Fonte: Mondialisation.ca , 1 maggio 2011

L’attuale campagna NATO contro Gheddafi in Libia ha creato molta confusione, sia tra coloro che hanno avviato questa iniziativa inefficace che tra coloro che la osservano. Molte persone di cui solitamente apprezzo il parere vedono tutto ciò come una guerra necessaria contro un antagonista – anche se alcuni hanno scelto di vedere Gheddafi come l’antagonista, mentre altri fanno riferimento ad Obama.

La mia opinione su questa guerra, invece, è che sia mal concepita e pericolosa – una minaccia per gli interessi dei Libici, degli Americani, del Medio Oriente e, potenzialmente, del mondo intero. Dietro al dichiarato timore per l’incolumità dei civili libici vi è una preoccupazione più profonda difficilmente riconoscibile: la difesa occidentale dell’attuale economia globale dei petrodollari, ormai in declino..

La confusione a Washington, combinata con l’assenza di discussione su un motivo strategico di fondo che giustifichi il coinvolgimento degli Stati Uniti, è sintomatica del fatto che il secolo americano sta terminando, e lo sta facendo in un modo che è da un lato prevedibile a lungo termine, dall’altro, contemporaneamente, imprevedibile ed irregolare nei suoi dettagli.

Confusione a Washington e nella NATO

Per quanto riguarda il sollevamento della Libia, le opinioni a Washington spaziano da quella di John McCain, che ha, come sostiene, chiesto alla NATO di fornire “tutti i diretti mezzi di sostegno, ad eccezione di truppe di terra” per rovesciare Gheddafi, a quella del membro repubblicano del Congresso Mike Rogers, che ha espresso grande preoccupazione anche sul consegnare armi per un gruppo di combattenti che conosciamo poco.

Abbiamo visto la  medesima confusione in tutto il Medio Oriente. In Egitto, una coalizione di organizzazioni non governative ha aiutato a preparare la rivoluzione non violenta nel paese, mentre l’ex ambasciatore statunitense Frank Wisner Jr. è andato in Egitto per convincere Mubarak  a sedimentarsi al potere. Nel frattempo, in paesi che sono stati di grande interesse per gli Stati Uniti, come la Giordania e lo Yemen, è difficile individuare una coerente politica americana.

Anche nella NATO c’è una certa confusione che rischia a volte di sfociare in aperto conflitto. Dei 28 membri della NATO, solo 14 sono coinvolti nella campagna di Libia, e solo 6 nella guerra aerea. Di questi, solo tre paesi – Stati Uniti,Gran Bretagna e Francia – stanno fornendo supporto tattico aereo ai ribelli a terra. Nel momento in cui molti paesi membri della NATO hanno congelato i conti bancari di Gheddafi e dei suoi più prossimi sostenitori, gli Stati Uniti, con una mossa poco pubblicizzata e assai dubbia, hanno congelato la totalità dei 30 miliardi di dollari dei fondi del Governo libico cui hanno avuto accesso (si veda sotto per ulteriori dettagli). La Germania, la nazione più potente nella NATO dopo gli Stati Uniti, si è astenuta dal voto alla risoluzione di Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite; e il suo ministro degli Esteri, Guido Westerwelle, da allora ha detto: “Noi non prospettiamo nessuna soluzione militare, bensì una soluzione politica.”

Tale caos non sarebbe stato concepibile nel periodo d’oro del dominio statunitense. Obama sembra paralizzato dal distacco dall’obiettivo dichiarato – la rimozione di Gheddafi dal potere – dei mezzi a sua disposizione, dato il costoso impegno della nazione in due guerre e date le sue priorità di politica interna.

Per capire la confusione di USA e NATO in Libia è necessario tenere conto di altri fenomeni:

 

• L’allarme lanciato da Standard & Poor circa l’imminente perdita di valore finanziario degli Stati Uniti.

• L’aumento senza precedenti del prezzo dell’oro fino al superamento della soglia di 1.500 dollari l’oncia.

• La situazione di stallo nelle politiche degli Stati Uniti circa il deficit federale e statale, e nella ricerca di una soluzione.

Nel vivo della lotta libica contro quel che rimane dell’egemonia statunitense, e in parte come diretto risultato della confusa strategia degli Stati Uniti in Libia, il costo del petrolio ha raggiunto i 112 dollari al barile. Questo aumento dei prezzi rischia di rallentare o addirittura invertire la barcollante ripresa economica degli Stati Uniti, e mostra una delle molte ragioni per cui la guerra libica non sta favorendo gli interessi nazionali americani.

