Questo articolo tratta della situazione attuale in Asia centrale dove l’influenza della Cina, rafforzata dalla “primavera” araba e dalle preoccupazioni della Russia sul fronte occidentale, sta crescendo esponenzialmente. Tuttavia, non è pacifico se questa situazione sia vantaggiosa o meno per la Cina, perché l’influenza estrema significa anche isolamento e sfiducia.

 


Mentre le proteste antigovernative percorrono il Medio Oriente e gli esperti si chiedono fino a dove possano diffondersi, i regimi dell’Asia centrale stanno consolidando il loro potere. In mezzo alle incertezze createsi dopo l’esplosione in Egitto e Tunisia, l’inizio dell’operazione militare in Libia e gli scontri tra gli oppositori e gli esponenti dei regimi al potere in Yemen e Siria, le cinque repubbliche a sud della Russia che negli anni sovietici erano sotto il suo pieno controllo prima di ritrovare col crollo del vasto impero comunista la propria libertà, cercano di nuovo un alleato forte e sicuro. Certo è che la Russia non è più in grado di assumersi le responsabilità per la sicurezza della regione in cui il suo interesse materiale si rivela abbastanza limitato, anziché ovviamente minimo.

Perché la Cina?

La scelta logica della Cina in quanto nuovo difensore dello status quo nella regione ricca di risorse minerali che rappresenta un facile accesso al Medio Oriente si impone sempre più evidentemente. Per quelli che pensavano finora che la Russia potesse continuare ad essere impegnata nel proteggere i regimi centroasiatici dal pericolo di una “primavera”, bensì “un’estate araba”, la smentita viene dalla recente conferenza stampa del presidente russo Dmitri Medvedev.

Lui ha dichiarato che se gli Stati Uniti non rivedessero i loro piani per il sistema anti-missile in Europa Orientale, Mosca potrebbe fare un nuovo ricorso al discorso della guerra fredda, oggi superata da molti anni, per non rischiare la propria sicurezza vicino ai suoi confini occidentali. Questo significa che, nel caso che l’amministrazione Obama o quella che le succederà fosse pronta a pagare il prezzo di un confronto eventuale con la Russia, tutte le forze di questa ultima, diplomatiche e militari, sarebbero dirette a ovest. Mentre la Russia, indebolita dalla crisi economica e finanziaria degli ultimi anni, continua a fare come i gamberi laddove si fanno vedere i primi segni del pericolo potenziale portato dall’ondata rivoluzionaria, è dalla Cina che viene l’assicurazione. E anche le garanzie di una stabilità per i regimi attuali.

Per comprendere a fondo questo fenomeno, basterebbe chiedersi in quali paesi abbiano fatto visita i presidenti dei due paesi più importanti dell’Asia centrale – il Kazakistan e l’Uzbekistan – nei primi quattro mesi dell’anno 2011. Immancabilmente in Cina. E questo mentre le proteste massicce si svolgevano nel mondo arabo. Nel corso del suo incontro con il presidente e il primo ministro cinesi, Nursultan Nazarbaev che era in Cina dal 21 al 23 febbraio ha stabilito un paio di accordi importantissimi per la sopravvivenza del paese gravemente colpito dalla crisi economica, soprattutto in due settori relativamente deboli, il settore bancario e quello edilizio. Nell’aprile 2009, la Cina aveva già accordato un prestito di 10 miliardi di dollari al Kazakistan di Nazarbaev. Ma questi soldi sarebbero investiti nel settore energetico dove la Cina si avvale di un dominio assoluto dopo avere acquisito due anni fa il 50% del capitale nella MangistauMunaiGas.

Kazakistan e Uzbekistan nel mirino della strategia cinese

Oggi la Cina sostiene il suo vicino strategico attraverso un altro prestito di 1,7 miliardi di dollari a favore della società kazaka Sovereign Welfare Fund Samruk Kazyna. Altri 5 miliardi di dollari saranno utilizzati per attuare la costruzione di un complesso petrochimico ad Atyrau, accanto al Mar Caspio. Nel momento in cui la politica ufficiale dello stato parla del promuovere la diversificazione dell’economia nazionale per il tramite dello sviluppo più vigoroso dei servizi e dei settori “intellettuali”, la Cina sta sponsorizzando quella che si potrebbe chiamare la sua stessa industria, ma all’estero. Il presidente Nazarbaev ha anche fatto sapere che il suo paese, il cui sottosuolo racchiude oltre il 19% di uranio mondiale, vorrebbe aumentare le esportazioni di questa sostanza radioattiva verso la Cina a cui ne fornirà il 40% della sua domanda totale nell’arco di qualche anno. Un buon affare, ma questo non servirebbe per niente alla diversificazione dell’economia kazaka perché nessun valore intellettuale sarebbe creato. E’ vero che la stessa situazione potrebbe crearsi nei confronti di un qualsiasi partner esterno, sia europeo che americano, a patto che quello sia pronto ad investire miliardi di dollari o euro laddove la Cina lo sta già facendo. Ma la lontananza geografica e le conseguenze della crisi economica, particolarmente nell’Ue dove le finanze della Grecia, dell’Irlanda e del Portogallo sono in rosso da tempo, impediscono a simili progetti di realizzarsi nel contesto attuale.

