Ancora in un’epoca di globalizzazione dell’informazione, le risorse di soft power come la cultura, i valori politici, e la diplomazia sono parte di quello che costituisce una grande potenza” (J. Nye)


Questa è la strategia del Dragone. La Cina esercita il proprio soft power per garantirsi quella “ascesa pacifica” (heping jueqi) nell’agone internazionale annunciata nel 2003 durante il Forum di Boao, obiettivo irrinunciabile per il governo di Pechino, promotore di uno sviluppo non conflittuale delle relazioni internazionali (heping fazhan), teso a stabilire fiducia diffusa e mutui vantaggi in prospettiva della costruzione di un ordine mondiale pacificato e armonico (hexie shijie).

Il soft power, come sostenuto da Nye, “nasce dal fascino della cultura, degli ideali e delle pratiche politiche di un paese”. Se è vero che l’hard power, il potere forte militare ed economico fondato “su incentivi (“carote”) o minacce (“bastoni”)”, è la faccia manifesta del potere che più impressiona, è pure vero che esiste una nascosta “altra faccia del potere”, che consente “di ottenere ciò che si vuole per via indiretta”.

È il potere dell’attrattiva e della seduzione che plasma ed influenza la volontà altrui in modo ben più incisivo e penetrante che l’hard power, giacché legittima il potere attraverso la cooptazione, l’accettazione e l’acquiescenza. Gli indicatori sul potenziale di impiego delle risorse di soft power pongono Stati Uniti, Europa e Giappone ai vertici, tuttavia la Cina, grazie anche alla vertiginosa crescita economica e al richiamo degli investimenti esteri, sviluppa rapidamente questa nuova dimensione del potere.

I segnali di accrescimento delle risorse di soft power cinese sono molteplici: dal primato conseguito da Gao Xingjian nel 2000 con la vittoria del premio Nobel per la letteratura, ai successi della diffusione dell’arte culinaria, alla mitizzazione del campione di basket Yao Ming, finanche alla più lampante manifestazione di propaganda culturale con l’evento internazionale delle Olimpiadi a Pechino nell’agosto del 2008.

La Cina mira a costruire un forte “Beijing consensus”, proponendosi come nuovo modello culturale soprattutto in Africa, nel Sud-est Asiatico e in America Latina.

La lingua è uno strumento efficace di veicolazione del potere, un solido ponte per la comunicazione che apre il Paese a nuovi spazi di cooperazione, generando un confronto virtuoso multidimensionale, dall’ambito culturale a quello politico ed economico e incrementando conseguentemente l’importanza dello Stato nell’arena internazionale.

Così accade che gli scambi accademici, le numerose borse di studio per studenti stranieri, i centomila dollari investiti dal governo di Pechino per l’apertura di ogni singolo Istituto Confucio nei paesi esteri per i corsi di lingua e cultura, consolidino le relazioni bilaterali, quindi la piattaforma del dialogo e il perseguimento di condivisi obiettivi strategici.

Quanto riscontrato in un memoriale dei Ming del 1425 è significativo della continuità storica dell’esercizio del Zhongguo ruan shili, il soft power cinese:

gli insegnanti fungono da modelli. Utilizzare i costumi cinesi per cambiare i costumi degli stranieri: non vi è nulla di più importante di questo”.

Yingyu-Hanyu: la campagna contro la contaminazione linguistica

Come sostiene Andornino, “va ricordato come la Cina sia stata in passato non solo una grande potenza, ma essa stessa l’egemone e il patrono di un vero e proprio sistema-mondo sinocentrico”, almeno fino al XVI-XVII secolo.

All’antica concezione sinocentrica, che figurava il Paese di mezzo al centro di una complessa struttura concentrica di quadrati, alla cui periferia risiedevano i popoli tributari e ai margini gli stranieri, segue oggi la volontà di divenire potenza globale ma all’interno di un ordine internazionale multipolare non conflittuale. Pertanto, se da un lato Pechino, riconquistato il riconoscimento, la credibilità e il rispetto internazionale dopo decenni di isolamento, rassicura di rigettare ogni mira egemonica, dall’altro sembra non essersi del tutto svigorito il progetto di promozione della centralità culturale della millenaria civiltà cinese, quindi di tutela della sua indipendenza e sovranità.

La campagna per la tutela della lingua cinese promossa in questi mesi dal governo di Pechino è il riflesso di tale orientamento strategico: la risposta cinese alla globalizzazione, che neutralizza le differenze culturali uniformandole e riduce le distanze, è il ritorno alla purezza della lingua e la decontaminazione dalle influenze linguistiche straniere.

A scendere in campo e in prima fila, nel dicembre 2010, sono stati l’Amministrazione Generale della Stampa e delle Pubblicazioni e l’Ufficio di Pechino per la Qualità e la Supervisione Tecnica, che hanno annunciato l’avvio di una severa campagna di censura e il divieto dell’uso della lingua inglese nei media e nelle pubblicazioni ufficiali, così come dell’utilizzo dei caratteri latini per denominare le nuove costruzioni architettoniche.

