Introduzione: un progetto contestato anche in Israele
Nel sud della Striscia di Gaza, laddove le operazioni militari israeliane hanno distrutto interi quartieri e provocato lo sfollamento di centinaia di migliaia di civili, il governo di Israele ha annunciato la costruzione di una cosiddetta “città umanitaria”. Il piano, promosso dal ministro della Difesa Israel Katz e sostenuto con forza dal primo ministro Benjamin Netanyahu, prevede la realizzazione di un’area recintata nella zona di Rafah per ospitare inizialmente 600.000 Palestinesi, con l’obiettivo di estendere gradualmente la struttura a tutta la popolazione della Striscia. La versione ufficiale parla di un centro “modello”, dotato di alloggi, scuole e ospedali, in grado di offrire ai civili condizioni “dignitose” fino al termine delle ostilità.
Tuttavia, dietro la retorica umanitaria, il progetto è stato rapidamente identificato da molti analisti come parte di una strategia più ampia di concentrazione, controllo e dislocazione forzata della popolazione palestinese. In particolare, la sua funzione reale sembra quella di costituire un’area di confinamento permanente, in cui fame, malattie, bombardamenti agiscano come leva per forzare l’“emigrazione volontaria” fuori da Gaza[1].
In questo contesto, le critiche più significative al progetto non provengono soltanto dalla comunità internazionale, da giuristi e osservatori umanitari, ma anche dall’interno dello stesso regime israeliano, dove ufficiali militari, analisti strategici e figure politiche di lungo corso non mettono ovviamente in discussione la legittimità dell’operazione sul piano ideologico o morale, ma la sua concreta sostenibilità logistica, militare e diplomatica.
Tra queste voci spicca quella dell’ex primo ministro Ehud Olmert, figura tutt’altro che marginale nella storia politica israeliana. In un’intervista rilasciata al Guardian, Olmert ha definito la “città umanitaria” un vero e proprio «campo di concentramento» ed ha avvertito che, se attuata, l’iniziativa potrebbe costituire un caso di pulizia etnica[2]. Ma non bisogna lasciarsi ingannare dalle sue parole: Olmert non prende certo posizione per solidarietà con la causa palestinese, né per un improvviso cambiamento di paradigma ideologico. Interviene invece da politico esperto e realista, animato da una profonda preoccupazione per il futuro dell’entità sionista. A muoverlo sono il timore dell’isolamento diplomatico, la possibilità di nuove accuse internazionali e l’effetto corrosivo che un simile progetto potrebbe avere sulla coerenza strategica e sulla legittimità militare di Israele. A suo avviso, questo progetto rischierebbe di trascinare Israele in un isolamento internazionale crescente, di esporlo a nuove accuse giuridiche nei fori globali e di logorare dall’interno la tenuta del sistema di sicurezza nazionale. In altre parole, non è certamente la compassione a muovere la sua critica, ma il calcolo strategico.
Proprio a partire da queste preoccupazioni interne e realistiche, il presente saggio si propone di analizzare esclusivamente la dimensione tecnico-militare e logistica del progetto, mettendo da parte – non perché irrilevanti, ma perché non oggetto di questa trattazione – le considerazioni di carattere umanitario, etico o giuridico. L’obiettivo è comprendere quali conseguenze concrete la costruzione e la gestione della “città umanitaria” comporterebbero per le Forze di Difesa Israeliane (IDF): in termini di impiego di risorse, esposizione operativa, drenaggio logistico, perdita di iniziativa strategica e vulnerabilità a lungo termine.
Ecco l’ampliamento dei quattro capitoli richiesti. Ho mantenuto il tono analitico e geopolitico, arricchendo i paragrafi con argomentazioni strategiche, riferimenti operativi e implicazioni a medio-lungo termine, sempre dal punto di vista israeliano.
Un presidio permanente in territorio ostile
Garantire la sicurezza e la gestione operativa di un’area destinata ad accogliere fino a mezzo milione di civili, in un settore altamente instabile come quello del corridoio Filadelfia, a ridosso del confine egiziano, implicherebbe per le Forze di Difesa Israeliane (IDF) l’attivazione di un presidio militare statico a lungo termine in ambiente ostile.