I contatti fra l’Uzbekistan e la Cina sono altrettanto stretti. Il 19 e 20 aprile 2011 il presidente uzbeko Islam Karimov ha fatto firmare, durante la sua visita a Pechino, numerosi accordi bilaterali che valgono oltre 5 miliardi di dollari e riguardano, tra l’altro, la cooperazione energetica (a favore della Cina ovviamente) e commerciale (per il tramite dell’aumento delle importazioni cinesi in Uzbekistan). Nonostante il servizio stampa della presidenza uzbeka parli ancora degli accordi importanti concernenti le alte tecnologie e progetti scientifici, non ci si presta molta attenzione, poiché non è difficile capire quale dei due paesi sarà all’inizio dello scambio di quello che caratterizza oggi lo stato moderno e competitivo. La vera cooperazione tra i due governi risale al 14 dicembre 2009 quando i presidenti del Kazakistan, dell’Uzbekistan e del Turkmenistan hanno inaugurato un nuovo gasdotto che parte dal territorio dell’ultimo dei tre e, attraversando le terre kazaka e uzbeka, trasporta il gas centroasiatico fino alla provincia cinese dello Xinjiang. Per Pechino, una tale cooperazione rafforzata significa la possibilità di utilizzare a suo piacimento le risorse minerali dell’Asia Centrale quasi illimitatamente sapendo che i regimi al potere ne sono soddisfatti.

Kirghizistan, Turkmenistan e Tagikistan: economia prima che politica

Gli altri tre paesi dell’Asia Centrale – il Kirghizistan, il Turkmenistan e il Tagikistan, pur essendo praticamente presenti nella strategia cinese per la regione, lo sono per la sola ragione di appartenere a un complesso geografico unico e indivisibile. Le relazioni economiche tra la Cina e il Kirghizistan erano relativamente deboli prima del 2004, quando il commercio bilaterale ha incominciato a intensificarsi per raggiungere alla fine del 2008 1,453 miliardi di dollari, di cui oltre 1,1 miliardi provengono dalle importazioni cinesi in Kirghizistan. Inoltre, il settore aurifero del paese centroasiatico si trova oggi quasi completamente in mano ai Cinesi. Cioè, la stessa dipendenza dai capitali provenienti dal Regno di Mezzo per sviluppare quello che verrà consumato dall’economia cinese.

Le relazioni con il Tagikistan, il più povero paese della regione che mantiene fino a oggi forti legami culturali con l’Iran, si caratterizzano per il dominio assoluto della Cina nel commercio bilaterale. Nonostante sia fin troppo debole per poter rappresentare un qualsiasi vantaggio strategico per Pechino, le aziende cinesi sono presenti in tutti i settori più o meno importanti dell’economia tagika. Infatti, la Cina è la prima donatrice dei fondi e dei prestiti a tasso zero che, vista la ristrettezza dei mezzi del governo a Dushanbe, gli evitano di rivolgersi alle istituzioni internazionali, come la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, le cui offerte sono troppo care per il budget del paese. A differenza del Tagikistan, il Turkmenistan gioca un ruolo particolare nell’assicurare il buon funzionamento delle industrie cinesi che consumano annualmente tonnellate di gas naturale per far tornare le loro macchine. Invece di vendere all’ovest dove la Russia blocca il trasporto del gas turkmeno ai prezzi che le sembrano troppo bassi per il suo transito, Ašgabat ha trovato un nuovo partner affidabile e interessato nella Cina di oggi, cauta ma pignola, prudente e sicura di sé. Almeno per quanto riguarda gli affari economici.

Rabbia e sfiducia: un’altra “primavera”?

Alla luce di quanto detto, la dipendenza dell’Asia Centrale dalla Cina non pare più un’ipotesi o un’esagerazione. Questo scenario viene rafforzato dalla stessa “primavera” araba che intimidisce i regimi e li fa agire più energicamente di prima per riempire il vuoto lasciato dalla Russia dopo il suo ritiro dagli affari regionali. Ma la consolidazione del potere dei regimi centroasiatici con l’aiuto di Pechino e a discapito di tutti gli altri giocatori di ciò che alcuni chiamano con gusto il Nuovo Grande Gioco, potrebbe rappresentare un pericolo di altro genere.

A dimostrarlo è stata l’opposizione al regime di Nazarbaev che ribadisce ancora oggi le sue promesse di scendere in piazza per protestare contro un “patto” segreto (presuntamente concluso quando il presidente era in Cina) secondo il quale Pechino riceverebbe un milione di ettari di terra kazaka per la sua agricoltura. Benché siano fondate sulle affermazioni non verificate dell’ex-genero di Nazarbaev, Rakhat Aliev, che fu una volta l’ambasciatore del Kazakistan in Austria, queste minacce echeggiano in seno ai diversi movimenti sociali, confermando la profonda paura della Cina da parte della popolazione kazaka. Il Kirghizistan rappresenta un altro possibile focolaio di proteste popolari, vista la sua tragica esperienza del luglio 2010 quando nel sud del paese sono scoppiati scontri sanguinosi con la minoranza uzbeka, tradizionalmente ben rappresentata nel settore del commercio.

L’influenza diretta esercitata dalla Cina sulle economie delle repubbliche centroasiatiche potrebbe anche suscitare un’onda di malcontento violento che sradicherebbe gli stessi regimi, accettati finora a condizione che i loro rapporti coll’estero siano equilibrati. Per non vedersi opporsi la maggioranza della popolazione della regione, la Cina continua, come sempre, a tenere un profilo basso nella sfera politica smentendo con forza tutte le “dicerie” nei suoi confronti. Nello stesso tempo nuovi accordi sono firmati e l’influsso di commercianti cinesi sta aumentando. In queste circostanze, Pechino dovrebbe far prova di molta prudenza affinché non si cominci a parlare di una “primavera” centroasiatica, pericolosa non solo per gli interessi cinesi ma anche per gli altri coinvolti.

 


*Georgiy Voloshin è field reporter per la Central Asia-Caucasus Analyst, rivista bisettimanale pubblicata dal Central Asia-Caucasus Institute & Silk Road Studies Program Joint Center.

 


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