Le regioni dell’Africa mediterranea e del Vicino Oriente sono da tempo sotto l’occhio del ciclone a causa delle violente rivolte che stanno sconvolgendo le istituzioni e la politica del mondo arabo. Anche i regimi più lunghi e duraturi stanno cadendo sotto i colpi delle rivolte popolari. La situazione sembra essere diventata particolarmente critica anche in Giordania, la quale potrebbe essere un Paese sensibile ad un futuro approdo di quella che è stata definita la “rivolta dei gelsomini”, favorita questa, dalle instabilità politiche interne e dalle tensioni sociali sempre più forti. Lo scorso 25 marzo, dopo una prima serie di manifestazioni contro il regime, alcune centinaia di manifestanti, riuniti in piazza Gamal Abdal Nasser, minacciavano di restarvi a oltranza fino a quando il Re non avesse accolto le loro richieste: dimissioni immediate per il neo Primo Ministro Marouf al-Bahkit, reali e incisive riforme politiche ed economiche, nonché una seria lotta alla corruzione.

Il quadro politico-sociale

La Giordania è una monarchia costituzionale retta da Re Abdallah II salito al trono nel 1999 alla morte del padre Hussein I, che ha retto il regno hashemita fin dal 1952. Il giovane monarca, che ha studiato nel Regno Unito e negli Stati Uniti, dove ha conseguito un master in Relazioni Internazionali alla Georgetown University, ha fama di uomo moderno e riformatore. Il suo Regno ha ampi margini di sviluppo ed è considerato, da molti analisti, tra i più occidentalizzati e sicuri dell’intera regione del Vicino Oriente. Al suo interno, nonostante lo sviluppo degli ultimi anni, il Paese cela un’insoddisfazione e un malessere popolare crescente esploso definitivamente, e quasi in contemporanea con le altre manifestazioni nei vicini Paesi arabi, il 14 gennaio scorso ad Amman. A queste prime rimostranze popolari hanno fatto seguito proteste sempre più vibranti e massicce, prima il 28 gennaio e, poi, lo scorso 24 marzo, quando alcuni manifestanti sono stati attaccati da simpatizzanti del regime. Il bilancio degli scontri conta almeno due vittime accertate e circa trentacinque persone ferite negli scontri tra polizia e attivisti. La manifestazione è stata organizzata da un gruppo di giovani che si fa chiamare “Youth of March 24“, ai quali si sono uniti anche universitari, alcuni militanti di sinistra e membri dell’opposizione islamica – l’unica realmente esistente nel Paese – del Jabhat al-‘Amal al-Islami, meglio conosciuto come Islamic Action Front (IAF), rappresentante l’anima politica e più dura dei Fratelli Musulmani di Giordania.

Il malcontento covato negli ultimi anni è esploso violentemente a causa, soprattutto, di una mancanza di trasparenza politica del regime: varie elezioni sarebbero state macchiate da brogli e, di recente, il Re ha sciolto prima il Parlamento e, poi, ha esautorato il Primo Ministro Samir Rifai, un riformatore moderato, sostituendolo con una personalità di sua fiducia (al-Bakhit, appunto). La dinastia hashemita non è mai stata molto propensa alle concessioni popolari, e anche quando nel 1989 Re Hussein I dovette affrontare una crisi socio-economica dovuta all’aumento del prezzo del pane, il governo e il Re si è limitato ad avviare delle timide riforme sociali. Oggi come allora, il governo giordano ha varato nuovi provvedimenti che tuttavia non hanno sortito effetti a causa del persistere di interessi politici all’interno del regime. Esse indirettamente hanno fomentato le tensioni latenti, indebolendo progressivamente l’autorità hashemita.

Le manifestazioni sono scoppiate, dunque, in ogni angolo del Paese. I manifestanti chiedono al Re riforme istituzionali concrete, come ad esempio una nuova legge elettorale basata sulla rappresentanza proporzionale che devolva più poteri al Parlamento, limitando, così, il ruolo delle agenzie di sicurezza nella vita pubblica e permettendo l’accesso anche a quelle rappresentanze politiche, come i Fratelli Musulmani, che ancora oggi non siedono in Parlamento. Inoltre, si chiede l’istituzione di un sistema multipartitico effettivo, una maggiore libertà di manifestazione e di stampa e, infine, misure rapide e concrete per affrontare la difficile situazione economica.

La crisi economica giordana è figlia anche della quasi totale assenza di materie prime, principalmente acqua e idrocarburi, che produce una dipendenza nazionale nei confronti dei Paesi vicini, come Israele e Arabia Saudita. Il tasso di inflazione ha raggiunto il mese scorso il 4,4 %, mentre il Paese presenta per il 2010 un disavanzo di bilancio pari a 1.02 miliardi di JOD (Dinaro giordano), in calo, comunque, rispetto al deficit storico del 2009 che si era attestato a 1.5 miliardi di JOD. L’alto tasso di disoccupazione giovanile (13,4 %), accompagnato dalla dilagante corruzione a tutti i livelli di governo e all’intrusione massiccia dei Mukhabarat (i servizi di intelligence) nella vita pubblica giordana, ha favorito un clima di strisciante tensione sociale. Pertanto, Re Abdallah II si è trovato nelle condizioni di dover istituire il National Dialogue Committee, un comitato speciale presieduto dal Presidente del Senato Taher Masri e incaricato dal Re in persona di dare attuazione alle promesse di riforme politiche ed economiche, al fine di placare temporaneamente la piazza. Il Re ha chiesto al comitato e al governo, e in particolare al suo Primo Ministro Bakhit, di raggiungere “rapide e decisivi passi in avanti verso riforme politiche ed economiche”.