Fin dall’inizio vi è stata evidente confusione a Washington sulla questione libica, in particolare dal momento in cui il Segretario di Stato Clinton ha sostenuto una no-fly policy, il presidente Obama ha dichiarato di voler prendere in considerazione tale possibilità, mentre il Segretario della Difesa Gates vi si è opposto. Il risultato è stata una serie di misure temporanee, durante la cui attuazione Obama ha giustificato una limitata risposta statunitense ricordando gli onerosi compiti degli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan.

Ciononostante, in una situazione di prevalente stallo nella stessa Libia, sono in vaglio una serie di graduali intensificazioni dell’intervento, dall’aiuto ai ribelli per mezzo di armi, fondi e consulenze all’introduzione di mercenari se non addirittura truppe straniere. Lo scenario degli Stati Uniti inizia ad assomigliare sempre più da vicino a quello del Vietnam, dove ugualmente la guerra è cominciata in scala ridotta con l’introduzione di corpi segreti seguiti da consiglieri militari.

Devo confessare che il 17 marzo io stesso non avevo le idee chiare sulla risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che pare aver istituito una no-fly zone in Libia per la protezione dei civili. Ma da quel momento è diventato evidente che la minaccia di Gheddafi contro i ribelli e la sua retorica erano di portata molto minore di quanto si percepisse. Per citare il professor Alan J. Kuperman:

(..) Il Presidente Barack Obama ha grossolanamente sovrastimato il rischio umanitario per giustificare l’azione militare in Libia. Il Presidente ha sostenuto che l’intervento fosse necessario per prevenire un “bagno di sangue” a Bengasi, seconda più grande città della Libia e ultima roccaforte dei ribelli. Ma lo Human Rights Watch ha pubblicato documentazioni su Misurata, terza città della Libia e teatro di scontri prolungati, che rivelano come Muammar Gheddafi non stia cercando di uccidere deliberatamente i civili, ma stia piuttosto mirando attentamente ai ribelli armati che combattono contro il suo governo. La popolazione di Misurata è di circa 400.000 abitanti. In quasi due mesi di guerra, solo 257 persone – combattenti compresi –vi sono morte. Dei 949 feriti, solo 22 – meno del 3% – sono donne. […] Allo stesso modo Gheddafi non ha mai minacciato un massacro di civili a Bengasi, come ha affermato Obama. L’avvertimento “senza pietà” del 17 Marzo, era indirizzato solo ai ribelli, come è stato riportato nel New York Times , che ha notato che il leader della Libia ha promesso l’amnistia a coloro “che avrebbe gettato le armi”. Gheddafi ha anche offerto ai ribelli una via di scampo aprendo il confine con l’Egitto, in modo da evitare una lotta “dal finale amaro”.

La storia degli interventi militari statunitensi in corso in Iraq e Afghanistan suggerisce che dovremmo aspettarci un pesante tributo umano se l’attuale situazione di stallo in Libia si prolungherà o darà luogo a un’ulteriore escalation.

Il ruolo del petrolio e degli interessi finanziari in questa guerra

In American War Machine ho scritto come

 

Attraverso una dialettica apparentemente inevitabile […]in alcune delle nazioni di maggior peso una situazione di prosperità ha incoraggiato l’espansione, e l’espansione ha creato all’interno degli Stati dominanti delle disparità nel reddito in crescita. In questo processo lo stesso Stato sovrano è stato modificato, poiché i suoi servizi pubblici sono stati progressivamente impoveriti per rafforzare i dispositivi di sicurezza che favoriscono i pochi ed opprimono i molti.

Così, per molti anni la politica estera dell’Inghilterra in Asia è stata condotta in gran parte dalla Compagnia delle Indie Orientali […] Allo stesso modo, la compagnia americana Aramco, che rappresenta un consorzio dei giganti del petrolio Esso, Mobil, Socal, e Texaco, ha sostenuto la propria politica di investimenti esteri in Arabia, tramite legami privati con la CIA e l’FBI. […]

In questo modo la Gran Bretagna e gli Stati Uniti hanno ereditato politiche che, una volta adottate dagli Stati metropolitani, sono diventate ostili all’ordine e alla sicurezza pubblici.

