Quella che segue è l’intervista realizzata da Daniele Grassi a Simbal Khan, direttrice della sezione “Afghanistan e Asia Centrale” dell’Istituto di Studi Strategici di Islamabad, Pakistan. La dottoressa Khan svolge interessanti riflessioni sulle motivazioni geopolitiche che hanno portato gli USA ad invadere l’Afghanistan, e non manca di considerare ruolo ed interessi dei paesi vicini, dalla Russia all’India, dal Pakistan alla Cina.


A nove anni dall’occupazione dell’Afghanistan da parte delle truppe americane ed alleate, qual è la situazione odierna? Sono stati raggiunti alcuni degli obiettivi iniziali?

Al momento dell’occupazione, l’obiettivo degli americani era quello di combattere Al Qaeda. Da quel momento abbiamo visto un’escalation ed un aumento del numero delle truppe stanziate sul territorio. Attualmente ci sono circa 100 mila soldati americani e 50 mila soldati alleati stanziati in Afghanistan, con 48 Paesi coinvolti. I reports che giungono dagli USA dicono che attualmente ci sarebbero circa 100 membri di Al Qaeda in Afghanistan e tra i 300 e i 500 membri nelle regioni pakistane al confine. In questi anni abbiamo anche visto un’escalation degli attacchi coi drone. La guerra contro i talebani non sta dando molti risultati. I talebani vennero molto indeboliti nella fase iniziale dei combattimenti. Tuttavia, per una serie di ragioni che vanno dagli errori commessi in occasione del processo di Bonn, agli errori del governo Karzai, passando per la distrazione americana prodotta dall’impegno in Iraq, i talebani hanno riguadagnato forza. La politica annunciata da Obama circa l’aumento delle truppe di circa 30000 unità in vista dell’inizio del ritiro nel 2011 sembra che stia fallendo. Recentemente infatti, la data per il ritiro è stata spostata al 2014 ed il generale Petreus ed altri membri dell’establishment sembrano restii a porre una data come limite per la presenza delle truppe americane in Afghanistan.

Ma lei non crede che ci sia della confusione all’interno della strategia americana? Partiti per eliminare Al Qaeda, sembra oggi che gli obiettivi principali siano altri. Tutto ciò non crede che sia il segno di una mancanza di chiarezza circa gli obiettivi principali da raggiungere in Afghanistan e soprattutto, circa le strade da percorrere per tirarsene fuori?

Sono completamente d’accordo con te. Per quel che riguarda la loro strategia e le posizioni dei principali policy-makers, c’è una totale assenza di chiarezza sui principali obiettivi da raggiungere. Ci sono diverse posizioni; alcuni policy-makers affermano che stanno combattendo Al Qaeda e di conseguenza i talebani, ma c’è una grande differenza tra questi ultimi ed Al Qaeda.

C’è molta confusione anche per quel che riguarda il processo di riconciliazione. Si fa un gran parlare del dialogo coi militanti ma nulla di significativo è finora successo ed io credo che osservando la situazione sul terreno appare evidente che gli Stati Uniti non sono del tutto convinti circa la bontà di questa ipotesi di dialogo coi talebani.

Riconciliazione o reintegro?

Il tentativo di reintegrare alcuni talebani è partito già diversi anni fa. Già nelle prime fasi delle operazioni, diversi talebani di basso livello riposero le armi e smisero di combattere, diventando parte del governo Karzai. Ma questo processo di graduale reintegro non ha avuto successo nel portare pace e stabilità nel paese.

Confondere questo processo da quello di riconciliazione con i membri più importanti dei Taliban è un errore spesso commesso dai policy-makers americani e che ha fatto sì che i risultati sinora raggiunti siano davvero molto scarsi.

Nel 2005 si diede vita ad una commissione di riconciliazione guidata da Mujaddedi, la quale fallì nei suoi obiettivi per la scarsità delle risorse a sua disposizione e per l’incapacità di offrire protezione ai talebani che decidevano di deporre le armi.

