di Lorenzo Posocco

 

Istanbul, 14 milioni di abitanti, è una città caotica, sempre in movimento, sempre attiva sia di giorno che di notte. Non oggi tuttavia, non il 19 Marzo, quando si è trasformata in una città fantasma dopo la notizia di un altro attentato. Le strade del centro, tipicamente affollate, si fanno deserte, per ore, dopo che Mehmet Öztürk, turco di 24 anni, collegato alle cellule gihadiste del Daesh (ISIS), si è fatto esplodere nella centralissima Istiklal Caddesi (la via dell’Indipendenza). L’esplosione ha ferito 36 persone e ne ha uccise 5, tra cui tre turisti israeliani. Dopo l’attentanto di gennaio compiuto dall’ISIS nel centro storico di Istanbul, e quelli di Ankara in febbraio e marzo da parte dei Falconi Neri del Kurdistan (TAK), è ancora la volta di Istanbul, ed è ancora ISIS. L’ennesimo attacco solleva ulteriori forti dubbi sulla capacità della Turchia, un paese membro della NATO, di proteggersi dall’escalation di violenza che la sta scuotendo e che non sembra arrestarsi.

Subito dopo le elezioni del novembre 2015, il Presidente Erdoğan salutava la vittoria del suo partito, l’AKP, affermando che il voto degli elettori proveniva da un intrinseco bisogno di “unità e stabilità”. Soltanto un mese prima, la Turchia e il mondo intero erano stati scossi dall’attacco terroristico alla stazione centrale di Ankara, dove una manifestazione dell’HDP, il partito filo-curdo, stava prendendo luogo. 103 morti e più di 400 feriti in quello che fu definito l’attentato terroristico più sanguinoso della Turchia repubblicana. Il governo indicò il cosiddetto “Stato Islamico”, e la cosa fu presto messa a tacere, nonostante le proteste dei Curdi che criticavano l’assoluta mancanza di un’adeguata protezione da parte delle forze di polizia. Che la Turchia avesse bisogno di stabilità, dunque, non c’è dubbio. Che questo governo fosse in grado di procurargliela, oggi, dopo quattro ulteriori attentanti, risulta inverosimile.

Il paese è scosso, da una parte, dagli attacchi terroristici dell’ISIS, dall’altra dalle ritorsioni della minoranza curda stanziata nel sud-est del paese che, assediata ormai da mesi dall’esercito turco, risponde con attacchi perpetrati anche con modalità terroristiche. Tutto questo perché il governo non è riuscito a trovare la tanto sperata intesa con i curdi, e poi perché la fatidica formula “zero problemi con i paesi confinanti”, architettata dal Ministro degli Esteri Davutoğlu (oggi Primo Ministro), non è stata messa in atto. In effetti la Turchia, nella calda atmosfera mediorientale, soprattutto in Siria, c’è dentro fino al collo.  Diverse fonti provano che, da una parte, il governo turco ha intrecciato contatti con i gihadisti dell’ISIS, dall’altra minacciava di bombardarli, poi invece la scure turca è caduta soprattutto sulle teste curde, che dell’ISIS hanno fatto un nemico.

La Turchia combatte una doppia guerra, quella controversa contro l’ISIS, e quella contro i Curdi. La logica che guida il governo turco è quella del doppio binario, il cui treno, ad un certo punto, è deragliato. Da una parte, il governo condanna (neppure con tanta veemenza) l’ISIS e le sue strategie terroristiche, dall’altra invece lo supporta perché indebolisce il fronte curdo. L’ISIS va condannato per non perdere la faccia in Europa, soprattutto dopo gli attacchi di Parigi. La Turchia, paese che ha forti interessi commerciali e politici nella zona Euro nonché membro della NATO, non puo’ permettersi il lusso di sostenere ufficialmente lo Stato Islamico. Lo ha sostenuto però, come vedremo dettagliatamente in seguito, in maniera non ufficiale.

Ma qual è il collegamento tra l’appoggio turco all’ISIS e la guerra ai Curdi? E perché nonostante la Turchia appoggi i gihadisti, questi si fanno esplodere, com’è accaduto sia ad Ankara in ottobre, sia ad Istanbul in gennaio e marzo? Per quanto riguarda il fronte curdo, negli ultimi anni l’HDP, il Partito Democratico filo-curdo in Turchia, è cresciuto molto fino a raggiungere il 13 %, dunque facendo perdere la maggioranza all’AKP, nelle elezioni generali del Giugno 2015. Il punto è: i curdi spaventano il partito di Erdoğan che teme di perdere il monopolio sul potere politico di cui ha goduto fino ad oggi. Poco prima delle elezioni generali del novembre 2015, il giornale “Zaman” aveva pubblicato delle intercettazioni fatte ad alcuni affiliati del partito, i quali commentavano: “Avremmo dovuti farli fuori prima (parlando dell’HDP), ora è tardi”. Tardi, sì, ma non troppo. Dopo aver ritrovato la maggioranza, nel Novembre 2015, la scure del governo è caduta sulle provincie del Kurdistan turco, ed è stata subito guerra.