Nelle ultime fasi della presenza egemonica, si notano interventi sempre più evidenti per il mero interesse personale, che fanno affondare gli sforzi compiuti in passato per creare istituzioni internazionali stabili. Si consideri  il ruolo della cospirazione, detta Jameson Raid, nella Repubblica Boera Sudafricana alla fine del 1895; una spedizione volta a promuovere gli interessi di Cecil Rhodes e che ha contribuito a scatenare la Seconda Guerra Boera inglese. Oppure si pensi al complotto anglo-francese con Israele nel 1956, nell’intento assurdamente vano di mantenere il controllo del Canale di Suez.

Si veda ora la pressante influenza delle major del petrolio come fattore determinante della guarra americana in Vietnam (1961), Afghanistan (2001) e Iraq (2003). Anche se il ruolo delle compagnie petrolifere nel coinvolgimento degli Stati Uniti in Libia resta oscuro, è una virtuale certezza che gli Energy Task Force Meetings di Cheney non riguardassero solo le riserve petrolifere poco conosciute dell’Iraq, ma anche quelle della Libia, che si stima siano di circa 41 miliardi di barili, cioè un terzo di quelle dell’Iraq.

In seguito, alcuni a Washington immaginavano che a una rapida vittoria in Iraq sarebbero seguiti attacchi omologhi contro Libia e Iran. Quattro anni fa, il generale Wesley Clark ha dichiarato a Amy Goodman su Democracy Now che poco dopo l’11 settembre un generale del Pentagono lo ha informato che molti paesi sarebbero stati attaccati dall’esercito degli Stati Uniti. La lista comprendeva l’Iraq, la Siria, il Libano, la Libia, la Somalia, il Sudan e l’Iran. Nel maggio del 2003 John Gibson, direttore generale dell’Energy Services Group della Halliburton, ha dichiarato in un’intervista all’International Oil Daily: “Ci auguriamo che l’Iraq sarà la prima tessera a cadere, e che la Libia e l’Iran lo seguiranno. Non amiamo essere lasciati fuori dai mercati, perché ciò dà ai nostri concorrenti un vantaggio sleale.”

E ‘anche risaputo che la risoluzione ONU 1973 del 17 marzo, cosiddetta “no-fly”, ha seguito in brevi tempi la minaccia pubblica di Gheddafi del 2 marzo di escludere le compagnie petrolifere occidentali dal mercato della Libia, e il suo invito del 14 marzo alle imprese cinesi, russe e indiane perché usufruissero al loro posto del petrolio libico. Significativamente, la Cina, la Russia e l’India (uniti al loro alleato del BRICS, il Brasile) si sono astenuti riguardo alla Risoluzione ONU 1973.

La questione del petrolio è strettamente collegata con l’andamento del dollaro, perché lo status del dollaro come valuta di riserva mondiale dipende in gran parte dalla decisione dell’OPEC di utilizzare il dollaro come moneta per gli acquisti di petrolio dall’OPEC. L’economia attuale dei petrodollari si basa su due accordi segreti stipulati con i sauditi negli anni settanta per riciclare petrodollari nell’economia degli Stati Uniti. Il primo di questi patti assicurava una partecipazione speciale e attiva dell’Arabia Saudita nel benessere del dollaro USA; il secondo garantiva un continuo supporto saudita per la determinazione del prezzo di tutto il petrolio dell’OPEC in dollari. Questi due accordi hanno assicurato che l’economia statunitense non sarebbe stata impoverita all’aumento dei prezzi del petrolio da parte dell’OPEC. Da quel momento il fardello più pesante ha iniziato quindi a gravare sulle spalle dalle economie dei paesi meno sviluppati, che necessitano di acquistare dollari per rifornirsi di petrolio.

Come ha sottolineato Ellen Brown, prima l’Iraq e poi la Libia hanno deciso di sfidare il sistema dei petrodollari smettendo di vendere il loro petrolio per dollari, poco prima di venire attaccati:

Kenneth Schortgen Jr., scrivendo su Examiner.com , ha osservato che “[s]ei mesi prima che gli Stati Uniti entrassero in Iraq per far cadere Saddam Hussein, la nazione petrolifera aveva compiuto la scelta di accettare euro anziché dollari per il suo petrolio, e questa era divenuta una minaccia per l’egemonia mondiale del dollaro come valuta di riserva e per il predominio dei petrodollari.”