Non credo che le ragioni del suo fallimento vadano ricercate nella sua mancanza di risorse; questo è quel che è stato detto per giustificare il mancato successo. Credo piuttosto che quella commissione fallì per le stesse ragioni che oggi stanno determinando il fallimento del Consiglio per la pace e la riconciliazione guidato da Rabbani. L’idea che tutti i talebani combattano perché non hanno un lavoro e risorse per sopravvivere nega il fatto che anche i talebani abbiano delle idee politiche. Io non credo affatto che dando un lavoro ai talebani, si avrebbe una cessazione dei combattimenti. Molti talebani hanno un preciso sentire politico, un’ideologia molto forte che non è affatto legata a motivazioni di ordine economico. Ci sono sicuramente alcuni talebani che combattono per questo tipo di ragioni, ma non sarebbe possibile portare avanti un’insurgency di questa portata e sopportare la morte di tante persone con le sole motivazioni economiche. L’ideologia gioca un ruolo fondamentale per comprendere il perché delle loro azioni.

Una cosa importante da notare è che l’età di chi entra a far parte dei Taliban si sta progressivamente abbassando. Molti dei vecchi comandanti sono morti e questi ruoli vengono assegnati a gente sempre più giovane. Ciò dimostra ancora una volta come non sia possibile giustificare tutto con motivazioni di ordine economico, le quali ricoprono certamente un ruolo marginale specie tra i più giovani.

È un po’ l’idea americana per cui è possibile comprare tutto e tutti purché se ne abbiano le risorse.

Credo si tratti anche di una semplificazione della realtà. Andare verso una negoziazione politica o una soluzione di tipo politico implicherebbe una revisione della strategia sinora adottata perché, come abbiamo detto prima, c’è una totale assenza di chiarezza.

Quel che voglio dire è che molti stanno vedendo che la ragione dell’invasione americana dell’Afghanistan non era solo quella di distruggere Al Qaeda, quanto piuttosto quella di normalizzare la situazione e lasciare un piccolo contingente, delle basi militari sul territorio.

Gli USA hanno oltre 800 basi militari sparse per il mondo ed è abbastanza evidente che gli americani vogliano mantenere una loro presenza anche in Afghanistan, territorio ritenuto strategico da molti analisti, per via della vicinanza all’Asia Centrale, la quale costituisce il cosiddetto “near abroad” dei russi. L’idea degli Usa, già espressa nel 2000, sarebbe quella di legare l’Asia centrale a quella meridionale a livello energetico ed infrastrutturale, così da unire economie emergenti come quella indiana a paesi ricchi di risorse energetiche. Questo è un disegno geopolitico che avrebbe importanti conseguenze su molti altri paesi e che ci permette di capire come mai gli americani abbiano utilizzato tante risorse per un Paese come l’Afghanistan.

Una soluzione politica in Afghanistan è inconciliabile con questa idea di mantenere una presenza permanente sul territorio. Ciò sarebbe inaccettabile per i gruppi dei militanti impegnati in Afghanistan ed alcuna reale riconciliazione ci sarà mai finché gli americani non decideranno di abbandonare questi loro progetti geopolitici.

Ma secondo lei cosa succederà? Gli americani rinunceranno al loro disegno di controllo dell’Asia centrale oppure sceglieranno di intensificare i combattimenti pur di mantenere delle basi in Afghanistan?

È proprio qui che emerge l’assenza di chiarezza della loro strategia. Gli americani non posso esplicitare apertamente i loro piani. Lo stesso capo delle forze armate pakistane, il Generale Kayani, in un’intervista rilasciata ad una tv pakistana poche settimane fa, ha affermato che gli americani fanno un gran parlare delle colpe e delle ambiguità della politica pakistana in Afghanistan ma non dicono apertamente qual è il loro reale obiettivo di lungo termine lì. Questo disegno geopolitico è, almeno per il Pentagono, l’obiettivo ultimo dell’occupazione americana dell’Afghanistan.

Quale sarebbe la reazione di Russia e Cina nel caso di una presenza permanente degli americani sul territorio afghano?

