Ogni Stato nazionale esercita il proprio potere e la propria influenza sugli altri attori internazionali attraverso due principali strategie: la prima, definita hard power, si basa sulla forza coercitiva che lo Stato pone in essere attraverso la forza militare; la seconda è invece definita soft power, in cui la capacità attrattiva dello Stato si esprime attraverso modalità che esulano da politiche aggressive e che ricorrono, ad esempio, all’intervento bellico. Il termine “soft power” fu coniato da Joseph Nye, professore universitario ad Harvard, per definire il modo in cui gli Stati raggiungono il proprio scopo nella politica internazionale attraverso un’azione persuasiva piuttosto che per mezzo della coercizione.

I governi hanno da sempre utilizzato il proprio potere militare ed economico per raggiungere gli obiettivi nazionali ed accrescere il proprio potere. Tuttavia, la diplomazia culturale, intesa come la possibilità per un paese di costruire efficacemente un’immagine favorevole di sé a livello internazionale, è sempre stata un punto focale della politica estera sin dai tempi dell’antica Grecia. L’esperienza ellenica, attraverso le poleis, e l’antica Roma con il suo impero, fecero della diplomazia un abile strumento di propaganda capace di garantire l’attrazione esercitata sui popoli assoggettati. Nel diciassettesimo secolo la Francia indicò le politiche di soft power tra le principali risorse per lo Stato centrale. Successivamente, nel periodo tra le due guerre, i Ministeri degli Affari Esteri di ogni Stato si dotarono di dipartimenti per la costruzione e la diffusione dell’immagine nazionale a livello internazionale. La nascita della radio apportò alla diplomazia culturale un poderoso strumento di comunicazione. Oggi, decenni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, l’uso del soft power si è affinato al punto di diventare fondamentale nella politica estera degli Stati moderni. In un mondo globalizzato caratterizzato da molteplici collegamenti transnazionali, gli strumenti diplomatici e dell’espressione della potenza statuale includono non solo l’”hard power”, ossia l’uso della forza militare ed economica per trattare o indurre altri a cambiare o rafforzare la propria posizione, ma anche il “soft power”, cioè l’abilità di ottenere i risultati desiderati attraverso la costruzione di un’immagine dello Stato attraente per l’opinione pubblica internazionale, piuttosto che tramite la coercizione e la riscossione di debiti contratti da parte di uno Stato nei confronti di un paese egemone. Gli Stati non devono solo gestire la propria forza militare, ma hanno anche la possibilità di esercitare una certa influenza a livello globale, tanto che l’abilità di influenzare gli altri attraverso la combinazione dell’hard e del soft power è stata denominata “smart power”.

Il soft power giapponese si è imposto in Asia per decenni e continua ancora oggi a costituire un nodo centrale nella costruzione dell’equilibrio regionale del Pacifico asiatico. La cultura tradizionale giapponese, insieme alle nuove tendenze sociali e al nuovo stile di vita del paese, fino ad arrivare al commercio degli ultimi prodotti di animazione, esercita una certa attrattiva per le popolazioni non giapponesi. Nonostante nell’ultimo decennio il crollo economico abbia rappresentato una battuta d’arresto per le politiche economiche giapponesi, le risorse e la forza del soft power rimangono intatte. L’influenza culturale a livello globale esercitata da parte del paese è cresciuta con una certa consistenza tra varie disavventure politiche ed economiche, e, a livello internazionale, in comparti che comprendono la moda, il cibo, la musica, il consumo elettronico, l’architettura e l’arte. La tradizionale disciplina spirituale come il Buddismo Zen e le arti marziali giapponesi hanno ispirato visitatori ed emulatori negli ultimi decenni. Inoltre, la ripresa giapponese della seconda metà del secolo ha reso il Giappone un luogo più sicuro economicamente, sostenendo lo sviluppo del soft power del paese. È altresì importante notare come il Giappone moderno sia assurto al rango di superpotenza culturale.