Secondo un articolo russo intitolato “Bombing of Lybia – Punishment for Qaddafi for His Attempt to Refuse US Dollar”, Gheddafi ha fatto, similmente, un passo molto coraggioso: ha avviato un movimento per rifiutare il dollaro e l’euro, e ha invitato i paesi arabi e africani a usare invece un nuova moneta, il dinaro d’oro. Gheddafi ha suggerito la costituzione di un continente africano unito, i cui 200 milioni di abitanti utilizzino quest’unica moneta comune […] L’iniziativa è stata percepita negativamente dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, e il presidente francese Nicolas Sarkozy ha definito la Libia una minaccia per la sicurezza finanziaria del genere umano; ma Gheddafi ha continuato la sua spinta per la creazione di un’Africa unita.

E questo ci riporta all’enigma della banca centrale libica. In un articolo pubblicato sul Market Oracle, Eric Encina ha osservato:

Un fatto raramente menzionato dai politici e dagli esperti della comunicazione occidentali: la Banca Centrale della Libia è al 100% di proprietà dello Stato […] Al momento, il governo libico produce la propria valuta, il dinaro libico, attraverso i servizi della sua stessa banca centrale. Pochi possono mettere in dubbio che la Libia sia un paese sovrano, date le sue grandi risorse, in grado di sostenere il suo andamento economico. Un problema cruciale per i cartelli bancari globalisti è che per fare affari con la Libia devono passare per la Banca Centrale libica con la sua moneta nazionale, un ambito in cui non hanno assolutamente alcun potere o influenza. Quindi, l’abbattimento della Banca centrale di Libia (BCL) può non apparire nei discorsi di Obama, Cameron e Sarkozy, ma questo obiettivo è certamente al primo posto nell’ordine del giorno globalista di assorbire la Libia nel proprio alveare di nazioni sottomesse.

La Libia non ha solo il petrolio. Stando ai dati IMF, la sua banca centrale possiede nelle proprie camere blindate quasi 144 tonnellate di oro. Con una capitale di tale portata, chi ha bisogno del BIS (Bank of International Settlements), dell’IMF e delle loro regole?

La recente proposta di Gheddafi di introdurre il dinaro d’oro per l’Africa ripropone l’idea di un dinaro d’oro islamico ventilata nel 2003 dal Primo Ministro malesiano Mahatir Mohamad, oltre che da alcuni movimenti islamisti. Tale intenzione, che contraddice le regole dell’IMF ed è concepita per bypassarle, ha avuto problemi nella sua introduzione. Ma oggi le nazioni che stanno accumulando sempre più oro invece che dollari non sono solo Libia e Iran, ma anche Cina, Russia e India.

La scommessa della Francia per porre fine alle iniziative africane di Gheddafi

L’iniziativa di un attacco aereo è stata presa in primo luogo dalla Francia, che ha ottenuto supporto immediato dalla Gran Bretagna. Se Gheddafi avesse avuto successo nella creazione di un’Unione Africana, sostenuta dalla moneta e dalle riserve d’oro della Libia, la Francia, attualmente il potere economico predominante nella maggior parte delle sue ex colonie in centrafrica, sarebbe la prima a rimetterci. Per l’appunto un rapporto di Dennis Kucinich in America ha corroborato ciò che ha sostenuto Franco Bechis in Italia, trasmesso da VoltaireNet in Francia, che cioè “i piani per innescare la rivolta di Bengasi sono stati avviati dai servizi di intelligence francesi nel novembre 2010.”

Se l’idea di attaccare la Libia ha origine in Francia, Obama ha sostenuto rapidamente i piani francesi per frustrare l’iniziativa africana di Gheddafi con la sua dichiarazione unilaterale di un’emergenza nazionale, per far sì che venisse congelata l’intera somma di 30 miliardi di dollari della Banca di Libia a cui gli Stati Uniti avevano accesso. (Questo è stato riportato in maniera fuorviante dalla stampa statunitense come un congelamento dei fondi “del Colonnello Gheddafi, dei suoi figli e della sua famiglia, e dei membri chiave del governo libico.” Ma in realtà la seconda sezione del decreto Obama si riferiva esplicitamente a “tutti i beni e gli interessi […] del governo della Libia, le sue agenzie, i suoi mezzi, e le entità sotto il suo controllo, oltre alla Banca Centrale di Libia”). Siccome gli Stati Uniti hanno usato attivamente armi finanziarie negli ultimi anni, il blocco dei 30 miliardi di dollari, “la più grande quantità di sempre ad essere congelata da un ordine di sanzione degli Stati Uniti”, ha un precedente, il blocco, dalla contestabile legalità e dalla certa natura cospiratoria, dei beni iraniani nel 1979 per conto della Chase Manhattan Bank, minacciata dalle iniziative iraniane.