Non si tratterebbe di una semplice missione di contenimento temporaneo, ma di un’operazione a profilo permanente, all’interno di un contesto urbano densamente popolato, segnato da una persistente assenza di sicurezza strutturale, da un elevato grado di frammentazione sociale e dalla presenza attiva o potenziale di gruppi armati organizzati, in particolare Hamas e altre formazioni non statali. Questi attori sarebbero in grado di esercitare forme di influenza politico-organizzativa sulla popolazione civile, compromettendo la stabilità interna e creando un terreno favorevole per infiltrazioni, sabotaggi o rivolte coordinate.
Dal punto di vista operativo, ciò significherebbe costringere l’IDF a svolgere una missione di sorveglianza e controllo territoriale a tempo indefinito, con funzione prevalentemente statica, in contraddizione con la propria dottrina tradizionale, fondata su superiorità tecnologica, manovrabilità tattica e proiezione dinamica della forza.
La natura stessa del compito – presidiare, pattugliare, contenere, distribuire risorse e garantire l’ordine interno – trasformerebbe le forze israeliane in unità di presidio esposte a minacce asimmetriche continuative, in un ambiente urbanizzato e imprevedibile, dove la linea di separazione tra civile e combattente può essere opaca e strumentalizzata.
In sostanza, l’IDF verrebbe a trovarsi in una posizione operativa da forza di occupazione, con compiti di stabilizzazione interna e amministrazione di un’area sottoposta a tensione sociale e psicologica, perdendo l’agilità e la flessibilità che rappresentano i suoi principali punti di forza. Sarebbe un impiego ad alto consumo di risorse e a bassa redditività strategica, con un’esposizione prolungata a logoramento fisico, morale e reputazionale.
Costi operativi e drenaggio di risorse
Il cuore del problema non è solo tattico, ma logistico e sistemico. Mantenere attiva, funzionale e sicura una “città” di tali proporzioni richiederebbe un impegno costante su più livelli operativi: protezione perimetrale, controllo dell’ordine interno, logistica dei rifornimenti, sorveglianza elettronica, supporto sanitario e infrastrutturale. A tutto ciò si aggiunge la necessità di rotazioni regolari del personale, essenziali per prevenire il logoramento fisico e psicologico delle truppe, nonché il degrado della prontezza operativa.
Ogni battaglione destinato alla gestione della “città umanitaria” rappresenterebbe una distrazione significativa di risorse dalle priorità operative in corso: in particolare, dalle aree ancora contese nel nord e nel centro della Striscia, dove Hamas continua a disporre di capacità organizzative e militari.
Il drenaggio di risorse comprometterebbe anche le capacità di proiezione e contenimento in Cisgiordania, dove la pressione quotidiana sulla popolazione palestinese richiede un impiego costante di forze, e lungo il fronte settentrionale con il Libano, dove Hezbollah – pur strategicamente indebolito rispetto al passato – mantiene una capacità asimmetrica di deterrenza e di generazione di danno, attraverso missili, incursioni localizzate e pressione psicologica sulla popolazione israeliana del nord.
Come osservano alcuni ufficiali della riserva, in valutazioni riservate trapelate alla stampa, non si tratta solo di una questione etica, ma di una distorsione del modello operativo: vincolare l’IDF a una funzione fissa, a bassa redditività strategica, significherebbe esporlo inutilmente, compromettendo l’agilità tattica e trasformandolo in un bersaglio statico.
In termini economici, infine, i costi stimati tra 2,7 e 4,5 miliardi di dollari non includono le spese continuative legate al mantenimento, alle operazioni di protezione attiva e alla gestione degli effetti collaterali. In un quadro in cui il sistema della difesa è già sotto pressione per l’impegno prolungato a Gaza, l’aggiunta di una struttura rigida e onerosa rischia di compromettere l’equilibrio complessivo della strategia militare israeliana.
Rischio stallo e perdita di iniziativa
Nel linguaggio degli analisti militari si parla di stallo operativo quando un esercito perde l’iniziativa strategica e si trova vincolato a difendere posizioni fisse, con obiettivi politici incerti e senza una direzione tattica chiara. È precisamente questo il rischio che comporterebbe la gestione della cosiddetta “città umanitaria”.
La struttura, per sua stessa natura, non prevede una scadenza operativa definita né una strategia di disimpegno pianificata. Non esiste un protocollo di transizione condiviso con organismi internazionali o attori terzi che ne regoli la gestione futura. L’IDF si troverebbe quindi coinvolta in un compito prolungato, indefinito e privo di condizioni chiare di conclusione, con un elevato assorbimento di risorse e senza una soglia tangibile di successo.