I russi stanno cercando di conciliare i loro interessi con quelli occidentali. Essi stanno ad esempio cercando di aumentare l’importanza strategica del dialogo con la NATO e sembra dunque che siano disposti a tollerare una tale presenza. D’altronde, gli americani hanno alcune basi in Asia centrale già da diversi anni ed i russi non sembrano troppo infastiditi, al momento, da tale presenza. Il tutto potrebbe risolversi offrendo alcuni incentivi alla Russia, consistenti in una presenza nei trasporti energetici, in alcuni progetti di sfruttamento delle risorse minerarie afghane. Tutto ciò contribuirebbe a rimuovere la loro visione negativa circa una presenza permanente degli americani nella regione.

La Cina è invece molto scettica circa i progetti americani, ma mancando di una presenza militare in Afghanistan e della forza necessaria per opporsi ai disegni di Washington, non sembra, al momento, in grado di opporsi alla strategia americana.

Questa è dunque una parte importante nel disegno americano che ha prodotto l’occupazione americana e che sta oggi dando vita a tanta confusione tra gli osservatori delle vicende afghane.

Per quel che riguarda la strategia pakistana in Afghanistan, le vede dei significativi cambiamenti negli ultimi 10 anni?

Credo che l’unico cambiamento significativo sia stato l’interruzione del sostegno offerto ai talebani. Prima dell’11/9, il Pakistan era il maggiore sostenitore dei talebani e questi dipendevano fortemente da questo supporto in vari settori, militare, finanziario, commerciale. I talebani divennero presto isolati dal resto del mondo e il Pakistan costituiva uno dei pochissimi partner dell’Afghanistan in quel periodo e cercava di spingere altri Paesi ad aprire delle relazioni diplomatiche coi talebani.

Questo è quel che avveniva prima dell’occupazione. In seguito, sotto la pressione degli USA, il Pakistan divenne alleato nella guerra al terrore e fornì ogni tipo di infrastruttura e supporto logistico agli americani ed ai loro alleati. Il cambiamento fu drastico, radicale ed ogni tipo di rapporto coi talebani venne immediatamente reciso. Molti comandanti talebani presenti in Pakistan furono arrestati, come ad esempio il Mullah Zaif, ex ambasciatore afghano in Pakistan. Gli arresti e l’interruzione del sostegno ai talebani provocarono il collasso del loro governo.

Nonostante ciò, nei primi anni dopo l’occupazione, il ruolo del Pakistan in Afghanistan fu molto marginale a causa di diversi fattori. Innanzitutto, il governo Karzai comprendeva molti membri dell’Alleanza del Nord, la quale aveva combattuto per molti anni i talebani, i quali erano a loro volta sostenuti proprio dal Pakistan. Questo portò ad una marginalizzazione del Pakistan nelle vicende afghane.

Diversi talebani intanto trovarono rifugio nelle aree tribali del Pakistan, a confine con l’Afghanistan, ma essi non giovarono di alcun supporto ufficiale da parte del governo di Islamabad. Tuttavia, le cose sono cambiate ulteriormente a partire dalla seconda metà di questo decennio, a causa del sempre maggiore impegno delle truppe pakistane nella lotta contro i gruppi dei talebani stanziati nelle FATA e nelle regioni circostanti. La prima operazione risale infatti al 2004 e fu in quella circostanza che il Pakistan realizzò la grandezza del problema per la sua stessa sopravvivenza e venne a conoscenza dei legami instauratisi tra i talebani ed i residenti di quell’area.

Il Pakistan tuttavia mancava degli strumenti e delle risorse necessarie per far fronte a quella situazione ed il tutto era aggravato dal supporto offerto ai militanti da parte dell’India.

Quel che accadde infatti con l’ascesa al potere dei membri dell’alleanza del nord, specie nel settore militare e dell’intelligence, fu un forte avvicinamento a New Delhi, loro tradizionale alleato sin dai tempi dell’occupazione sovietica.

L’intelligence pakistana divenne allora molto sospettosa circa le attività svolte dagli indiani nei numerosi consolati aperti in Afghanistan, specie in quelli a ridosso del confine col Pakistan.

Fu proprio questo, unito a quel che stava accadendo nelle FATA ad allarmare il Pakistan, il quale decise di concentrarsi sulla difesa della propria sicurezza nazionale più che sugli obiettivi dettati dalla guerra al terrore, la quale anzi contribuiva al deterioramento della propria sicurezza.

