Fonte: “Affari Internazionali

 

La lotta di potere interna al fronte conservatore in Iran, che si trascina da diversi anni, è deflagrata all’inizio di maggio, rendendo pubblica – soprattutto all’estero – una frattura politica probabilmente, insanabile e senza precedenti nella storia del regime degli Ayatollah sorto nel 1979.

L’ultimo casus belli ha riguardato le dimissioni, imposte dal presidente Ahmadinejad, al ministro della sicurezza nazionale e dell’Intelligence (Mois) Heydar Moslehi, clerico particolarmente vicino alla Guida suprema Ali Khamenei. Alle dimissioni è tuttavia seguito il reintegro per ordine e decreto della stessa Guida.

Piano eversivo
L’affaire Moslehi è stato nulla di più di un pretesto, non certo una questione di grande rilevanza per la sicurezza nazionale. Gli ultimi sei mesi sono stati caratterizzati, infatti, da un crescendo di colpi bassi tra gli uomini del presidente e l’entourage della Guida.

Quello che i fondamentalisti apertamente denunciano è un piano eversivo del presidente per sovvertire l’ordine politico ed istituzionale della Repubblica Islamica. Lo dicono, come da tradizione, utilizzando il lessico e la retorica politica del paese e termini come stregoneria, esorcismo e magia, funzionali a veicolare precisi messaggi politici e religiosi.

È quindi finita l’epoca delle grandi alleanze, sebbene sofferte, in seno al fronte dei conservatori. Ed è paradossalmente venuta meno anche la tradizionale attitudine alla dissimulazione da parte del vertice politico iraniano. Meglio dire apertamente come stanno le cose, sembra aver pensato la Guida.

E le cose sembrano complicarsi alquanto in questo periodo.

Di fatto, al presidente, viene riconosciuta la responsabilità di aver apertamente messo in discussione la linea gerarchica della Repubblica Islamica, attraverso un disegno di destabilizzazione dell’autorità religiosa e politica e volto a favorire l’ascesa di una non meglio precisata nuova generazione politica vicina agli interessi del presidente.

Sacro e profano
Questo piano è stato portato avanti attraverso la sistematica sostituzione di uomini chiave all’interno delle istituzioni e il consolidamento di alcuni apparati economici e della sicurezza, ma anche e soprattutto attraverso la subdola e sediziosa disseminazione di messaggi legati alla messianicità dell’Islam sciita. In modo particolare quelli relativi al prossimo ritorno del Mahdi, il dodicesimo Imam degli sciiti, che presagirebbe la fine della corruzione in terra ed il ritorno della giustizia e della libertà. Di fatto, attraverso metafore nemmeno troppo articolate, un diretto e decisivo attacco al ruolo della Guida e dell’establishment religioso della Repubblica Islamica.

È stato quindi scaltro, Ahmadinejad, nell’utilizzare la retorica religiosa come strumento di opposizione a un sistema giudicato da molti non più adatto. Una retorica apparentemente inattaccabile, religiosamente ineccepibile, e per questo ancor più pericolosa per i vertici della teocrazia.

Si può dunque comprendere perché l’entourage della Guida abbia evocato la “stregoneria” e la “magia” per contrastare il messaggio di Ahmadinejad. Non poteva certo essere negata la bontà dei ragionamenti sul Mahdi e sul suo futuro ritorno, ed è stato quindi necessario attaccare il modo di leggere questi elementi e la capacità di chi li interpreta. In tal modo il presidente e i suoi uomini sono stati presentati all’opinione pubblica iraniana come una setta eretica e pericolosa. Alla stregua di una congrega dedita alla magia e all’occulto al fine di ottenere vantaggi personali.

Elementi retorici, questi, inconcepibili o addirittura ridicoli per un pubblico occidentale, ma assolutamente normali ed accettabili per la società iraniana. Che non crede certo alla magia ed alla stregoneria, ma che valuta questa terminologia come naturale espressione retorica della teocrazia e più in generale del linguaggio politico locale.

