La peculiare posizione strategica rende il Pakistan un “perno geografico”, per dirla alla Mackinder, di assoluto valore nella contesa afghana, dove gli Stati Uniti e i loro alleati si giocano il tutto per tutto rischiando di trasformare la quasi-decennale operazione bellica in un nuovo Vietnam. Peraltro le analogie con la celeberrima disfatta costituiscono un oscuro monito per il Pentagono: anche allora il duo Nixon-Kissinger dispose l’incremento delle truppe con l’obiettivo di recuperare posizioni di forza per trattare con il nemico, lo stesso cui ambiscono i guerriglieri dopo aver dimostrato sul campo di non poter essere battuti.

A detta di analisti autorevoli, la nuova ricetta afghana dell’amministrazione Obama sarebbe riassumibile in tre parole: surge, bribe and run – aumenta le truppe, compra il nemico e scappa. In sostanza, i vertici del Pentagono starebbero allestendo “un’onorevole ritirata” mascherata dall’incremento degli effettivi, non prima di aver convinto il resto del mondo della vittoria degli Alleati sulla frastagliata schiera dei fondamentalisti.

Il ruolo geostrategico

E’ bene tener presente che, nell’ambito della scontro contro i ribelli, Islamabad è ritenuto il paese maggiormente in grado di fornire un aiuto concreto agli Stati Uniti, vuoi per la posizione strategica, vuoi per l’appoggio nemmeno troppo velato di parte dei suoi servizi segreti a taluni gruppi islamici radicali, vuoi perché in Pakistan è operativo il Ttp (Tehrik-e-taliban Pakistan) – gruppo taliban locale, il quale gode di un consolidato sostegno da parte della popolazione.

L’alleato pakistano, nel siffatto contesto, ha ribadito ai vertici della Difesa Usa di voler offrire il suo aiuto volto a sconfiggere i taliban in cambio di poter avere un “ruolo costruttivo nel Kashmir”. Inoltre Islamabad non intende precludersi l’opportunità, una volta cessate le ostilità, di esercitare la sua longa manus sul vicino Paese martoriato dall’instabilità: in considerazione della mai sopita ostilità con l’India, l’obiettivo primario del Pakistan risulta quello di poter fare affidamento su un governo afghano alleato, in maniera tale da potersi avvalere dei territori confinanti nell’eventualità di un scontro con il colosso indiano.

Islamabad brama altresì di concorrere con New Delhi sotto il profilo dell’accaparramento delle risorse energetiche, avendo preso atto degli investimenti indiani – un miliardo e 200 mila dollari – in Afghanistan. L’India ha interesse a proteggere i propri investimenti a Kabul e servirsi dell’Afghanistan come corridoio verso l’Asia centrale, e in una simile congiuntura va inserita la recente visita del primo ministro Manmohan Singh in Arabia Saudita, ufficialmente per stipulare accordi relativamente alle materie prime. In realtà, New Delhi sta tentando di scovare qualche rete che consenta il contatto diretto con i taliban nella prospettiva di poter svolgere il proprio ruolo in Afghanistan all’indomani della ritirata americana; tuttavia nelle cancellerie del potente paese asiatico ignorano che i sauditi hanno ormai poca influenza sul movimento talebano. L’unica via per raggiungere i taliban passa dal Pakistan e, anche a detta degli statunitensi, per gli indiani la strada verso Kabul non può prescindere dal Kashmir.

Alla stregua di quanto accennato, gli interessi nazionali perseguiti dal governo pakistano gli impediscono di collocarsi in maniera netta nella lotta contro i ribelli jihadisti, motivo per il quale la potente Inter-Sevices Intelligence (ISI) si era spinta sino all’appoggiare l’ascesa dei taliban al governo di Kabul.

Benché negli ultimi anni i servizi segreti pakistani, persuasi dai cospicui assegni a stelle e strisce, si siano impegnati al fianco di Washington in alcune operazioni tese a minare le basi organizzative del gruppo estremista islamico, permangono i sospetti di presunti appoggi dell’ISI – o di parte di esso – alla causa talebana, senza contare la crescente ribellione interna originata sia dal malcontento per le politiche dei vari governi, sia dagli attacchi indiscriminati dei droni americani che colpiscono i civili.

Le relazioni tra pashtun afghani e pakistani

Nell’analizzare le relazioni di Islamabad con Kabul è necessario rimembrare la questione del confine tra i due paesi, segnato dalla cosiddetta “Linea Durand”, una frontiera – rimasta inalterata – tracciata dagli allora dominatori britannici che tagliò in due le realtà tribali preesistenti senza tener conto della demografia.