Il Pakistan inoltre notò l’erroneità della politica perseguita in Afghanistan sino a quel momento. In qualità di alleato degli USA, il Pakistan tentò di far capire agli americani gli errori commessi sul terreno e quelli riguardanti la comprensione della situazione politica presente in Afghanistan. Si cercò, ad esempio, di far capire agli americani che fino a che non ci fosse stato un aumento del numero dei pashtun all’interno della compagine governativa e di sicurezza afghana, si sarebbe assistito ad una continua espansione dell’insurgency e ad un rafforzamento dei talebani. Nessuno però prestò attenzione alla posizione ed ai suggerimenti del Pakistan e questo si tradusse in un sempre maggiore avvicinamento dei pashtun alla causa dei Taliban ed al conseguente peggioramento della situazione di sicurezza.

Il Pakistan decise dunque di modificare la sua strategia, tentando di acquisire una maggiore indipendenza nei confronti dei suoi alleati e di perseguire con più efficacia i suoi propri obiettivi.

Quali sono state le ripercussioni pratiche di questa nuova strategia?

Il Pakistan ha cominciato a distinguere nettamente i talebani afghani da quelli pakistani ed ha concentrato i suoi sforzi militari su quei gruppi che, pur supportando i militanti attivi in Afghanistan, avevano come obiettivo principale la lotta contro l’establishment pakistano ed il suo rovesciamento. Le forze armate pakistane hanno cercato di isolare questi gruppi ed hanno inoltre rafforzato il controllo della frontiera con l’Afghanistan installando tra i 700 e gli 800 posti di blocco per la supervisione dell’area di confine.

Si può quindi dire che, pur operando al fianco degli USA e degli altri alleati ISAF e NATO, il Pakistan stia cercando, da 5-6 anni ormai, di bilanciare tutto questo coi propri obiettivi di sicurezza nazionale. Una guerra contro i talebani afghani non era, evidentemente, nei suoi interessi nazionali.

Dunque il rifiuto pakistano di intervenire nel Nord-Waziristan rientra proprio in questa nuova strategia di perseguimento dei propri interessi nazionali?

Non credo possa parlarsi di un vero e proprio rifiuto di intervento. Le forze armate pakistane hanno solamente affermato che interverranno allorquando ci saranno le condizioni per farlo.

Il Pakistan non è attualmente in grado di lanciare un’operazione in quella regione in quanto ha dato la priorità ad altri territori in cui erano presenti militanti impegnati nelle lotta contro lo Stato pakistano, come ad esempio il Sud-Waziristan e la valle dello Swat. Questi gruppi avevano certamente dei contatti coi talebani afghani, ma il loro ruolo era marginale in Afghanistan. Il loro obiettivo principale era invece quello di attaccare lo Stato pakistano ed è per questo che le forze armate hanno deciso di dare la priorità a questi gruppi ritenuti pericolosissimi per la sicurezza nazionale.

Il Sud-Waziristan era ad esempio una roccaforte del TTP (Tehrik-i-Taliban Pakistan) e lo stesso vale oggi per Orakzai, nuovo terreno di scontro tra i militari pakistani ed i militanti.

Sino a che queste operazioni non saranno definitivamente chiuse con successo e la popolazione non verrà ristabilita in questi territori, non sarà assolutamente possibile lanciare operazioni nel Nord-Waziristan. Tuttavia, anche qualora tale operazione dovesse essere lanciata, sono molto scettica sul fatto che le forze armate pakistane si impegneranno in una vera e propria lotta coi talebani afghani.

Lanciare una tale operazione non vuol dire necessariamente dare vita ad un’operazione contro i talebani afghani ed il network degli Haqqani.

Le forze armate pakistane hanno già lanciato, in questi ultimi anni, piccole operazioni militari nel Nord-Waziristan, ma il loro obiettivo era quello di dare la caccia ad Al Qaeda ed ai talebani del Punjab, oltre che ai membri del TTP fuggiti dal Sud-Waziristan proprio a seguito delle operazioni condotte in quel territorio.

Pensare dunque che lanciare un’operazione nel Nord-Waziristan significhi rompere col network degli Haqqani, credo sia poco realistico.