Le divisioni interne

Tutte queste caratteristiche (crisi economica, deficit democratico, promesse di riforme politico-istituzionali) sono alcuni dei sintomi che la rivolta sociale giordana ha in comune con gli altri Paesi dell’area mediorientale, i cui governi mirano alla conservazione dello status quo interno. Tuttavia, il governo giordano ha cercato di giustificare la durezza delle proprie azioni sostenendo che le condizioni endogene del Regno hashemita fossero tali da necessitare l’uso improprio di misure dure contro la popolazione locale. Un esempio di tale politica è l’azione del governo nel garantire una coesistenza sociale pacifica tra transgiordani (la minoranza della popolazione totale, circa il 40%) e giordani di origine palestinese (oggi l’attuale maggioranza nel Paese, circa il 60%). Anche se effettivamente esistono problemi tra le due etnie principalmente a causa della presenza massiccia della rappresentanza transgiordana nella vita pubblica e statale nazionale rispetto a quella dei giordano-palestinesi, è difficile giustificare una politica interna ed estera giordana fortemente conservatrice in base a questa presunta spaccatura sociale. Probabilmente, la paura del regime risiede nel fatto che i movimenti islamisti radicati in Giordania e in stretto contatto con quelli gemellati a Gaza e in West Bank – come Hamas – possono fomentare una rivolta interna e sconvolgere la sempre precaria e instabile democrazia giordana. Infatti, questa situazione produce degli strascichi notevoli nella politica nazionale e nell’identità giordana, avendo, inevitabilmente, delle ricadute pesanti sul pluriennale conflitto israelo-palestinese. In effetti, il timore più grande per il governo e il Re è il rischio che un nuovo fenomeno terroristico sullo stile di “Settembre Nero” possa di nuovo attecchire in Giordania, sfruttando da una parte la mancanza di un’identità condivisa tra transgiordani e giordano-palestinesi, e, dall’altra, la crisi economico-sociale e la politica corrotta, le quali potrebbero non avere precedenti nella storia del giovane Paese del Mashreq. Se non si dovesse trovare una soluzione che permetta di raggiungere delle riforme concrete, la nazione giordana rischia una perdurante paralisi.

Le dinamiche regionali

Tale frammentazione e instabilità, provocata da un tessuto sociale poco coeso derivante da divergenze sia di politica interna, sia di politica economica, potrebbero produrre considerevoli effetti anche in materia di politica estera. Come già accennato, innanzitutto, la Giordania non ha un’economia basata sul petrolio ed è quasi totalmente sprovvista di materie prime. Questo comporta una dipendenza energetica e, dunque politica, dai Paesi vicini. In secondo luogo, non si può non tenere in considerazione la rivolta giordana senza osservare come essa si può correlare con due tra i fondamentali protagonisti dello scacchiere mediorientale, come Israele e Arabia Saudita. Da un lato, Israele non permetterebbe mai un cambiamento politico in Giordania che metta a repentaglio la propria sicurezza e sopravvivenza. Infatti, la politica di frammentazione e divisione tra i Paesi arabi rimane ancora oggi l’arma usata da Tel Aviv ogni qualvolta vengano percepite condizioni di grandi stravolgimenti geopolitici nella regione. Dall’altro lato, l’Arabia Saudita, principale sponsor del conservatorismo arabo e leader attuale nella regione, non vedrebbe particolarmente di buon occhio una Giordania indebolita sia dal punto di vista interno (Fratelli Musulmani in primis), sia dal punto di vista esterno (Israele, Iran in funzione anti-saudita, ascesa della Turchia come attore principale regionale, terrorismo qaedista). Pertanto, Riyadh – già primo partner commerciale di Amman – potrebbe soccorrere la monarchia amica aiutandola a potenziare il proprio programma di sviluppo del nucleare civile, in modo da ridurre la dipendenza energetica dall’estero e, indirettamente, garantirne una certa tranquillità interna grazie al miglioramento della propria condizione economica. Infine, i cospicui finanziamenti versati annualmente da Washington per combattere il terrorismo e per tenere la Giordania legata alla sfera di influenza occidentale, potrebbero aiutare il regno hashemita a proporsi come parte attiva all’interno di una possibile soluzione politica nel processo di pace israelo-palestinese, e a fornirgli, così, una grande chance per ridefinire la sua posizione strategica all’interno dell’area del Vicino Oriente. La Giordania, sfruttando le grandi trasformazioni regionali in corso, potrebbe, dunque, proporsi come “ponte” geo-strategico tra Africa mediterranea e Medio Oriente per gli altri attori della regione.

Conclusioni

Nonostante le numerose similarità con le molte rivolte in corso in Nord Africa e nel Vicino Oriente, la stabilità economica e politica che caratterizzava la Giordania prima della crisi economica del 2009, sembra rappresentare, ad oggi, la principale differenza tra di esse. Il problema politico, semmai, sarà quello di capire l’atteggiamento che potrebbero assumere il governo giordano e Re Abdallah in persona nei confronti delle possibili proteste che potrebbero scoppiare nel caso in cui dovessero essere disattese le promesse. La questione è molto complicata e ne va di mezzo, evidentemente, la stabilità dell’intera regione mediorientale. Pertanto, le sfide che dovrà affrontare il regno di Abdallah saranno molteplici e banco di prova per una Giordania che può avviarsi sulla strada della modernità e della democrazia. Così, il regno hashemita ha l’opportunità di dimostrare se riuscirà a mantenersi al passo coi tempi o, come gli altri illustri regimi, soccomberà sotto i colpi implacabili di quella che sembra assumere i connotati di una inesorabile rivoluzione sociale.

* Giuseppe Dentice, Dottore in Scienze Internazionali e Diplomatiche (Università di Siena)


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