Uno dei più importanti strumenti nelle relazioni internazionali dei nostri giorni è il soft-power e in generale tutto quanto collegato alla sfera della comunicazione e dell’attrattiva culturale. A partire dalla fine degli anni Ottanta, l’informazione e la comunicazione sono diventati fattori sempre più importanti all’interno delle strategie politiche delle maggiori nazioni. Molti analisti sono soliti riferirsi alla Guerra del Golfo come all’inizio di una nuova epoca. Per la prima volta nella storia dell’umanità, infatti, una guerra fu completamente filmata e proposta dal vivo in diretta televisiva. Il significato del termine “guerra simultanea” divenne immediatamente chiaro, non soltanto per la contemporaneità tattico-operativa tra le tre classiche dimensioni del conflitto moderno (terra, aria e mare) ma anche per l’integrazione, sempre più evidente, tra la guerra e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT). Come per qualsiasi trasformazione nell’alveo del pensiero strategico, anche in quel caso la pratica anticipò la teoria e le nuove condizioni storiche produssero una delle più discusse teorie dei nostri tempi: quella del network-centric warfare.

Nel loro libro del 1999 Network-Centric Warfare. Developing and Leveraging Information Superiority, David Alberts, John Gartska e Fred Stein definirono l’era informatica come un’era dove «le armi non sono i soli strumenti del potere», poiché «l’informazione, come si è spesso osservato, è potere […] le tecnologie informatiche stanno oltremodo migliorando la nostra capacità di acquisire e memorizzare dati, elaborandoli ed analizzandoli per creare informazione e distribuirla su larga scala». In poche parole, «l’informazione si sta trasformando da prodotto relativamente raro in uno abbondante;  da bene costoso sta diventando assolutamente economico; da risorsa sottoposta al controllo di pochi sta diventando un mezzo quasi universalmente accessibile». Malgrado un generale ottimismo, i tre autori sollevarono anche diversi dubbi circa i possibili pericoli principali collegati a queste nuove condizioni storiche, quali ad esempio la proliferazione delle armi di distruzione di massa nel mondo, l’emersione di nuove imprevedibili minacce in termini di sicurezza collettiva e il crimine informatico.

Tale quadro generale fu effettivamente capace di descrivere in modo quasi perfetto lo scenario asimmetrico sorto qualche anno dopo la fine della Guerra Fredda. La caduta dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia lasciarono la massa eurasiatica (dai Balcani alle steppe dell’Asia Centrale) priva di qualsiasi controllo politico e militare, aumentando in maniera allarmante le capacità di guerriglia del terrorismo in Afghanistan, in Uzbekistan, in Tagikistan, in Cecenia, in Azerbaigian e nelle regioni a maggioranza islamica dei Balcani (Bosnia e Kosovo). Durante gli anni Novanta, il terrorismo di matrice wahabita e salafita acquisì capacità logistiche sempre maggiori e l’Undici Settembre fu la terribile logica conseguenza di una situazione mondiale così profondamente caotica.

Tuttavia, le numerose crisi regionali nei Balcani e nello spazio postsovietico hanno prodotto non soltanto un crescendo dei fenomeni legati al terrorismo internazionale ma anche una tendenza relativamente nuova, connessa alla cosiddetta geopolitica del caos: le rivoluzioni colorate. Malgrado l’apparente carattere democratico e libertario delle rivendicazioni annunciate dai loro protagonisti, queste ribellioni, spesso promosse da organizzazioni non governative occidentali, hanno in realtà diffuso violenza, estremismo e sciovinismo nazionale all’interno di moltissimi Paesi dell’Europa Orientale e dell’Asia, mettendo drammaticamente in evidenza il profilo più pericoloso delle tecnologie informatico-comunicative. Durante quegli anni l’evidente differenza di percezione politica tra Occidente e Oriente ha riprodotto un clima da Guerra Fredda su basi del tutto diverse dal passato. Non più missili balistici o eserciti contrapposti nelle strade di Berlino ma una nuova dimensione psicologico-mediatica dove, secondo la vulgata occidentale, la Russia di Vladimir Putin poteva essere tratteggiata come una versione moderna del vecchio “Orso Sovietico”, pronta ad inghiottire l’Ucraina, la Georgia o il Kirghizistan, nazioni dove alcuni giovani sarebbero stati pronti a manifestare pacificamente per ottenere libertà e democrazia contro governi “corrotti” e “dipendenti da Mosca”. Durante una visita negli Stati Uniti d’America, l’ex presidente georgiano Mikheil Saakashvili, salito al potere proprio durante la “rivoluzione delle rose” di Tbilisi nel 2003, ha recentemente accostato l’intervento russo in Ossezia del Sud agli interventi sovietici in Cecoslovacchia e in Afghanistan, senza ricordare che per gli ultimi quattro anni il suo partito ha governato in condizioni di democrazia sospesa per effetto di un parlamento semideserto a causa del boicottaggio organizzato dalle opposizioni. Allo stesso modo, il governo cinese viene regolarmente accusato di essere responsabile per il presunto massacro di Piazza Tien An Men del 1989 – un avvenimento che in realtà non si è mai verificato – o di non rispettare i diritti umani in Tibet e nello Xinjiang, proprio dove – al contrario – le popolazioni locali stanno in realtà godendo di progressi sociali, economici e culturali mai visti prima del 1949.