Crede dunque che il Pakistan stia continuando ad usare il network degli Haqqani come un asset strategico utile ad incrementare la propria influenza sulle vicende afghane?

Il Pakistan non sta usando gli Haqqani. Bisogna capire che il gruppo degli Haqqani fa parte della Shura di Quetta. In molti territori, la Shura utilizza gruppi di combattenti locali, i quali godono di un’ampia libertà in termini di tattica militare ma che rispodono comunque all’autorità del Mullah Omar e sono dunque da considerare membri dei talebani afghani. La stessa cosa vale per il network degli Haqqani.

Aldilà delle aree che costituiscono il cuore del potere talebano, sarebbe a dire le regioni dell’Helmand e di Kandahar, le cose funzionano in questa maniera.

Lo stesso Sirajuddin Haqqani ha più volte affermato che l’idea di un network degli Haqqani distinto o peggio, in conflitto, con la Shura di Quetta è un’invenzione degli occidentali e che invece c’è assoluta comunanza di intenti col Mullah Omar, leader supremo dei Taliban.

Gli americani preferiscono far leva sulle divisioni interne al gruppo, sperando che in questo modo diventi possibile reintegrarne alcune parti, lasciandone fuori altre. Questo è stato già fatto. Ci sono già 6-7 ex-talebani all’interno del governo Karzai, ma ciò non ha affatto contribuito a riportare pace e stabilità nel Paese.

Lei crede sia possibile recidere il legame tra Al Qaeda ed i talebani?

Credo sia assolutamente possibile. Se non sta ancora avvenendo è perché i talebani percepiscono la mancanza di onestà da parte degli occidentali quando si tratta di avviare delle vere e proprie trattative per la riconciliazione. I talebani hanno più volte affermato di essere pronti a tagliare ogni legame coi militanti stranieri presenti oggi in Afghanistan. Inoltre, ci sono già molti talebani che credono che sia per colpa delle attività svolte da Bin Laden e dai suoi seguaci che essi hanno perso il governo del Paese e sono dunque molto critici verso Al Qaeda e sarebbero felice di allontanarli dall’Afghanistan.

Come mai i talebani rifiutarono di consegnare Bin Laden agli americani dopo gli attacchi alle Torri Gemelle?

I talebani erano convinti che fosse tutto un pretesto per attaccare l’Islam ed inoltre non fu dato loro tempo a sufficienza. Il Pakistan insistette con gli USA affinché fosse dato loro più tempo e questo emerge chiaramente dai telegrammi scambiati tra Washington ed Islamabad. Personaggi molto vicini al Mullah Omar comunicarono ai vertici pakistani che sarebbe stato avviato un processo contro Bin Laden, seguendo usi e costumi tradizionali. Bin Laden riconosce l’autorità del Mullah Omar in qualità di leader e di Amir e questo significa che egli non può in alcun modo disubbidire agli ordini che vengano dal capo della Shura di Quetta. Il processo sarebbe proprio servito a dimostrare che Bin Laden era andato contro la volontà dell’Amir e questo avrebbe permesso ai talebani di consegnare Bin Laden, forse non agli americani, ma molto probabilmente ad un paese terzo come l’Arabia Saudita. Era proprio quello il piano.

I talebani non potevano permettersi di consegnare Bin Laden senza nemmeno la parvenza di un tale processo. I seguaci del Mullah Omar erano già da alcuni mesi alle prese con problemi all’interno dell’Afghanistan. La loro incapacità di governare e di offrire servizi essenziali alla popolazione ne stava infatti rodendo la legittimità interna e la consegna di Bin Laden, se fosse avvenuta in modo contrario alle regole imposte dalla Sharia, non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione e privare i talebani della restante legittimità di cui godevano e che proveniva proprio dalla loro ossequiosa osservanza dei Corano.

Tuttavia, i talebani sono pronti a recidere ogni legame con Al Qaeda. In una lettera inviata dal Mullah Omar alla SCO (Shangai Cooperation Organization) nel 2009, si ribadiva proprio il concetto che i talebani non permetteranno a nessun gruppo di militanti stranieri di utilizzare il loro territorio per lanciare operazioni terroristiche contro Paesi terzi, a condizione però che gli americani ed i loro alleati dimostrino una reale volontà di riconciliazione e procedano al ritiro delle truppe.