Scontro aperto
Un primo parallelismo può essere fatto con l’ultima fase della presidenza Khatami, che si concluse nell’agosto 2005. L’azione del presidente, infatti, anche in questo caso ha scosso le fondamenta del sistema teocratico determinando il ricompattamento dello schieramento conservatore contro la comune minaccia rappresentata, oggi, dal presidente radicale.

La Guida, dopo un periodo di profonda crisi e di progressiva emarginazione dal complesso sistema politico iraniano, è stata nuovamente riconosciuta come un pilastro dell’unità nazionale e dei suoi interessi, oltre che come difensore dei valori originari della rivoluzione islamica. Ciò è avvenuto non tanto per particolari capacità politiche della Guida, quanto perché le diverse anime dello schieramento conservatore hanno trovato in lui un punto di equilibrio.

Si è così determinato un chiaro antagonismo nei confronti del presidente e di tutto il suo sistema di potere. Il presidente è stato dunque apertamente accusato di aver passato il segno, mettendo a repentaglio gli interessi della Repubblica islamica e soprattutto del suo vertice politico e religioso. Una vera e propria dichiarazione di guerra, quindi, dagli esisti imprevedibili.

Dai primi di maggio ad oggi, poi, si sono susseguite varie dichiarazioni di sostegno alla Guida da parte di ogni attore del sistema iraniano. Tutti quelli che, erroneamente, erano stati considerati fedeli alleati del presidente, come i vertici della Guardia rivoluzionaria (Iranian Revolutionary Guard Corps, Irgc), dell’Intelligence, delle forze paramilitari Basij, e così via, hanno apertamente manifestato il loro sostegno alla Guida Khamenei ed accusato (più o meno direttamente) Ahmadinejad di aver messo a repentaglio la sicurezza del paese.

Il parlamento sta invece cercando di raggiungere un accordo per mettere in stato di accusa il presidente, sostenuto strenuamente dal vertice del sistema giudiziario Sadegh Amoli Larijani, fratello del fedelissimo della Guida Ali Larijani.

Fino in fondo
Nel frattempo, l’arresto di diversi esponenti di spicco dell’entourage presidenziale ne sta demolendo – almeno in apparenza – la capacità di reazione e, dunque, anche di screditamento della Guida e della Repubblica Islamica.

È la fine politica di Ahmadinejad? O l’ultimo disperato tentativo del sistema teocratico di sopravvivere alle sempre maggiori insidie provenienti da una società iraniana in trasformazione? Difficile a dirsi.

Ma le analisi occidentali cadono spesso nell’errore di presentare un presidente privo di supporto popolare. Al contrario, invece, Ahmadinejad è riuscito ad attuare politiche sociali di un certo rilievo nel corso degli anni, accrescendo la propria sfera di sostegno. Soprattutto nell’ambito dei ceti più bassi e di ampia parte dei numerosissimi dipendenti pubblici.

La leadership religiosa è percepita invece con crescente distanza da gran parte della società, sebbene, paradossalmente, l’elite culturale del paese, nell’assenza pressoché assoluta di ogni alternativa politica di stampo riformista, sia più incline a sostenere più la Guida che il presidente.

La variabile fondamentale resta quindi la capacità delle parti di non esasperare la dinamica della crisi. Se la Guida dovesse cedere alle pressanti richieste di quanti, tra i suoi sostenitori, intendono mettere sotto stato di accusa o rimuovere Ahmadinejad, quest’ultimo si troverebbe costretto alla “chiamata alle armi” dei suoi fedeli, facendo precipitare pericolosamente la situazione.

Se, al contrario, la Guida optasse per una strategia più graduale, limitando il potere del presidente in attesa della sua uscita nel 2013, si potrebbe allora delineare un quadro più stabile, in attesa soprattutto delle elezioni parlamentari del prossimo anno.

Forti dubbi rimangono tuttavia sull’effettiva capacità della Guida di rendere il confronto politico più pacato e di saper di imporre il proprio volere sulle parti.

 

Nicola Pedde è Direttore dell’Institute for Global Studies, School of Goverment.


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