di indignazione globale. Nessuno fermò la mano coloniale perché nessuno, fuori dagli Stati Uniti, vedeva davvero ciò che accadeva.
Basta pensare al massacro di Wounded Knee, nel 1890: oltre 250 Lakota Sioux, in gran parte donne e bambini, furono uccisi dall’esercito americano. Nessuna immagine, nessun video, nessuna voce che potesse documentare in tempo reale quell’orrore. Solo la versione ufficiale dei carnefici e qualche foto sbiadita scattata a cose fatte. Se fosse successo oggi, il mondo lo avrebbe visto mentre accadeva. E nessun governo avrebbe potuto raccontarlo come un semplice “conflitto”.
Il genocidio contro i Palestinesi, al contrario, non avviene nell’ombra, ma alla luce piena della comunicazione globale. Ogni crimine è filmato, trasmesso, condiviso. Ogni maceria è un dato. Ogni ferito una testimonianza. Ogni bambino ucciso, un nome e un volto che entrano negli archivi digitali prima ancora che la terra lo accolga. Basta un telefono per trasmettere una verità che nessuna propaganda può cancellare.
A Gaza, come in Cisgiordania, la memoria si costruisce in tempo reale. Non si tratta più solo di denunciare. Si tratta di scrivere la storia mentre accade, davanti a milioni di testimoni. Le prove non aspettano più decenni per emergere: sono qui, ora, accessibili a chiunque voglia vedere. L’era della documentazione istantanea rende impossibile il silenzio che una volta proteggeva i carnefici.
Questa ipervisibilità ha effetti politici sempre più rilevanti. In Occidente, soprattutto tra le giovani generazioni, il consenso nei confronti di Israele sta crollando. Un sondaggio Gallup pubblicato dalla CNN il 31 luglio 2025 ha rilevato che solo il 9% degli americani tra i 18 e i 34 anni approva l’operato militare di Israele a Gaza, indipendentemente dall’affiliazione politica. Un dato che suggerisce una frattura generazionale profonda e una crisi strutturale nella percezione pubblica statunitense di Israele, con implicazioni significative per entrambi i principali partiti[4].
Lo stesso vale nel Regno Unito. Una recente indagine YouGov mostra che il 45% dei cittadini britannici è favorevole al riconoscimento dello Stato di Palestina, mentre solo il 15% vi si oppone. Persino tra gli elettori conservatori, la quota di sostenitori del riconoscimento è più alta dei contrari. Un altro sondaggio ancora più significativo aveva rivelato che il 48% dei britannici ritiene che Israele tratti i palestinesi come i nazisti trattavano gli ebrei. Solo il 13% è in disaccordo[5].
Il colonialismo americano poté nascondere i suoi crimini dietro la frontiera e il silenzio. Israele non può. Il suo genocidio è sotto gli occhi del mondo. E senza oblio, non esiste più impunità duratura.
Conclusione
Gli yankee riuscirono a sterminare i nativi perché avevano chi li avrebbe sostituiti. Milioni di europei affluivano nel Nuovo Mondo, pronti a occupare le terre svuotate, a costruire città, a fondare uno Stato sulle rovine di un altro. La violenza coloniale, per quanto brutale, era funzionale a un progetto demografico solido e sostenuto da una forza numerica apparentemente inesauribile.
Israele, al contrario, non ha nessuno che possa sostituire i Palestinesi. Non esistono milioni di coloni in attesa oltre i confini. Non esiste un flusso migratorio pronto a occupare Gaza o la Cisgiordania. La riserva umana è finita. E la presenza palestinese, radicata, resistente, consapevole, è troppo forte per essere rimossa o assorbita.
Per questo, il genocidio non è oggi una strategia coloniale efficace, ma l’atto disperato di un progetto in agonia. Non costruisce, non sostituisce, non riorganizza: semplicemente distrugge. Ma ciò che distrugge — immagini, corpi, famiglie — diventa immediatamente visibile, condiviso, archiviato, raccontato. E resta.
Nel mondo iperconnesso di oggi, uccidere un popolo sotto gli occhi del pianeta non garantisce vittoria, ma spesso ne affretta il collasso morale e politico. A differenza del XIX secolo, oggi non è affatto detto che chi stermina, vinca.
E questa consapevolezza — fragile, dolorosa, ma reale — è forse il primo vero limite storico imposto al colonialismo nella sua fase terminale. Un limite non solo etico, ma pratico: senza rimozione, senza sostituzione, senza silenzio, il meccanismo coloniale si inceppa. E quando si inceppa, crolla.
NOTE
[1] Secondo quanto riporta The Guardian nell’articolo “Israelis moving to live in Europe ‘rejuvenating’ Jewish communities” (17 marzo 2025), oltre 82.000 israeliani hanno lasciato il paese nel 2024, più del doppio rispetto alla media annuale del periodo 2009–2021, che si aggirava attorno alle 30.000 partenze — https://www.theguardian.com/world/2025/mar/17/israelis-moving-live-europe-rejuvenating-jewish-communities.
[2] Sergio Della Pergola, Israele e Palestina. La forza dei numeri. Il conflitto mediorientale fra demografia e politica, Il Mulino, 2007.
[3] Joseph Massad, “Israel’s genocide in Gaza is the final stage of a settler-colonial project in crisis”, Middle East Eye, 16 novembre 2023 – https://www.middleeasteye.net/opinion/israel-genocide-terminal-stage-settler-colony-crisis.
[4] “Young Americans’ support for Israel plunges in new Gallup poll,” CNN, 31 luglio 2025 – https://edition.cnn.com/2025/07/31/politics/us-support-israel-gaza-republicans-democrats.
[5] “The British public supports Palestine – but the government backs Israel,” MintPress News, 31 luglio 2025 – https://www.mintpressnews.com/trevor-chinn-british-politics-israel/290044/.
Questo articolo è coperto da ©Copyright, per cui ne è vietata la riproduzione parziale o integrale. Per maggiori informazioni sull'informativa in relazione al diritto d'autore del sito visita Questa pagina.