Negli ultimi mesi si è assistito ad un significativo riavvicinamento tra Pakistan ed Afghanistan. Come spiega questo fenomeno?

In precedenza c’era un’animosità personale tra Karzai ed il Generale Musharraf. Quest’ultimo era infatti considerato arrogante dal Presidente afghano ed effettivamente, l’atteggiamento di Musharraf dava adito a tali percezioni. Questi infatti, non riusciva a trattare Karzai da pari a pari e ciò fece sì che le relazioni tra i due fossero davvero molto fredde.

Credo che due anni fa, in occasione della rielezione del Presidente Karzai, tutti i maggiori stake-holders coinvolti in Afghanistan presero coscienza del fatto che le cose non stavano andando affatto bene ed occorreva dunque un cambio di rotta. In quello stesso periodo c’è stato un cambio di presidenza negli USA col conseguente ripensamento della strategia da adottare in Afghanistan. La strategia americana era quella di puntare su altri candidati in occasione delle elezioni poiché la debolezza della leadership di Karzai veniva additata come principale fattore degli insuccessi conseguiti dagli USA e dai loro alleati.

Il Pakistan gioca un ruolo molto importante nelle elezioni in Afghanistan poiché offre rifugio ad oltre due milioni di cittadini afghani ed il voto di questi rifugiati è di enorme importanza ai fini dei risultati elettorali. A questo punto, quando gli americani cominciarono a cercare un candidato alternativo da sostenere nelle elezioni ed il nome di Abdullah Abdullah, politico tagiko ed ex-membro dell’alleanza del nord, si faceva sempre più spazio come probabile cavallo vincente, il Pakistan decise, molto intelligentemente, di puntare su Karzai, specie alla luce degli altri concorrenti al posto di Presidente.

Il supporto in occasione delle elezioni del 2008 fu quindi fondamentale nel cementificare le relazioni tra i due Paesi e Karzai fu grato al Pakistan per il sostegno offertogli proprio quando gli USA avevano ormai deciso di voltargli le spalle.

Le elezioni che di lì a poco si sarebbero tenute in Pakistan non fecero che migliorare ulteriormente queste relazioni ed oggi c’è una migliore comprensione di quelle che sono le esigenze del governo pakistano per quel che concerne l’Afghanistan e del ruolo che Islamabad vuole che sia concesso ai talebani all’interno del governo afghano. È proprio nel gruppo vicino a Karzai e sensibile alle esigenze pakistane che militano i maggiori sostenitori di una riconciliazione coi talebani che apra le porte alla pace ed alla stabilità nel Paese.

Quali sono gli effetti di questo riavvicinamento sugli interessi dell’India in Afghanistan?

Un impatto c’è stato sicuramente all’interno del governo afghano, ma anche all’interno dell’amministrazione americana. La rimozione, lo scorso anno, di Amrullah Saleh, ex-ministro degli interni afghano ritenuto molto vicino a New Delhi, è un chiaro segnale di questo cambiamento. Amrullah Saleh era il capo dell’agenzia di intelligence afghana, la quale lavorava a stretto contatto con l’intelligence indiana e la sua rimozione, seguita dall’assegnazione dell’incarico ad un consigliere pashtun di Karzai, rappresenta un segno della chiara volontà afghana di ridurre il ruolo giocato dall’India all’interno del Paese. La stretta collaborazione tra l’intelligence afghana e quella indiana rappresentava un grave problema per le forze armate pakistane in quanto New Delhi era ritenuta colpevole di sostenere il movimento indipendentista pashtun nella regione e, in un certo modo, di dare supporto anche al TTP.

Un altro fattore di scontento per il Pakistan era rappresentato dalla marginalizzazione delle compagnie pakistane per quel che concerneva la ricostruzione afghana. Anche da questo punto di vista si sta assistendo ad importanti cambiamenti. Le compagnie pakistane stanno notevolmente estendendo le proprie attività all’interno dell’Afghanistan e sono molto attive soprattutto nelle opere di ricostruzione che prendono luogo nelle regioni a maggioranza pashtun a ridosso del confine col Pakistan. Circa 70000 pakistani lavorano attualmente in Afghanistan e ciò dimostra ulteriormente come le cose siano mutate negli ultimi tempi.