La linea Durand demarca un’area abitata da popolazioni di etnia pashtun, maggioritaria sia in Afghanistan che nella vasta fascia di territorio pakistano sotto la giurisdizione della Provincia della Frontiera del Nord-Ovest (Sarhad) e delle Federally Administred Tribal Areas (Aree tribali di Amministrazione Federale: Khyber, Kurram, Bajaur, Mohmand, Orakzai, Nord e Sud Waziristan), senza contare che tribù appartenenti alla suddetta stirpe si sono stanziate anche nel Belucistan e nella zona di Karachi. Secondo fonti recenti, in totale i pashtun ammonterebbero a 42 milioni di persone – il 42% della popolazione dell’Afghanistan e il 15% di quella pakistana.

Storicamente la massima aspirazione dei pashtun è stata la costituzione di un’unica entità statale che comprendesse le diverse zone ove essi risiedono – grosso modo l’attuale Afghanistan e parte del Pakistan -, detta Pashtunistan. A causa delle diatribe, il confine rappresentato dalla linea Durand ha continuato ad essere una fonte di tensione tra i due paesi confinanti e attualmente i leader pashtun di entrambi gli Stati non riconoscono la legittimità della linea Durand.

La saldatura degli interessi dei pashtun pakistani con quelli dei vicini afghani trae origine, dunque, non solo dal malcontento per le politiche dei governi, ma anche dall’affinità ideologica nonché dal comune obiettivo di istituire un’entità statuale governata dalla Shari’a.

Sebbene il governo pakistano giudichi il confine definitivamente stabilito, tanto da essersi formalmente impegnato – agli occhi degli Stati Uniti – a renderlo più sicuro, il presidente afghano Karzai ha più volte dichiarato di ritenere doverosa una “grande assemblea” per la ridefinizione della frontiera. Altro quesito, consequenziale a quanto esposto circa la linea di demarcazione, è quello che concerne i profughi afghani in fuga dal conflitto e rifugiatisi nel territorio limitrofo: costoro costituiscono la manovalanza per i reclutatori di guerriglieri, i quali li addestrano nei campi profughi situati al confine per inviarli successivamente sul campo di battaglia.

Influenze esterne

A seguito del ruolo centrale riconosciutogli dall’amministrazione Obama nel presentare la “AfPak Strategy”, il Pakistan ha rimpinguato i propri forzieri e ricevuto ulteriori aiuti al suo esercito, ovvero un miglioramento delle capacità anti-terroristiche delle milizie, senza tralasciare l’istituzione di programmi di ricostruzione e sviluppo che vertono su una sorta di “nation building” tale da (ri)avvicinare la popolazione alla causa atlantica.

Nonostante l’evoluzione della strategia atlantista, il Pakistan rimane lontano dall’esimersi dall’intrattenere rapporti con i taliban afghani, i quali permetterebbero ad Islamabad di riconquistare il ruolo di potenza egemone nel momento in cui gli Alleati dovessero abdicare.

La “reinventata partnership strategica Usa-Pakistan” – secondo la definizione degli analisti del South Asia Analysis Group – promette ben poco, considerato che l’esercito pakistano, pur avendo la capacità di raggiungere obiettivi/aspettative statunitensi, non ha interesse a ottemperare in maniera totale ai dettami dell’alleato. I taliban che allignano nelle aree tribali del confine sono, infatti, considerati una vera e propria “risorsa” dall’esercito pakistano; tramite l’intermediazione dell’ISI, taluni generali mantengono contatti diretti con determinati elementi dell’insorgenza, e ciò malgrado recentemente siano stati arrestati schiere di dirigenti talebani.

La cattura di leader del calibro del mullah Abdul Ghani Baradar, del precedente governatore della provincia afghana del Nangarhar, Moulvi Abdul Kabeer, del mullah Abdul Salam – governatore-ombra di Kunduz – e di Mir Muhammad, anche lui un governatore-ombra nell’Afghanistan settentrionale, rischia tuttavia di mutare lo scenario in corso. A detta di un militante qaedista, come conseguenza degli arresti effettuati negli ultimi mesi, i talebani hanno reciso ogni possibilità di dialogo – che sia con l’Afghanistan, col Pakistan o con gli Usa – e adesso potrebbero lavorare più strettamente con Al-Qaeda.

In conclusione bisogna rimarcare il ruolo della Cina nella partita AfPak, che potrebbe palesarsi quale fiancheggiatore indiretto degli Stati Uniti per via del suo coinvolgimento nel contrastare i gruppi taliban, ritenuti da Pechino essere i fomentatori del focolare interno – leggi Xinjiang – sempre pronto a riaccendersi. Il dragone dagli occhi a mandorla è il maggior socio commerciale di Islamabad (nel 2006 i due paesi hanno siglato un accordo sul libero scambio, entrato in vigore nel 2007), oltreché il suo più rilevante alleato nell’area asiatica. La Cina potrebbe, in ultima analisi, puntare sul suo rapporto privilegiato col Pakistan per esortare il governo di Zardari ad un maggiore impegno nella lotta contro il movimento talebano.

* Alessio Stilo è dottore in Scienze politiche (Università di Messina)


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