Il peso economico e diplomatico del paese del Sol Levante sembrava essersi ridotto di molto nell’ultimo decennio, anche in seguito all’emergere di due superpotenze economiche asiatiche come la Cina e l’India. Ciò nonostante il Giappone ha rafforzato la propria influenza negli ultimi dieci anni in una crescente varietà di aree culturali. Tra queste da annoverare sicuramente il commercio delle piattaforme multimediali di intrattenimento, le auto ibride, e punte di eccellenza come le green technology. I sondaggi dimostrano come il Giappone negli ultimi anni abbia accresciuto la propria influenza a livello planetario nel campo delle tecnologie prima annoverate. Un’indagine del 2009 effettuata dalla British Broadcasting Corporation dimostra come su 21 paesi il Giappone si attesti al quarto posto nella classifica riguardante il gradimento di un paese all’estero, mentre gli Stati Uniti siano meno popolari e si posizionino solo al decimo posto. In base a quanto affermato da Yoshikazu Tarui, membro del Partito Democratico e capo di un gruppo di parlamentari unitisi con lo scopo di promuove il Giappone ed i principali prodotti digitali, ha affermato che “il Giappone spicca per la sua cultura pop a livello internazionale, e che “i giapponesi hanno bisogno di trovare un significato che valorizzi questo vantaggio”. Ha poi aggiunto: “I prodotti di animazione giapponesi hanno raggiunto un riconoscimento a livello internazionale dovuto all’impegno nella qualità e nel dettaglio”.

Durante la bolla economica degli anni ’80, l’economia giapponese ha cercato di accrescere il giro d’affari proponendo all’estero i propri prodotti culturali, esercitando delle pressioni sugli altri paesi. Tuttavia, una volta la sua immagine di feroce competitor commerciale ha raggiunto una fase di declino, la reputazione del paese ha cominciato a cambiare volto e l’essenza di Tokyo come partner mondiale ad essere più largamente accettata. Si è così largamente diffusa la cultura pop giapponese, di pari passo con il commercio e l’utilizzo delle piattaforme multimediali di intrattenimento. Il soft power giapponese ha così mosso definitivamente i suoi primi passi ricavando un profitto economico elevato per il paese: secondo quanto affermato dalla Japan External Trade Organization, Tokyo ha venduto 6.5 milioni di prodotti legati all’industria del divertimento negli Stati Uniti solo nel 2008.

Shigeru Miyamoto, una delle figure più autorevoli della Nintendo, la famosa multinazionale produttrice di tecnologia, e l’artista Takashi Murakami, il quale si affida per la creazione dei suoi prodotti alla cultura ”otaku”, sono entrambi nella lista del settimanale Time delle 100 persone più influenti degli ultimi anni, accanto a Hayao Miyazaki, che vinse l’Oscar nel 2003 per il film di animazione “Spirited Away”. A dispetto dei film di animazione che hanno venduto meno negli Stati Uniti negli ultimi anni, lo stile giapponese dei “manga” ha avuto un grande successo: le vendite di fumetti “manga” in America del Nord sono triplicate da 60 milioni nel 2002 a 180 milioni nel 2005, raggiungendo i 200 milioni nel 2006. Nel suo libro del 2006, Tomoyuki Sugiyama, il fondatore di Digital Hollywood, una scuola di Tokyo per artisti e designers digitali, dal titoto “Cool Japan: Why the World is Buying Into Japan”, spiega in che grado ed in che termini le industrie possono giocare un ruolo chiave nel futuro economico del paese. Sugiyama afferma che l’evoluzione della tecnologia digitale ha accelerato l’integrazione delle industrie che precedentemente operavano in maniera indipendente, generando prodotti di maggiore complessità e favorendo in questo modo la fuoriuscita del Giappone dalla stagnazione economica. Ma che la visione di Sugiyama sia concretamente valida potrebbe dipendere in parte da quanta importanza il Partito Democratico Giapponese, attualmente al potere, dia all’evoluzione tecnologica.