Le conseguenze per l’Africa, come per la Libia, del congelamento dei 30 milioni di dollari, sono state messe in luce da un’osservatrice africana:

I 30 milioni di dollari americani congelati da Obama appartengono alla Banca Centrale di Libia ed erano stati contrassegnati come un contributo libico a tre progetti chiave che avrebbero dato il tocco finale alla federazione africana – l’African Investment Bank a Sirte, in Libia, l’istituzione nel 2011 dell’African Monetary Fund, che avrebbe dovuto avere sede a Yaounde con un fondo di 42 milioni di dollari americani, e la Africa Central Bank, con base ad Abuja, in Nigeria, la quale, qualora avesse iniziato a stampare la valuta africana, avrebbe inferto il colpo mortale al franco CFA, con il quale Parigi è stata in grado di mantenere la sua presa su alcuni Stati africani negli ultimi cinquant’anni. È facile intuire il motivo della collera francese contro Gheddafi.

La stessa osservatrice esprime le sue motivazioni per credere che i piani di Gheddafi fossero più positivi di quelli occidentali:

Tutto è cominciato nel 1992, quando 45 nazioni africane hanno fondato il RASCOM (Regional African Satellite Communication Organization) in modo che l’Africa avesse un proprio satellite riuscendo ad abbattere i costi della comunicazione nel continente. Questo nel momento in cui le chiamate telefoniche dirette in Africa o provenienti dal continente erano le più costose al mondo per via della tassa di 500 milioni di dollari americani imposta dall’Europa per l’uso dei suoi satelliti come Intelsat per le conversazioni telefoniche, comprese quelle nazionali.

Un satellite africano avrebbe un costo di soli 400 milioni di dollari americani da spendere una sola volta, e in questo modo il continente non dovrebbe più pagare i 500 milioni di dollari annui di affitto. Quale banchiere non finanzierebbe un progetto del genere? Ma il problema rimase – come possono degli schiavi, alla ricerca di libertà dallo sfruttamento del proprio padrone, chiedere l’aiuto del padrone stesso per raggiungere tale libertà? Non sorprende quindi che la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, gli USA, l’Europa si siano limitati a fare vaghe promesse per quattordici anni. Gheddafi ha posto fine ai futili pretesti dei “benefattori” occidentali per i loro esorbitanti tassi d’interesse. La guida libica ha messo sul tavolo 300 milioni di dollari; l’African Development Bank ha aggiunto altri 50 milioni e la west African Development Bank ulteriori 27 milioni – ed è così che l’Africa ha ottenuto il suo primo satellite per le comunicazioni il 26 dicembre 2007.

Non sono nella posizione di corroborare tutto ciò che l’autrice sostiene. Ma, per queste ed altre ragioni, sono convinto che l’azione occidentale in Libia sia stata progettata per smorzare i piani di Gheddafi per un’Africa autenticamente post-coloniale, e non solo le azioni minacciate contro i ribelli a Bengasi.

Conclusioni

Da tutta questa confusione e da tutto questo travisamento concludo che gli Stati Uniti stanno perdendo la loro capacità di rafforzare e mantenere la pace, sia da sé che tramite i loro alleati dichiarati. Vorrei far notare che, anche se solo per stabilizzare e ridurre i prezzi del greggio, è nell’interesse degli USA unirsi a Ban Ki-Moon e al Papa nel fare pressione per un immediato cessate il fuoco in Libia. Negoziare una tregua presenterebbe sicuramente dei problemi, ma la probabile alternativa alla conclusione del conflitto è l’incubo di vederlo inesorabilmente crescere. L’America è passata per la medesima situazione con tragiche conseguenze. Non vogliamo vedere simili tragedie, occorse per l’interesse di un ingiusto sistema di petrodollari , i cui giorni sarebbero comunque contati.