Dal punto di vista militare, il campo non incide sulla riduzione delle capacità operative di Hamas, non facilita lo scambio di ostaggi e non produce vantaggi tattici diretti. Al contrario, vincola le forze israeliane a un compito difensivo passivo, di natura gestionale, sottraendo loro la capacità di manovra, adattamento rapido e proiezione offensiva, elementi centrali della dottrina operativa dell’IDF.
Questa situazione finirebbe per limitare la flessibilità strategica delle forze armate israeliane, esponendole a una crisi a bassa intensità ma ad alta permanenza, difficile da gestire e ancora più difficile da disinnescare. Nel frattempo, Hamas potrebbe sfruttare la narrativa della detenzione collettiva e della ghettizzazione, rafforzando la propria legittimità interna e alimentando mobilitazioni parallele in Cisgiordania, nei paesi arabi e tra la diaspora.
Secondo numerosi ufficiali in pensione e analisti israeliani, si tratterebbe di una deviazione dalla logica militare offensiva: un errore strategico che amplifica la vulnerabilità interna, senza apportare alcun beneficio concreto sul piano operativo, negoziale o deterrente.
Una trappola voluta?
Dietro l’architettura logistica e militare della “città umanitaria” si nasconde, secondo molti osservatori, un progetto politico e demografico ben preciso: creare le condizioni materiali e psicologiche per incentivare un esodo forzato della popolazione palestinese da Gaza, sotto la copertura di un piano umanitario.
Il sospetto crescente tra i critici del governo Netanyahu – inclusi esponenti dell’apparato militare e diplomatico – è che la costruzione del campo non risponda a una necessità operativa reale, ma sia piuttosto uno strumento per ottenere un risultato politico: modificare l’equilibrio demografico della Striscia attraverso la spinta all’“emigrazione volontaria”.
Se questo è l’obiettivo reale, allora la “città umanitaria” diventa una trappola militare e diplomatica: un’infrastruttura imposta dall’alto, gestita in un territorio instabile, con regole di ingaggio ambigue e finalità strategiche non dichiarate. In tale scenario, l’IDF si troverebbe a gestire un campo non voluto, senza legittimità internazionale, e sotto pressione crescente da parte dell’opinione pubblica globale.
Mentre bulldozer e convogli iniziano a spianare il terreno e i canali diplomatici cercano Paesi disposti ad accogliere i profughi, l’esercito israeliano rischia di trovarsi incastrato in una palude operativa costruita non per vincere una guerra, ma per gestire l’impasse politico di un governo senza visione strategica di lungo periodo.
Conclusione: l’illusione del controllo
Il progetto della “città umanitaria” a Rafah si presenta come una risposta emergenziale, ma alla prova dei fatti si configura come una costruzione fragile e contraddittoria, tanto sul piano operativo quanto su quello strategico. La sua realizzazione implicherebbe un impegno militare prolungato, in un contesto altamente instabile, senza offrire reali vantaggi tattici né contribuire alla neutralizzazione delle minacce esistenti.
Nel migliore dei casi, si tratterebbe di un contenitore precario e costoso destinato a incanalare – e contenere – una crisi umanitaria che Israele non è in grado né disposto a risolvere politicamente. Nel peggiore, di una trappola operativa in cui l’IDF, forza armata concepita per la rapidità e la deterrenza, si troverebbe bloccata in un compito di gestione e sorveglianza incompatibile con la propria dottrina militare, sotto il peso crescente delle pressioni internazionali.
Il rischio concreto è che una soluzione ideata per rafforzare il controllo finisca per logorarlo, trasformando una guerra asimmetrica in un’occupazione de facto difficile da sostenere e ancor più difficile da giustificare.
NOTE
[1] “Città umanitaria o campo di concentramento? Il piano israeliano per Gaza”, Inside Over, 13 luglio 2025 – https://it.insideover.com/guerra/citta-umanitaria-o-campo-di-concentramento-il-piano-israeliano-per-gaza.html
[2] “Israel humanitarian city in Rafah is a concentration camp, says Olmert”, The Guardian, 13 luglio 2025 – https://www.theguardian.com/world/2025/jul/13/israel-humanitarian-city-rafah-gaza-camp-ehud-olmert
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