Dato il miglioramento delle relazioni tra i due Paesi, crede sia possibile giungere al riconoscimento della Durand Line da parte del governo afghano?

Assolutamente no. Questo è un argomento molto sensibile per gli afghani, uno dei pochi che riesca ad unire tutta la popolazione afghana su un’unica posizione.

Il Pakistan ha ormai imparato a non sollevare questo tema poiché ciò andrebbe contro gli stessi interessi pakistani in quanto non farebbe che stimolare il nazionalismo afghano. Secondo gli afghani infatti, la Durand Line è assolutamente illegittima e fu tracciata dagli inglesi in maniera assolutamente illogica.

C’è però una sorta di riconoscimento de facto di tale confine, ma nemmeno quando al potere vi erano i talebani si riuscì ad ottenere un atto formale di riconoscimento e di conseguenza, una cessazione definitiva delle pretese avanzate sui territori pakistani occidentali.

La soluzione migliore che può esserci è dunque quella attuale. Ci sono numerosi esempi sparsi nel mondo di confini deboli come quello esistente tra Pakistan ed Afghanistan. La comunanza etnica delle popolazioni che risiedono nei territori trans-frontalieri rende impossibile qualsiasi altra soluzione.

È dunque possibile aumentare i posti di blocco ed implementare un più efficace sistema di controlli biometrici per contrastare i traffici illegali di merci e di droga, ma nulla di significativo può esser fatto per prevenire il traffico di esseri umani che a migliaia attraversano quotidianamente il confine.

Cos’altro può essere fatto per ostacolare il traffico di droga che ha luogo attraverso il confine?

Il problema non consiste nell’assenza di controlli. Il sistema biometrico e quello di controllo satellitare sarebbero certamente efficaci di ridurre tale traffico ma il problema reale consiste nel fatto che la maggior parte del traffico viene facilitato proprio da chi dovrebbe invece ostacolarlo ossia, dai responsabili preposti alla sorveglianza dei traffici trans-frontalieri.

C’è dunque un coinvolgimento delle istituzioni locali di governo?

Assolutamente sì! Perché credi che Walid Karzai (fratello del Presidente afghano e governatore della provincia di Kandahar) sia parte del traffico di droga? Questo smercio di droga non potrebbe avvenire senza l’attivo coinvolgimento delle istituzioni e dei poteri locali.

Il traffico attraverso la città afghana di Spin-Boldak, a ridosso del confine pakistano, viene gestito ad esempio da Abdel Razek, ex-militante talebano divenuto oggi Generale e a cui viene lasciata praticamente mano libera sulla gestione del territorio, solo perché ha avuto il merito di sconfiggere i talebani in quell’area. Gli americani sanno tutto ciò e conoscono bene la storia di quest’uomo divenuto miliardario a soli 33 anni proprio grazie al traffico di droga. I suoi successi contro i talebani fanno però sì che gli americani lo lascino completamente libero di controllare i traffici illegali trans-frontalieri e su questi, di costruire la sua ricchezza ed il suo potere.

C’è poi da sottolineare la connivenza tra gli ufficiali preposti al controllo nei posti di blocco ed i talebani, il cui coinvolgimento è invece necessario per assicurare la sicurezza del trasporto durante tutto il tragitto.

Il quadro che lei sta dipingendo non lascia presagire nulla di buono. Cosa accadrà una volta che le truppe americane avranno abbandonato l’Afghanistan?

Innanzitutto ci sarà meno denaro. La torta diventerà più piccola e ci saranno meno possibilità di corruzione. Circa l’80% di questa corruzione è stata causata proprio dal denaro che giunge dai Paesi occidentali e che l’Afghanistan non riesce ad assorbire diversamente.

Vengono consegnati milioni di dollari in aiuti e questi spesso finiscono proprio nelle mani dei talebani, i quali minacciano coloro i quali vengono incaricati di gestire questi contanti e di utilizzarli per creare sviluppo economico nella regione. Un esempio di quanto detto è rappresentato, ad esempio, dal CERP (Commander’s Emergency Response Program), programma di aiuti molto criticato per la sua cattiva gestione.