Negli ultimi anni i prodotti industriali hanno vissuto un periodo di transizione. A causa dell’invecchiamento continuo e costante della popolazione giapponese, i produttori sono costretti ad adattare i prodotti per una clientela sempre più in là con l’età. Taizo Shinya, capo delle relazioni pubbliche dell’organizzazione non profit Visual Industry Promotion Organization (VIPO), ha affermato che per superare le difficoltà contingenti e per incrementare la competitività industriale a livello internazionale, sarebbero necessari degli aiuti da parte del governo e maggiori sinergie tra i diversi attori industriali. Con 130 membri associati, che includono i più grandi nomi tra i media giapponesi, la VIPO promuove l’industria del divertimento in Giappone, producendo film, anime, video games, musica e libri. “I governi di Corea del Sud, Cina, Stati Uniti e Francia – ha affermato Shinya – sono tutti attivamente coinvolti nella promozione industriale. Il Giappone, per rimanere competitivo, ha bisogno sia della cooperazione tra le varie industrie che del sostanziale aiuto da parte del governo”. Dal 2007, la VIPO partecipa alla CoFesta (Japan International Content Festival), un evento che si tiene ogni autunno per presentare le produzioni giapponesi in tutto il mondo. Il festival è cresciuto progressivamente: nel 2009, più di un milione di persone hanno assistito ai suoi 18 eventi, che includevano il Tokyo Game Show, il Tokyo International Film Festival e il Japan Fashion Week a Tokyo. Tomoharu Ishikawa, direttore della produzione di CoFesta, ha affermato che il Giappone, rispetto agli altri paesi, riceve molti meno sussidi per la produzione di contenuti artistici ed innovativi. “Tecnicamente, il governo dovrebbe investire di più nel coltivare le risorse umane e lo sviluppo di nuovi mercati” ha detto Ishikawa. “Abbiamo bisogno di un’organizzazione in grado di guardare oltre e aiutare l’industria intera”. La recessione però non semplifica la situazione, anzi rallenta i flussi finanziari diretti anche verso il Sol Levante, diminuendo gli emolumenti dell’indotto commerciale. La VIPO ha protestato per i tagli drastici della spesa statale sulla promozione dell’industria del divertimento a livello locale. Il Ministro dell’Economia, del Commercio e dell’Industria ha stanziato 1,87 miliardi di yen per il 2009, prevedendo dei tagli degli investimenti pari al 43% per il prossimo anno, in linea con il piano di austerità varato dal Governo. Il 10 Dicembre del 2009, in una dichiarazione indirizzata al Ministero, la VIPO ha sottolineato l’importanza della ricerca industriale, sostenendo che essa rappresenta uno dei settori fulcro per accrescere la competitività globale del paese e contribuire alla futura crescita giapponese: la diffusione della cultura giapponese nel mercato internazionale sarebbe dunque un’importante fonte di guadagno, grazie all’industria dell’intrattenimento e della tecnologia, determinando così l’aumento del PIL nazionale. Ishikawa ha poi affermato che il governo ha inteso l’importanza degli investimenti industriali culturali, ma si è ancora assistito a nessun sforzo tangibile in questa direzione. “Speriamo che il Partito Democratico Giapponese ci presenti una strategia di crescita plausibile” ha aggiunto. Tuttavia Tarui, il legislatore del vecchio governo del Partito Democratico, ha affermato che i politici giapponesi tendono a sottostimare l’importanza della cultura popolare. “In realtà, la competitività dell’industria dell’intrattenimento e il potere nazionale sono spesso proporzionati”. Il Giappone è determinato nel costruirsi un’immagine da paese leader nel campo della tecnologia. In questo senso, il governo è disposto ad investire in grande misura. Il potenziale c’è, e le multinazionali come la Sony e la Panasonic stanno compiendo passi da gigante per i prossimi appuntamenti di portata mondiale (basti ricordare l’idea della creazione di ologrammi dei calciatori in occasione dei Mondiali di calcio del 2020).

Il soft power giapponese emana anche da alcune delle sue politiche ufficiali come la sua “Costituzione Pacifica” e il suo supporto alle Nazioni Unite. La fornitura all’Ufficio per l’Assistenza e lo Sviluppo a molti paesi, così come i programmi di scambio supportati, come ad esempio la mobilità degli insegnanti stranieri in Giappone, hanno creato un immenso benessere. Il Giappone ha dato inoltre i natali a sette delle 25 aziende più importanti al mondo e a tre delle 25 multinazionali più rilevanti per marchio al mondo, ossia la Toyota, la Honda e la Sony. Tuttavia, nonostante il Giappone disponga di questa sua forte diplomazia culturale che si tramuta in potere economico, ci sono alcuni limiti allo sfruttamento di questo tipo di politiche. Il Giappone sta affrontando dei cambiamenti demografici molto importanti e la sua lingua nazionale non è parlata ovunque in tutto il paese, mentre la lingua inglese non è praticata in maniera efficiente, rendendo così difficile attrarre talenti da ogni parte del mondo nelle sue università. Inoltre, sebbene la cultura giapponese sia aperta alle influenze provenienti dall’estero, non c’è un supporto né politico né pubblico all’immigrazione e agli immigranti. Riconoscendo la necessità di relazioni pubbliche più forti, il Giappone si è mosso in maniera più decisa attraverso la campagna chiamata “Visit Japan”, per la quale ha stanziato 17 milioni di dollari. Ma se ciò potrebbe aiutare il settore turistico, la conferma di un soft power penetrante, nel lungo periodo, richiede un impegno maggiore, anche per quanto riguarda l’attitudine nei confronti degli stranieri. Alcune scelte politiche non del tutto condivisibili, come ad esempio le visite frequenti dell’ex primo ministro Koizumi a Yasakuni, un santuario scintoista dedicato alle vittime militari e civili perite in combattimento per la difesa dell’imperatore, hanno ridotto la popolarità del Giappone nella regione asiatica del nord est e del sud est e hanno allentato l’effetto positivo del soft power nella cultura. Tuttavia, la popolarità crescente della moderna cultura giapponese può aiutare a compensare la negatività che circonda gli storici problemi legati a quanto accaduto in situazioni di conflitto nei secoli precedenti, colmando le inimicizie presenti in particolare con la Cina e la Corea. Dall’altro lato, il suo soft power culturale produce già dei dividendi per il suo potere economico complessivo.