Niente più acronimi, sigle, abbreviazioni in lingua inglese come GDP (Prodotto Interno Lordo) e CPI (Indice dei Prezzi al Consumo) o NBA (la squadra di basket statunitense), abolito l’uso delle espressioni che provengono direttamente dallo cyberspazio e dal mondo degli internauti, tuttavia si mantiene il sistema di numerazione arabo.

L’ordine emesso dagli enti amministrativi sottolinea la gravità dell’abuso della lingua inglese nel territorio nazionale che agli organi governativi appare quasi come una strategia neo-coloniale britannica.

Risuona il loro avvertimento: l’uso non controllato della lingua inglese “mina la purezza della lingua nazionale e distrugge uno sviluppo linguistico e culturale sano e armonioso, ed esercita un influsso negativo sulla società”.

Nei casi, eccezionali, in cui si rivelerà impossibile non esprimersi in lingua inglese sarà consentito l’uso di alcune parole straniere ma accompagnate da una esaustiva spiegazione in lingua cinese. Naturalmente, sono state previste sanzioni pecuniarie per i trasgressori dell’ordine amministrativo.

Il chinglish: storpiatura della lingua o suo sviluppo naturale?

Sul banco degli imputati c’è primo fra tutti lo Zhongshi Yingyu, il chinglish, una sorta di meticciato linguistico costituito dalla combinazione della grammatica cinese con le parole inglesi, diffusissimo tra i 250 milioni di cinesi che oggi parlano correntemente l’inglese.

I prodromi di questa contaminazione linguistica risalgono al XVII secolo, quando nelle aree portuali di Canton, Macao e nell’area a nord di Shanghai si sviluppò il pidgin, l’inglese-cinese, una lingua franca per agevolare gli scambi commerciali con gli inglesi. Tale forma ibridata di inglese sinizzato cadde in disuso a seguito dell’arrivo dei missionari europei che diffusero la lingua inglese ufficiale.

Se in epoca maoista si conobbe un vertiginoso declino dell’uso e dello studio dell’inglese, con la visita di Nixon a Pechino nel 1971 e la graduale apertura all’occidente promossa a partire dal 1978 da Deng Xiaoping l’interesse per la lingua del commercio è accresciuto fino a divenire la prima lingua straniera studiata nel Paese, primato rubato alla lingua russa, la più parlata in Cina negli anni cinquanta.

La commistione dei due idiomi ha sortito la dura reazione dell’apparato amministrativo cinese, che aborra e bandisce quelle che definisce “storpiature” e “sgrammaticature” della lingua.

Sono stati chiamati a rapporto i tutori della cultura nazionale, i conservatori e i puristi della lingua, dirigenti politici e burocrati, in opposizione ai sostenitori del chinglish e del suo sviluppo, tra i quali Zhongmin Wu che “ha visto il fenomeno della creazione della parola come una naturale risposta dei giovani alle problematiche sociali”.

A riscrivere correttamente gli annunci sui manifesti, la cartellonistica stradale, le indicazioni segnaletiche e le insegne di ristoranti, negozi e hotels, ha provveduto un esercito di 600 volontari, conoscitori esperti dell’inglese, che prima dell’Expo 2010 di Shanghai ha disfatto 10000 traduzioni fantasiose dal cinese. Traduzioni che fanno sorridere gli occidentali e infastidiscono i funzionari cinesi, come quella che ha intitolato “Racist Park” il Parco nazionale delle minoranze etniche di Pechino

All’origine di queste mistranslations è da rilevarsi la difficoltà di rapportare all’inglese i caratteri cinesi, la molteplicità dei significati, dell’interpretazione e della trascrizione di ogni singolo segno. Per tradurre dal cinese occorre infatti tener conto soprattutto della sostanza concettuale, filosofica e culturale espressa nei caratteri.

La sfida lanciata dalla Cina è finalizzata non solo a preservare il patrimonio culturale nazionale, ma soprattutto a ribadire la sostanzialità della sua sovranità linguistica, respingendo al contempo la forza seduttiva esercitata dagli altri Paesi ciascuno attraverso l’impiego delle proprie risorse di soft power.

Nel cammino di ascesa del Dragone per divenire potenza globale non è ammessa alcuna ingerenza nella sovranità e nell’indipendenza culturale del Paese.

Fonti:Andornino G. B., Dopo la muraglia: la Cina nella politica internazionale del XXI secolo, Vita e Pensiero, Milano 2008

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Chunyu Jinzhang, Tolerance to Chinglish is an educational deficiency, in China.org, in http://www.china.org.cn/opinion/2009-10/16/content_18717777.htm

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J. S. NYE, Soft Power: un nuovo futuro per l’America, Giulio Einaudi Editore, Torino 2005,

J. S. NYE, The Rise of China’s Soft Power, in Wall Street Journal Asia, 29 december 2005, http://belfercenter.ksg.harvard.edu/publication/1499/rise_of_chinas_soft_power.html.

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Lupano E., Soft Power – La lingua cinese alla conquista dell’Occidente. In nome di Confucio, in http://job24.ilsole24ore.com/news/Articoli/2009/settembre/softpower-apre-29092009.php?uuid=0393b8cc-ac34-11de-8787-08bef260efb1&DocRulesView=Libero


*Maria Dolores Cabras è laureata in Relazioni internazionali (Università di Firenze)


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