A rischio non è soltanto la relazione dell’America con la Libia, ma anche con la Cina. L’intera Africa è un’area in cui sia le nazioni occidentali che quelle del BRIC si ritroveranno ad investire. Si stima che già solo una Cina affamata di risorse investirà qualcosa come 50 milioni di dollari all’anno dal 2015, un ruolo (fondato sul deficit commerciale degli USA con la Cina) che l’Occidente non può assumere. Se l’Occidente e l’Oriente sapranno coesistere pacificamente in Africa in futuro, questo dipenderà dalla capacità dell’Occidente di accettare una graduale diminuzione della sua influenza sull’area, senza ricorrere a stratagemmi disonesti (siamo memori dello stratagemma anglofrancese a Suez nel 1956) per mantenerla.
Precedenti transizioni della supremazia globale sono state segnate da guerre, rivoluzioni, o da entrambe contemporaneamente. Il prevalere, in conclusione a due Guerre Mondiali, dell’egemonia americana sul potere imperiale inglese è stata una transizione tra due potenze che erano essenzialmente alleate e culturalmente prossime. Il mondo intero ha l’importantissima missione di assicurare che la difficile transizione ad un ordine successivo all’egemonia degli USA venga raggiunta in maniera più pacifica possibile.

Articolo originale: The Libyan War, American Power and the Decline of the Petrodollar System, pubblicato il 29 aprile, 2011.

Peter Dale Scott è dottore in scienze politiche, professore emerito di Letteratura inglese presso l’Università della California (Berkeley) ed ex diplomatico canadese. The Road to 9 / 11 è stato oggetto di una recensione elogiativa da parte del generale dell’aria (5 stelle) Bernard Norlain nella prestigiosa rivista National Defense Magazine, nel numero del marzo 2011.

 

[1] “McCain calls for stronger NATO campaign,” monstersandcritics.com, 22 aprile 2011.

[2] Ed Hornick, “Arming Libyan Rebels: Should U.S. Do It?” CNN, 31 marzo 2011.

[3] “Countries Agree to Try to Transfer Some of Qaddafi’s Assets to Libyan Rebels,” New York Times, 13 aprile 2011.

[4] “President Obama Wants Options as Pentagon Issues Warnings About Libyan No-Fly Zone,” ABC News, 3 marzo 2011. In precedenza, il 25 Febbraio, Gates ha sostenuto che gli USA avrebbero evitato guerre di terra, come quelle combattute in Iraq e Afghanistan, in futuro, ma non avrebbero potuto dimenticare la dura lezione che hanno appreso da queste difficoltà.

 

“A mio parere, qualunque futuro segretario alla Difesa che nuovamente suggerisse al presidente di organizzare un’altra imponente spedizione di terra in Asia o in Medio Oriente dovrebbe essere ‘esaminato da uno psichiatra’ come ha osservato delicatamente il generale MacArthur”, ha detto Gates in una conferenza ai cadetti a West Point” (Los Angeles Times, 25 Febbraio 2011).

[5] Alan J. Kuperman, “False Pretense for War in Libya?” Boston Globe, 14 aprile 2011.

[6] La differenza del reddito in America, come misurato dal coefficiente Gini, è attualmente tra le più alte al mondo, allo stesso livello di Brasile, Messico e Cina. Si veda Phillips, Wealth and Democracy, 38, 103; Greg Palast, Armed Madhouse (New York: Dutton, 2006), 159.

[7] Questo è l’argomento del mio saggio The Road to 9/11, 4–9.

[8] Anthony Cave Brown, Oil, God, and Gold (Boston: Houghton Mifflin, 1999), 213.

[9] Peter Dale Scott, American War Machine: Deep Politics, the CIA Global Drug Connection, and the Road to Afghanistan (Berkeley: University of California Press, 2010), 32. Si potrebbe anche citare l’esperienza della terza repubblica francese e della banca dell’Indocina, o della Compagnia delle Indie Orientali indocinese o olandese..

[10] Elizabeth Longford, Jameson’s Raid: The Prelude to the Boer War (London: Weidenfeld and Nicolson, 1982); The Jameson Raid: a centennial retrospective (Houghton, South Africa: Brenthurst Press, 1996).

[11] I documenti di Wikileaks dell’ottobre e novembre 2002 rivelano che Washington stava instaurando rapporti con alcune compagnie petrolifere prima dell’invasione dell’Iraq, e che il governo inglese ha fatto pressioni perchè la BP fosse inclusa in queste trattative (Paul Bignell, “Secret memos expose link between oil firms and invasion of Iraq,” Independent (London), 19 aprile 2011).

[12] Reuters, 23 marzo 2011.