I limiti del soft power giapponese

Sin dalla prima guerra del Golfo, alcuni conservatori giapponesi come Ichiro Ozawa, leader del Partito Democratico del Giappone, hanno sostenuto l‘idea che il Giappone divenisse una nazione “normale”, intendendo per tale uno Stato che respingesse l’articolo 9 della Costituzione ed aumentasse le sue capacità militari, in maniera tale da partecipare attivamente alle operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite. Dato che il Giappone è situato in un contesto regionale pericoloso e che gli Stati Uniti vogliono farsi carico del grosso fardello rappresentato dalle politiche di sicurezza nella regione, i difensori dell’hard power affermano che il Giappone non può più nascondersi a lungo dietro il suo pacifismo unilaterale. Un analista della CIA, William Middlebrooks, a tal proposito, ha affermato che il Giappone dovrebbe abbandonare il dettato dell’art.9 Cost. affrontando i sospetti diffusi tra i giapponesi che costituiscono effettivamente un grande ostacolo. I leader giapponesi, dal canto loro, si scontrano con la questione, ormai divenuta di ordine pubblico, sulla difficoltà di una crescente cooperazione con gli Stati Uniti nell’ambito della sicurezza (si deve ricordare a tal proposito la querelle sulla base di Okinawa), e continuano a nutrire forti dubbi sullo svolgimento delle guerre in Iraq ed in Afghanistan. Da un punto di vista regionale, è chiaro come sia diffuso un forte anti-nazionalismo giapponese, e che divenga sempre più necessario un piano di sicurezza maggiormente efficace. Il saggio edito da Yasushi Watanabe e David L. McConnell, dal titolo “Soft Power Superpowers” riassume le tematiche più pregnanti del connubio tra soft power ed hard power nel sud-est asiatico, andando al cuore del problema. Di fatto, si legge nel saggio, non c’è nulla che suggerisca l’assunzione a superpotenza per il Giappone, sebbene il suo fascino sulla cultura internazionale rimanga indiscusso. Tra l’altro, gli autori si focalizzano perlopiù sui limiti del soft power piuttosto che sulle sue reali possibilità. Uno dei nodi gordiani della questione è rappresentato dal fatto che gli strumenti di soft power, in molti casi, non sono sotto il controllo del governo, e che gli esecutivi, per cercare di applicare tali strumenti, rischiano di perdere la propria legittimazione e la propria influenza. In termini di soft power, i “manga” e le “anime” non possono tradursi in una reale influenza dello Stato sulle altre nazioni, e, come affermano Yoshiko Nakano e Anne Allison, è un errore credere che la cultura stabilisca una chiara corrispondenza con la nazione o possa essere utilizzata dalle autorità. Naoyuki Agawa, funzionario presso l’Ambasciata giapponese a Washington dal 2002 al 2005, descrive come il Giappone effettivamente intraprenda misure di diplomazia culturale con gli Stati Uniti per migliorare l’immagine che il Giappone ha in America, modellando così di conseguenza le politiche di governo. Ma Yasushi Watanabe nota a sua volta come la percezione della cultura giapponese negli Stati Uniti sia fortemente deteriorata. Il saggio getta dunque chiarezza sulla globalizzazione della patrimonio culturale giapponese, e dimostra come il soft power del Sol Levante disponga ad oggi di potenzialità limitate.


* Alessia Chiriatti è dottoressa in Sistemi di comunicazione delle relazioni internazionali (Università per stranieri di Perugia)


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