Tuttavia, i Curdi non sono stanziati solamente in Turchia. Essendo la più grande nazione senza stato, sono divisi tra Siria, Iraq e Iran. Soprattutto la Siria del nord, in cui i curdi del PYD (Partito dell’Unità Democratica) hanno creato una regione autonoma curda, spaventa la Turchia. Un rafforzamento del movimento curdo siriano al confine con il Kurdistan turco rappresenta un problema non indifferente per l’unità geopolitca turca. La possibilità che i curdi in Turchia possano unirsi e/o ricevere supporto da quelli siriani e da lì creare l’opportunità per un’autonoma regione curda nel sud del paese è reale. Ecco perché, specialmente negli ultimi anni, la Turchia è passata dalla strategia “zero problemi con i paesi confinanti” ad una partecipazione attiva sia politica che militare all’estero, soprattutto in Siria. L’ISIS combatte i Curdi, dunque la Turchia sostiene l’ISIS. È chiaro che il confine tra politica estera e politica interna, qui, sembra sfumare.

Gli attacchi dei Curdi ad Ankara e Istanbul sono la risposta ad azioni militari che il governo sta effettuando nel sud-est del paese e nella Siria del nord per fiaccare la resistenza curda, anche se parlare di “azioni militari” è un eufemismo. Diversi giornalisti hanno etichettato queste azioni come veri e propri massacri. Luigi d’Alife ce ne ha parlato nel suo recente documentario: Il Massacro di Cizre (da pochi giorni scaricabile – gratuitamente – online su https://vimeo.com/158721959). I militari turchi hanno asserragliato diverse città curde sparando anche a civili, senza risparmiare vecchi e bambini. Altre volte li hanno lasciati morire tagliando loro viveri ed acqua, bloccando le strade e ponti d’accesso per i rifornimenti. Questo ha avuto il risultato di sbilaciare un già precario equilibrio di pace tra lo stato turco e la minoranza curda: le ritorsioni curde sono state violente ed hanno avuto come oggetto sia civili che militari turchi.

In gennaio un attentato dell’ISIS ha ucciso 13 persone e ne ha ferite 14 a Sultan Ahmet, centro turistico di Istanbul. In febbraio un attacco terroristico rivendicato dal TAK ha ucciso 30 persone e ne ha ferite 60, nel distretto di Kızılay ad Ankara. Il 13 marzo 2016, un altro attacco, sempre ad Ankara, sempre da parte dei Falconi liberi del Kurdistan, ne uccide altri 37 e ne ferisce 125, vicino alla stazione dei bus di Güvenpark. Il 19 marzo, ancora Istanbul, l’ultimo di una lista di attentati che si allunga e non sembra arrestarsi. Il messaggio è chiaro e diretto, che si tratti dello Stato Islamico o dei reparti curdi: siamo capaci di colpirvi nel cuore del vostro centro commerciale e turistico, in pieno giorno senza che voi possiate fare nulla per impedircelo.

Eppure, perché, se la Turchia ha sostenuto l’ISIS, è stata comunque oggetto di attentati? In realtà, chi pensa che lo “Stato Islamico” sia un uno stato centralizzato si sbaglia di grosso. Il potere politico è in realtà diviso in diverse fazioni unite dall’odio ideologico verso l’Occidente capitalista e infedele. Per questo non stupisce che, vista la posizione contradditoria della Turchia, alcune cellule jihadiste si siano fatte esplodere anche ad Istanbul ed Ankara. Dunque la Turchia è stretta tra una doppia morsa. L’ISIS e i Curdi, che la Turchia  combatte e che reagiscono con altrettanti attentati. Senza contare poi che il governo è esposto anche alle critiche dei suoi stessi cittadini, che nonostante il gas e le violente cariche della polizia, continuano a manifestare contro le operazioni militari nel Kurdistan turco. Fortunatamente per l’AKP, l’Europa, vista l’importanza strategica dell’alleato turco, praticamente ignora i massacri che il governo sta perpetrando nel sud del paese.