[13] Saman Mohammadi, “The Humanitarian Empire May Strike Syria Next, Followed By Lebanon And Iran,” OpEdNews.com, 31 marzo 2011.

[14] “Halliburton Eager for Work Across the Mideast,” International Oil Daily, 7 maggio 2003.

[15] “Gaddafi offers Libyan oil production to India, Russia, China,” Agence France-Presse, 14 marzo 2011.

[16] Peter Dale Scott, “Bush’s Deep Reasons for War on Iraq: Oil, Petrodollars, and the OPEC Euro Question”; Peter Dale Scott, Drugs, Oil, and War (Lanham, MD: Rowman & Littlefield, 2003), 41-42: “Da questi sviluppi sono emersi due fenomeni gemelli, inpliciti nell’11 settembre: il trionfale unilateralismo degli USA da un lato, e dall’altro l’indebitamento globale del terzo mondo. I patti segreti hanno aumentato l’interdipendenza tra USA e Arabia Saudita a spese del comitato internazionale che è stato la base della prosperità statunitense fin dalla Seconda Guerra Mondiale.” Cfr. Peter Dale Scott, The Road to 9/11 (Berkeley: University of California Press, 2007), 37.

[17] “Globalists Target 100% State Owned Central Bank of Libya”.

[18] Ellen Brown, “Libya: All About Oil, or All About Banking,” Reader Supported News, 15 aprile 2011.

[19] Peter Dale Scott, “Bush’s Deep Reasons for War on Iraq: Oil, Petrodollars, and the OPEC Euro Question”; cit. “Islamic Gold Dinar Will Minimize Dependency on US Dollar,” Malaysian Times, 19 aprile 2003.

[20] “Gold key to financing Gaddafi struggle,” Financial Times, 21 marzo 2011.

[21] Franco Bechis, “French plans to topple Gaddafi on track since last November,” VoltaireNet, 25 marzo 2011. Cfr. Rep. Dennis J. Kucinich, “November 2010 War Games: ‘Southern Mistral’ Air Attack against Dictatorship in a Fictitious Country called ‘Southland,’” Global Research, 15 aprile 2011; Frankfurter Allgemeine Zeitung, 19 marzo 2011.

[22] New York Times, 27 febbraio 2011.

[23] L’Ordine Esecutivo del 25 febbraio 2011, citando l’International Emergency Economic Powers Act (50 U.S.C. 1701 et seq.) (IEEPA), il National Emergencies Act (50 U.S.C. 1701 et seq.) (NEA), e la sezione 301 del titolo 3 dello United States Code, blocca tutti gli assetti governativi libici, 25 febbraio 2011. L’autorità conferita al Presidente dall’International Emergency Economic Powers Act “può essere esercitata solamente nei riguardi di minacce inusuali e straordinarie, in rispetto al quale è stato dichiarato lo stato di emergenza nazionale secondo i propositi di questo capitolo, e non può essere esercitata per nessun altro proposito” (50 U.S.C. 1701).

[24]  “Billions Of Libyan Assets Frozen”, Tropic Post, 8 marzo 2011, (“largest amount”); Peter Dale Scott, The Road to 9/11: Wealth, Empire, and the Future of America (Berkeley and Los Angeles: University of California Press, 2007), 80-89 (Iranian assets).

[25] “Letter from an African Woman, Not Libyan, On Qaddafi Contribution to Continent-wide African Progress , Oggetto: ASSOCIAZIONE CASA AFRICA LA LIBIA DI GHEDDAFI HA OFFERTO A TUTTA L’AFRICA LA PRIMA RIVOLUZIONE DEI TEMPI MODERNI,” Vermont Commons, 21 aprile 2011.  Cfr. Manlio Dinucci, “Financial Heist of the Century: Confiscating Libya’s Sovereign Wealth Funds (SWF),” Global Research, 24 aprile 2011.

[26] Ibid. Cfr. “The Inauguration of the African Satellite Control Center,” Libya Times, 28 settembre 2009; Jean-Paul Pougala, “The lies behind the West’s war on Libya,” Pambazuka.org, 14 aprile 2011.

[27] Leslie Hook, “China’s future in Africa, after Libya,” blogs.ft.com, 4 marzo 2011 ($50 billion). Il deficit commercial degli USA con la Cina nel 2010 ha toccato I 273 miliardi di dollari.

Traduzione di Alessandro Parodi


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