Nel 1997, il presidente Jiang Zemin ha affermato che l’ideologia dei diritti umani è diventata un’arma geopolitica usata per interferire negli affari interni dei Paesi in via di sviluppo. Non era affatto lontano dalla verità. Nonostante l’incessante manipolazione della realtà, queste forze oscure continuano ad utilizzare la loro falsa propaganda filantropica con lo scopo di destabilizzare le società, servendosi del determinante sostegno dei più importanti mezzi di comunicazione di massa. Negli anni Ottanta, il presidente Deng Xiaoping ha sottolineato che il Partito Comunista Cinese non condanna a priori alcuna forma di sviluppo nei Paesi capitalisti come negativa e che le politiche di riforma e apertura sarebbero state indirizzate all’acquisizione di tecnologia avanzata, scienza e gestione efficiente, ovverosia elementi fondamentali anche in un Paese ad orientamento socialista.

Tra questi ovviamente le applicazioni legate al mondo delle tecnologie di informazione e comunicazione assumono un’importanza estremamente significativa. Durante il 17° Congresso del Partito Comunista Cinese (2007), il presidente Hu Jintao affermò: «La cultura è diventata una risorsa via via più importante per la coesione nazionale e per la creatività, e rappresenta un fattore di crescente rilevanza nello sviluppo della forza nazionale complessiva». Durante il 18° Congresso (2012), il presidente Hu ha invece rimarcato l’importanza delle tecnologie dell’informazione e del piano di modernizzazione dei sistemi della difesa e della comunicazione.

Già nel 2011 il supercomputer Tianhe-1 è stato classificato come l’elaboratore più sofisticato del mondo ed il primato raggiunto dalla Repubblica Popolare Cinese nel campo della tecnologia informatica è apparso in tutta la sua chiarezza. Dal 2012, con la messa in attività di Sunway BlueLight, che utilizza processori nazionali, i supercomputer di livello petaflop operanti in Cina sono diventati tre: Tianhe-1 a Tianjin, Nebulae a Shenzhen e Sunway BlueLight a Jinan. L’importanza strategica di questi sistemi operativi speciali non risiede soltanto nella scontata capacità gestionale in termini strettamente computazionali ma anche nella loro applicazione ai più significativi campi dei settori ingegneristico-militari, economico-manageriali e meccanico-industriali.

Sul lato delle tecnologie della comunicazione, invece, il lancio del canale radiotelevisivo CCTV-News nel 2000 e la fondazione degli Istituti Confucio in numerosi atenei di tutto il mondo, avviata nel 2004, costituiscono primi essenziali passi nella direzione dell’aumento del soft-power. Oggi molti cittadini occidentali hanno la possibilità di conoscere la percezione politica della Cina e il punto di vista del Paese asiatico in relazione ai principali fatti internazionali, tuttavia il lavoro è solo all’inizio. I pregiudizi sono ancora forti e la maggior parte della classe dirigente e della popolazione in Europa non riescono a vedere nella Cina una potenza mondiale pienamente matura e responsabile. Sarà, invece, importante capire che la Cina non è semplicemente un mercato emergente, ma può avvantaggiarsi di un’eredità culturale e filosofica unica, seconda a nessuno e mai seriamente indebolita dal recente sviluppo economico.

 


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