Crede che per gli USA sarà sempre più difficile gestire, allo stesso tempo, buone relazioni sia col Pakistan che con l’India?

Le relazioni tra Pakistan e Stati Uniti, pur se tra molti alti e bassi, risalgono a molti anni fa e credo che andranno avanti allo stesso modo ancora per molti anni. Nei prossimi sei mesi ci saranno molto probabilmente delle fasi molto critiche in quanto l’amministrazione Obama ha urgenza di mostrare agli americani i progressi fatti in Afghanistan ma credo che credo che le relazioni di lungo-termine non verranno completamente danneggiate. Gli Stati Uniti resteranno legati al Pakistan sino a che sentiranno di avere degli interessi in Asia Centrale così come sul confine orientale dell’Iran. Gli Stati Uniti devono mantenere buone relazioni col Pakistan e con le sue forze armate e non prevedo alcuna rottura almeno nei prossimi anni.

Non crede che nel caso di un’escalation delle tensioni tra Cina e Stati Uniti, il Pakistan possa essere chiamato a schierarsi da una parte o dall’altra? Molti, in Occidente, credono che in un caso del genere, il Pakistan punterebbe tutto sull’alleanza con Pechino. Qual è la sua opinione a riguardo?

Il Pakistan sta tentando di fare un po’ da mediatore tra USA e Cina e questo lo si può vedere ad esempio nel caso del porto pakistano di Gwadar. Pare infatti che il Pakistan abbia offerto anche agli americani l’uso di questo porto proprio per stemperare le polemiche ed i timori di Washington circa la presenza cinese nel Paese e la possibilità di trasformare questo porto in una base militare.

Tuttavia, quel che ho notato personalmente, è che quando le tensioni tra Cina e USA crescono, il Pakistan adotta una posizione pro-occidentale. La Cina è un nostro partner strategico, ma culturalmente siamo molto distanti dai cinesi e di gran lunga più vicini al modello culturale occidentale, alle idee che vengono da Occidente. Credo dunque che sarebbe molto stupido da parte degli Stati Uniti, intimare al Pakistan di allentare le sue relazioni con Pechino. Sono invece convinta che il Pakistan diventerà tanto più importante per gli USA, quanto più sarà capace di stringere la sua relazione con la Cina, pur mantenendo una totale indipendenza in politica estera.

Gli USA hanno relazioni molto strette con le forze armate pakistane e con i nostri servizi di intelligence e l’Occidente rappresenta ancora il nostro maggiore fornitore di armamenti, nonostante la crescita delle importazioni di armi dalla Cina.

Non vedo quindi un fattore cinese capace di danneggiare le nostre relazioni con Washington e credo invece che il Pakistan debba usare questa carta per acquisire maggiore importanza nei piani americani.

Crede che sia possibile trasformare l’attuale “Great Game” che ha luogo nell’Asia centro-meridionale in una sorta di “Great Bargain” da cui tutti i Paesi possano trarre vantaggio?

Quella del “Great Bargain” è un’idea di Rashid e Rubin per cui l’India dovrebbe fare delle concessione al Pakistan per quel che concerne il Kashmir ed in cambio, Islamabad dovrebbe accettare la supremazia regionale indiana e concentrarsi sulla lotta ai gruppi terroristici che stanno destabilizzando la regione. L’idea di fondo è che l’India dovrebbe risolvere le tensioni col Pakistan in modo da poter sviluppare a pieno il suo potenziale e divenire così, una potenza capace di collegare Asia centrale e meridionale ed opporsi al dominio cinese.

Certo, se ciò dovesse accadere, ne saremmo tutti felici, ma non c’è alcun segnale che indica che ciò stia realmente avvenendo. Non credo che l’India sia disposta a fare concessioni sul Kashmir e penso inoltre che il tempo a disposizione sia troppo breve per poter realizzare un disegno di questa portata.

Il progetto iniziale di Obama era proprio quello di concepire una strategia che coinvolgesse Pakistan, Afghanistan ed India e non solo i primi due Paesi, ma ciò non si è realizzato.


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