Ma in che modo la Turchia intrattiene relazioni con lo “Stato Islamico”, e come potrebbero queste relazioni essere collegate alll’attentato di oggi ad Istanbul? Sia il “Guardian” sia l’”Independent” hanno fornito informazioni al riguardo. Queste relazioni includerebbero il passaggio di armi (sappiamo almeno di un caso documentato) per sostenere l’esercito dello Stato Islamico, la cura di gihadisti feriti in strutture ospedaliere turche, il petrolio che la Turchia comprerebbe dall’ISIS a prezzo agevolato, fino ad arrivare a passaporti turchi, falsi, per gihadisti dell’ISIS che girerebbero indisturbati in Turchia e farebbero incetta di giovani turchi da indottrinare alla causa dell’ISIS.

Proprio un turco affiliato all’ISIS, tale Mehmet Öztürk si è fatto esplodere Sabato 19 Marzo. Nato nel 1992, Öztürk era di Gaziantep, una citta’ del sud della Turchia, al confine con la Siria. Proprio lì sarebbe stato attirato dalla proaganda dell’ISIS. Lasciata l’abitazione materna nel 2013, a soli 23 anni, Öztürk aveva fatto perdere le sue tracce. Le autorità turche, che sospettavano un collegamento tra Öztürk e lo Stato Islamico, lo avevo inserito nella lista dei ricercati. Dopo l’esplosione le autorità avrebbero identificato Öztürk dalla testa, scaraventata a diversi metri dall’esplosione. La polizia ha contattato il padre dell’attentatore ed ha effettuando il test del DNA per verificarne l’identità. L’esito positivo è arrivato in meno di 24 ore, un tempo record se si pensa che l’analisi del DNA necessiterebbe almeno 24/48 ore. La celerità con cui l’esame è stato effettuato suggerisce la necessità, per le autorità turche, di controllare una situazione che, in realtà, risulta difficilmente controllabile.

In effetti, alla Turchia la situazione sembra essere sfuggita di mano, tanto che il gioco del doppio binario sembra ritorcerglisi contro. Altrimenti come si spiegherebbe che negli ultimi tre mesi ci sono stati quattro attentati, due rivendicati dai Falconi neri del TAK e due parte dell’ISIS? Inoltre, soltanto due settimane dividono gli ultimi due attentati: l’escalation è preoccupante.

L’autoritarismo del partito dell’AKP, che oggi si fa Stato, si esprime attraverso l’attacco alla libertà di stampa e di espressione. È di poche settimane fa la notizia che il direttore di “Zaman”, giornale di opposizione, è stato rimosso dagli incarichi da parte del governo. Il 22 marzo è stata la volta del giornale Radikal, chiuso per “mancanza di fondi”. Gli organi di governo si prendono la briga di arrestare intellettuali, studenti, giornalisti, e perfino ignari professori d’informatica, come è successo a Chris Stephenson, inglese, professore alla Bilgi University d’Istanbul, il quale si è visto sbattere in cella con l’accusa di terrorismo perché possedeva dei volantini del Newroz, il capodanno curdo, nella borsa. Per quanto riguarda invece la crescita delle frange islamiste in Turchia, negli ultimi anni diverse organizzazioni sono state favorite dal governo. Come riporta Şerif Mardin nel suo libro Religione, Società, e Modernità nella Turchia Contemporanea, le Imam Hatip Schools, le scuole religiose, sono cresciute in maniera lineare dal 1950, ed esorbitante negli ultimi anni, fino a toccare il milione. Anche il Diyanet o Ministero per gli Affari Religiosi è cresciuto in importanza, scrive Svante Cornell dal bisettimanale “The Turkish Analyst”. Il budget del Diyanet è quadruplicato sotto il governo dell’AKP ed ora il Direttorato s’inserisce sempre più nella vita politica del paese e supporta come può il partito. Il Diyanet ha incrementato il suo attivismo, soprattutto i corsi religiosi e di lettura del Corano. Era nato per supervisionare il campo religioso in Turchia, ma oggi, scrive Cornell, il Diyanet è uno strumento del Presidente Erdoğan. Il tweet di Aktas, per quanto possa riflettere l’azione di una mina vagante, è il risultato della politica governativa sempre più filoislamista, a cui inevitabilmente si aggregano elementi estremisti.

Dunque, politica, religione, autoritarismo e una serie di attentati terroristici sembrano crescere di pari passo, soprattutto negli ultimi anni, nella Turchia dell’AKP. Se tutto ciò accadesse in un regime dalle ideologie totalitarie lo comprenderemmo, ma non in Turchia, non nella Turchia che bussa alle porte dell’Europa, non nella Turchia che ha un tremendo bisogno che la formula magica “zero problemi” venga applicata, non in una Turchia tanto multietnica in cui le politiche (multi)culturali dovrebbe rappresentare la sua arma più potente, non nella Turchia che ha un bisogno forte di stabilità. In questa Turchia, l’atmosfera di psicosi che il governo contribuisce a creare con scelte errate di politica interna ed estera, sta costando vite umane.

 


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